Guareschi, l’intellettuale di razza
contro la razza degli intellettuali


di Alessandro Gnocchi



Pubblicato il 26 giugno 2019 sul sito
Ricognizioni

 
I neretti sono nostri






Per concessione dell’editore Rizzoli, pubblichiamo la prefazione di Alessandro Gnocchi al volume di Giovannino Guareschi L’Italia sulla graticola. Scritti e disegni per “il Borghese”(1963-1964).

A conti fatti, sono tre le prigionie attraverso cui è passato Giovannino Guareschi nei suoi sessant’anni di vita. Quella dei lager tedeschi, dal 1943 al 1945, che affrontò con il preciso programma di non morire neanche se lo avessero ammazzato. Quella della galera italiana, dal 1954 al 1955, in cui si fece rinchiudere spiegando che, per rimanere liberi, bisogna a un bel momento prendere senza esitare la via della prigione. E poi quella senza reticolati e senza sbarre, fatta di silenzi, reticenze e censure, che la politica, naturalmente democratica e antifascista, gli costruì attorno nell’ultimo decennio della sua vita con la complicità dell’apparato culturale di riferimento.

Nella prima entrò da soldato per mantenere fede al giuramento di ufficiale del regio esercito italiano. Ne uscì dopo aver scoperto che il vero Giovannino era quello della totale fiducia nel Padreterno e nella sua Provvidenza, così timoroso di trovarsi nuovamente impigliato nelle lusinghe del mondo da scrivere nel Diario clandestino: «Buon Dio, se deve essere così, prolunga all’infinito la mia prigionia, non togliermi la mia libertà».

Nella seconda entrò da giornalista, condannato per la pubblicazione di due compromettenti lettere autografe di Alcide De Gasperi di cui mai fu dimostrata la falsità.
Prese la via del carcere senza ricorrere al secondo grado di giudizio. No, niente appello, titolò sul «Candido» il pezzo in cui spiegava la sua scelta, dicendo che non si trattava di riformare una sentenza, ma un costume. Dopo 409 giorni di galera, uscì segnato per sempre nel fisico e nel morale, ma capace di non odiare nessuno, come il Giovannino tornato dalla prigionia in Germania.
Nella terza, entrò da intellettuale. La definizione non è di quelle che amava perché alle persone perbene piace poco la razza degli intellettuali, ma bisogna pure che qualcuno cominci a usarla per riconoscere il valore di quanto quest’uomo pensò, scrisse e fece nei vent’anni tra il 1948 e il 1968. Serve solo precisare che Guareschi non apparteneva alla razza degli intellettuali che vivono in branco e sono organici a un potere o a un contropotere in grado di riconoscere ruoli e distribuire prebende, ma era un intellettuale di razza, esemplare solitario votato a un pensiero critico tanto sul potere quanto sul contropotere, diversi soltanto nel segno. Da quest’ultima prigionia Giovannino uscì per andare a riposare al cimitero delle Roncole, il 24 luglio 1968, con la sua Messa, il suo stemma, i suoi figli, la sua gente, tutta roba scartata da sistema e antisistema. Anche fin lì ci arrivò senza aver odiato nessuno.

Il Guareschi del «Borghese», quello che mise l’Italia sulla graticola, è il Guareschi della terza prigionia, la più feroce. Durante le prime due, nei lager tedeschi e nella galera italiana, era riuscito a vivere la vocazione alla clandestinità, la capacità di «vivere senza menzogna» cara a Solženicyn, che l’intellettuale di razza esercita quando gli altri si rassegnano anche al solo silenzio connivente.
Il Diario scritto lassù in Polonia e in Germania, la sopravvivenza del «Candido» assicurata nonostante la reclusione nel carcere di Parma ne sono la testimonianza. Poi i reticolati e le sbarre furono sostituiti da un’indifferenza creata su misura per far evaporare la clandestinità al pallido sole di un’ostentata tolleranza del potere e del contropotere. L’operazione arrivò quasi a compimento se, nel gennaio del 1968, pochi mesi prima di morire, l’uomo delle Roncole scriveva a un amico: «Io vivo isolato come un vecchio merlo impaniato sulla cima di un pioppo. Fischio, ma come faccio a sapere se quelli che stanno giù mi sentono fischiare o se mi scambiano per un cornacchione?».

Gli anni della collaborazione di Guareschi con il settimanale di Mario Tedeschi e Gianna Preda, dal 1963 al 1968, erano quelli in cui politica, religione, economia, cultura, morale portavano a maturazione il grande compromesso e ne furono segnati.
Sul finire del 1963, il democristiano Aldo Moro varò il primo governo di centrosinistra con socialisti, socialdemocratici e repubblicani. Dall’anno precedente, a Roma, era in corso il Concilio Vaticano II, dal quale la Chiesa, entrata cattolica e avversa alla modernità, sarebbe uscita ecumenica e abbracciata al mondo. La nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, avvenuta nel 1962, aveva segnato definitivamente l’ingresso dello Stato nell’economia. Parlamento e Chiesa, editori e premi letterari, cinema e musica, scuola e costume, tutto si buttava a sinistra respirando quell’aria di Sessantotto che aveva iniziato a spirare molto prima del Maggio francese.

Il mondo cosiddetto conservatore procedeva nella stessa direzione, limitandosi a innestare una marcia più lenta, salvando un po’ di apparenza e qualche rendita. Una forma di bigottismo dal discreto appeal in un Paese cattolico e poco incline alle rivoluzioni come l’Italia, il cavallo di Troia perfetto per traghettare a sinistra i consensi raccolti a destra. Resisteva solo chi aveva le idee chiare e quella vocazione alla clandestinità che di un prete fa un prete di razza, di un politico fa un politico di razza, di un intellettuale fa un intellettuale di razza e di un fedele, un cittadino, un lettore fa un fedele, un cittadino, un lettore di razza.

Dopo la chiusura del «Candido» nel 1961, Guareschi trovò nel «Borghese» il luogo in cui difendere a suo modo quella razza in estinzione: 172 articoli e 217 vignette in sei anni, di cui questo volume raccoglie quelli del 1963 e del 1964, impreziositi dal ripristino dei pezzi tagliati.

Cominciò con l’identikit degli artefici del compromesso in un pezzo del 28 febbraio 1963 intitolato I giovani nuovi: «Naturalmente è bene precisare che questi giovani nuovi sono democristiani di sinistra e, anche fisicamente, appartengono a un tipo tutto particolare che fa pensare a monsignor Capovilla o al futuro Papa Montini: testa quadra su collo magro, capelli corti a spazzola, occhiali. Qualcosa che sta fra il pollo spennato e il rapace. Sono giovani preparati, che hanno il taglio perfetto del funzionario di partito. Sono scaltrissimi nelle schermaglie verbali: parola facile, citazioni pronte, ogni obiezione prevista e studiata».

Il nuovo mondo annunciato da simili apostoli era inquietante: «Quando la confusione avrà raggiunto l’intensità sufficiente, avremo il trionfo completo e clamoroso del Regime e non potremo nemmeno raccomandarci l’anima a Dio per non correre il rischio d’essere accusati di eresia. Il momento si avvicina. Non per niente, col beneplacito e i quattrini della Autorità Religiosa, hanno commissionato un film sul Vangelo a P.P. Pasolini».

Bastano questi due passaggi per mostrare con quale chiarezza Guareschi avesse individuato la matrice religiosa del disastro in atto. Neanche gli uomini di chiesa più sinceramente ostili alla deriva progressista avevano compreso la natura del fenomeno e le sue ramificazioni. Pensavano che bastasse l’opera di qualche uomo di fiducia per evitare alla Democrazia cristiana di finire nelle braccia del Partito comunista e che fosse sufficiente trovare i presidenti giusti per evitare alle conferenze episcopali di deragliare. Non bastava.

Nel mondo cattolico era già in atto una divisione che pochi vedevano e nessuno osava denunciare. Lo fece lui, in splendida solitudine, il 14 novembre 1963 titolando “Le due Chiese” un inesorabile capitolo della rassegna periodica “Il Bel Paese”: «Bisogna purtroppo prendere atto che esistono due Chiese cattoliche: la Chiesa della Chiarezza e la Chiesa dell’Ambiguità. La prima è conosciuta come Chiesa Martire (un tempo era detta Chiesa del Silenzio) e il suo simbolo vivente è il Primate d’Ungheria Cardinale Mindszenty. La seconda è la Chiesa simboleggiata da quei Vescovi italiani che, nell’imminenza del varo del nuovo centrosinistra cattolico-marxista, ha lanciato ai cattolici italiani il famoso Messaggio che può essere interpretato in almeno quattro modi. […] La furberia di condannare il comunismo “ateo” permette di pensare all’esistenza di un comunismo “non ateo” e, quindi “buono”. L’astuzia di non parlare mai di marxismo per non dar fastidio ai marxisti rossi di Nenni e ai marxisti bianchi di La Pira, Sullo eccetera è sottilissima. Il Messaggio dei Vescovi italiani pare scritto non da autorevolissimi Ministri della religione di Cristo, ma da un qualsiasi Moro che impugnasse, al posto della penna, un’anguilla viva».

Gli occhi dell’intellettuale di razza avevano visto il grande inganno, quella sorta di monopartitismo imperfetto in cui preti e comunisti, clericali e anticlericali, maggioranza e opposizione, industriali e sindacati reggevano tutti lo stesso, redditizio sistema. La denuncia guareschiana del compromesso arrivò fino a mettere in discussione i vertici del sistema politico e, ancora più radicalmente, di quello ecclesiale.

Il 4 aprile 1963, nella lettera aperta al cardinale ungherese Jósef Mindszenty, rifugiato nell’ambasciata statunitense di Budapest per sfuggire alla persecuzione del regime comunista, scriveva: «Eminenza, apprendiamo che quattro K si sono coalizzati per convincerLa a uscire dal Suo rifugio e ad abbandonare l’Ungheria. E i quattro K sono Kruscev, Kennedy, Kadar e il Cardinale Koenig. Abbiamo letto sui giornali che Le verranno rivolte allettanti offerte: grazie all’interessamento di monsignor Capovilla, le Alte Gerarchie della Chiesa si impegnano a procurarLe una bella stanza con bagno e un buon impiego nella Biblioteca Vaticana. Noi La imploriamo di non abbandonare il Suo posto. In questo cupo periodo d’involuzione e di compromesso, noi cattolici d’Occidente guardiamo a Lei come a un faro che splende nella tempesta. Lei è la nostra luce. Lei è la nostra speranza. Lei è il simbolo della Chiesa Martire e vittoriosa. Della Chiesa di Cristo, che non accetta compromessi, perché si è con Dio o contro Dio e non esiste via di mezzo».

Era solo la premessa di un ragionamento che sarebbe giunto a conclusione sulle colonne del «Borghese» tre anni più tardi in una “Lettera a don Camillo”. «Lei ha il sacro terrore d’una divisione fra i cattolici. Ma, purtroppo, esiste già», avrebbe detto allora Guareschi al parroco di Mondo piccolo. Aggiungendo poi come sarebbe stato bello se il conclave, invece di eleggere papa il cardinale Montini, avesse eletto il cardinale Jósef Mindszenty. Il cattolico Guareschi non esitava a mettere da parte la figura di Paolo VI dicendo che per lui, e tanti altri cattolici refrattari alle nuove mode, il vero papa si chiamava Giuseppe, Mindszenty, appunto. Il papa dei fedeli che provavano disgusto davanti alle macchinette distributrici di ostie, alla tavola calda messa al posto dell’altare, alle messe ye-ye e ai patteggiamenti con gli scomu- nicati senza Dio. Intanto, l’apparato ecclesiale e i cosiddetti conservatori stavano ancora cercando di capire cosa fosse accaduto. Non che fosse facile vederci chiaro. Nella trappola del cattolicesimo con uso di compromesso era caduto anche Guareschi durante le elezioni del 1948. Lo mise nero su bianco l’11 aprile 1963 in un pezzo magistrale titolato “Autocritica”, che iniziava con una citazione: «Collega Togliatti, […] la civile convivenza che voi proponete e noi volentieri accettiamo, costituisce in confronto al passato un notevole progresso, che potrà farci incontrare più spesso lungo l’aspro cammino che dovremo percorrere per il riscatto del popolo italiano… Ma lassù sull’erta, e mi pare di vedere con gli occhi della Fede la Sua luminosa figura, cammina un altro Proletario, anch’egli israelita come Marx: duemila anni fa egli fondò l’internazionale basata sull’uguaglianza, sulla fraternità universale, sulla paternità di Dio e suscitò amori ardenti, eroismi senza nome, sacrifici fino all’immolazione…».

Erano parole di De Gasperi, quelle del discorso del 28 luglio 1944 al Teatro Brancaccio di Roma. Guareschi le conosceva benissimo, ma nella campagna elettorale del 1948 scelse ugualmente, lui monarchico, di sostenere la Dc, il partito di centro che, nel dichiarato disegno degasperiano, era in marcia verso sinistra. «Mea culpa. Anche io ho la mia grossa parte di responsabilità nella diffusione dell’equivoco che ha portato l’Italia alla tristissima situazione odierna. Sì, anche io ho validamente collaborato a ingannare la pubblica opinione presentando la Democrazia cristiana come l’unico schieramento politico in grado di costituire un valido argine contro il comunismo. Lo stramaledetto argine. […] Mea maximaculpa. […] La Dc acquistò nel 1948 il diritto ad avere dei voti che non le spettavano e, in nome del famigerato argine, coi voti delle destre la Dc è arrivata alla svolta a sinistra e a un programma comunista. Parlando in nome della Religione, della Chiesa, della democrazia, della libertà insidiate dal marxismo ateo, la Dc col nefasto Fanfani è arrivata a chiedere spudoratamente voti per attuare un regime in combutta coi marxisti. Mea culpa».

L’intellettuale di razza aveva compreso che l’anticomunista di professione aveva bisogno del comunismo per nutrire la sua esistenza politica, così come l’antiprogressista di professione aveva bisogno del progressismo per nutrire la sua esistenza ecclesiale. L’uno e l’altro vivevano dei privilegi di una battaglia che in realtà non combattevano pur traendone un’indecente immunità: «Sono più pericolosi i comunisti bianchi che i comunisti rossi perché, mentre i rossi rubano e pestano in nome dei diritti del popolo lavoratore, i bianchi rubano e pestano in nome della Giustizia di Dio e, perciò, se uno si difende, rischia di passare per un eretico e di venir lapidato».
L’acribia con cui Guareschi ha trattato questo argomento in un quadro più vasto, fatto di rigore, onestà e intelligenza, ha un solo paragone nel panorama italiano: Leonardo Sciascia, un altro raro caso di intellettuale di razza, così poco collettivo da trovare più ostilità che comprensione. Se si pensa a romanzi come Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Todo modo, Il contesto, si comprende veramente perché lo scrittore siciliano denunciò i «professionisti dell’antimafia» nel pezzo memorabile uscito il 10 gennaio 1987 sul «Corriere della Sera». L’articolo prendeva di mira la nomina di Paolo Borsellino a procuratore della Repubblica di Marsala suscitando uno scandalo che permise al suo autore di raccogliere nello spazio di una rassegna stampa un esercito di zelanti e agguerriti ex amici. Non gli si perdonava di aver eccepito sul metodo con cui veniva applicato il concetto di antimafia. E, addirittura, di aver mostrato come tale concetto fosse sufficiente a se stesso, al punto di autoalimentarsi e regolare dispoticamente l’azione di coloro che lo avevano coniato. Da strumento, spiegava Sciascia, era divenuto valore fondante del potere: «Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia cristiana: et pour cause, come si è tentato prima di spiegare».
Non si poteva trovare forma più scandalosa per denunciare il meccanismo perverso di un potere fondato sul prefisso «anti». Qualunque entità si metta al riparo della terroristica parolina non sarà tenuta a rispondere d’altro che della propria sopravvivenza prescindendo totalmente dalla realtà. Qualunque critica verrà sempre ridotta al revanscismo dell’odioso concetto a cui l’«anti» si oppone. E così, come da copione, Sciascia fu costretto a sopportare l’accusa di essere colluso con la mafia, lui che per primo ne aveva descritto la natura e la struttura.

Guareschi, allo stesso modo e svelando gli stessi meccanismi, mise villanamente il dito nell’occhio dell’anticomunismo di regime, che aleggiava in gran parte dentro quella Democrazia cristiana che tanto inquietava Sciascia. Non a caso, come lo scrittore siciliano fu accusato di rendere simpatica la mafia a causa del sicilianissimo don Mariano Arena nel Giorno della civetta, lo scrittore padano, fu accusato di rendere simpatici i comunisti a causa del padanissimo Peppone di Mondo piccolo.

Ma, a conti fatti, la premiata ditta Comunisti&Anticomunisti non aveva compreso che l’intellettuale di tale razza, quello che preferisce la durezza della verità alla tentazione del potere, ovunque venga rinchiuso continua a essere un uomo libero.

 



giugno 2019
AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI