Chiesa senza fede, popolo senza destino

di Alessandro Gnocchi



Pubblicato il 4 luglio 2019 sul sito
Ricognizioni


 
I neretti sono nostri






Ci fosse un popolo, le Carole Rackete navigherebbero al largo delle coste italiche e deporterebbero altrove il loro carico di ideologia umanitaria. Ma il popolo non c’è. L’Italia, come il resto dell’occidente postcristiano e postillimunista, è solo un agglomerato di atomi che non vuole pensieri mentre guarda l’ultima serie tv su Sky, gioca con lo smartphone e il sabato sera si gode un po’ di santa trasgressione secondo il magistero di Amoris Laetitia.
Società civile, insomma, in grado di ingurgitare, digerire ed espellere qualsiasi fremito identitario in nome di una carità ridotta a cedimento, di una virtù ridotta a vizio, di un credo ridotto a dialogo.

Non c’è più identità perché non c’è più una religione, non c’è più un destino perché non c’è più una fede, non c’è più un popolo perché non c’è più una chiesa. E così, davanti a quella che il  buon senso può solo chiamare invasione, sul bagnasciuga italiota il relitto dell’occidente offre comprensione e mendica clemenza presso uno straniero disegnato a propria immagine e somiglianza.
Empia illusione originata in un postcristianesimo dalla mente e dal cuore così deboli da aver abolito le differenze per il manifesto terrore di comprenderle e affrontarle.

Non c’è niente di pacifico nelle migrazioni di centinaia di migliaia di persone da un continente all’altro, da una cultura all’altra. Tanto più oggi, che i cosiddetti migranti approdano su una terra da cui la religione è stata bandita perché chi non crede non può essere padrone a casa propria e può solo soccombere davanti a chi una fede ce l’ha.
Sono le religioni e i loro simboli a governare il mondo e possono guidarlo verso il bene o verso il male a seconda che siano veri o falsi, buoni a cattivi, luminosi o orrendi.

La chiesa postcristiana e postvolterriana si è innamorata di un’illusoria “possibilità naturale” della convivenza pacifica fra genti che non hanno nulla in comune. Pastori e gregge, governanti e cittadini, inebriati dalle sirene di ogni genere di dialogo e di compromesso, sono ormai incapaci di comprendere il significato simbolico contenuto nello sbarco di uno straniero sul loro suolo.
Per quanto sia banalizzato dal linguaggio mediatico, il gesto di posare il piede su una terra nuova continua ad avere valenza religiosa che si traduce materialmente nella presa di possesso. Ma proprio in quanto gesto religioso non viene compreso in un luogo dove non c’è più fede. Raggiunge le corde di anime ormai non più abituate a vibrare davanti al senso del divino, cade in una indifferenza che nulla ha di santo e poi viene rivestito di un’attrattativa banalmente mondana che i latori del messaggio possono solo disprezzare come consenso alla resa incondizionata.

Suona duro ai cuoricini postcristiani, ma da un atto religioso ci si difende solo ponendo un atto religioso, alla fede si risponde con la fede, il simbolo si affronta con il simbolo. Quando San Francesco si trovò al cospetto del sultano, non si diede al dialogo e all’ascolto. Nella Leggenda maggiore San Bonaventura narra che il santo invitò il sovrano islamico ad accendere un gran fuoco e poi lo sfidò: “io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve tenere più certa e più santa”. E, davanti al diniego del re, San Francesco incalzò: “entrerò nel fuoco da solo. Se verrò bruciato, ciò venga imputato ai miei peccati; se invece la potenza divina mi farà uscire sano e salvo, riconoscerete Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio, come il vero Dio e signore, salvatore di tutti”. Nei suoi “Ricordi”, frate Illuminato chiosa che “Tutti gli astanti rimasero ammirati per le risposte di lui”. Altre fonti parlano della conversione del re musulmano che, per la prima volta, aveva percepito una pace nuova poiché aveva sentito parlare di una guerra nuova: l’una e l’altra estranee e antitetiche a quelle del mondo.

Vi lascio la pace, vi do la mia pace.” dice Gesù ai suoi discepoli “Non come la dà il mondo, io la do a voi”. In questa salvifica coroncina evangelica, il postcristianesimo ha finito per isolare il semplice termine “pace” evaporando il senso di un discorso così eloquente da essere persino didascalico: dal seguace di Cristo si esige la costante lotta con il mondo, poiché non vi è pace senza guerra. Ma questa è un’evidenza dalla quale il postcristiano preferisce ritrarsi accontentandosi dell’illusoria tregua offerta dal mondo, imitazione scimmiesca di quella lasciata dal Salvatore.

Il dovere di difendere la propria terra e la propria fede non può essere abbracciato da un agglomerato di individui dall’ego bulimico e tremebondo che non vuole guerre per sé e non lo interessano quelle altrui. L’occidente in rovina trova sempre più fascinosa la tentazione di un cristianesimo senza Cristo, di una fede senza Cielo, di una morale senza doveri, di una religione senza ascesi ed è ammaliato dall’anticristo che gli sussurra dolcemente “Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace”.

Ma questa non è più la terra dei popoli, ormai decostruiti da chi ha maneggiato perversamente i concetti di “popolo di Dio” e di “popolo lavoratore” fino a sfarinarli in tanti atomi buoni per il mercato morale ed economico del liberismo trionfante. È un deserto abitato da esseri atterriti dal fatto che qualsiasi azione debba avere un movente e quindi sia morale e sottoposta a un giudizio. Povero nido di larve prive di nerbo spirituale che hanno ripudiato l’atto religioso per eccellenza, l’adorazione che si manifesta nel rito e nel simbolo, e rimangono inebetite al cospetto dello sbarco dello straniero, che è innanzitutto rituale e simbolico.

Mentre l’obiettivo inquadra il piede straniero che si posa sulla riva o il cadavere annegato in mare, la società civile d’occidente è completamente disorientata e può solo patteggiare. In chiave laica e postilluminista tenta di assumere quelle immagini come propri simboli nella chiacchiera. In chiave religiosa e postcristiana li introduce nella propria liturgia, Bergoglio a Lampedusa docet, espellendo quel quasi niente di divino che vi era ancora rimasto. In un caso e nell’altro, però, nulla dispone a comprendere e a reagire, che non significa necessariamente fare la guerra, ma affermare solidamente la propria identità. Buio profondo nei salotti in cui si trova così delizioso avere come ospite un vero migrante fresco di sbarco, buio profondo nelle chiese in cui il sacrificio di Cristo è stato oscurato da quello del Migrante.

Un tempo la chiesa non aveva di queste amnesie e di questi timori. Sapeva di avere un tesoro da custodire e l’atto di religione più grande, la Messa, iniziava nella sacrestia quando il sacerdote indossava come primo indumento l’amitto, simbolo dell’elmo, come difesa contro il demonio: “Impone Domini, capiti meo galeam salutis, ad exupgando diabolicos in cursus”. E poi, prima di salire all’altare che avrebbe letificato la sua giovinezza, il celebrante invocava il Padre perché mandasse il suo Angelo “qui custodiat, foveat, protegat, visitet atque defendat omnes habitantes in hoc habitaculo”, perché custodisse, sostenesse, proteggesse, visitasse e difendesse tutti gli abitanti di quella navicella di combattenti che si apprestava a guidare in battaglia contro il principe di questo mondo.

Ma ora persino il tre volte “Sanctus Dominus Deus Sabaoth”, da tre volte Santo Signore Dio degli eserciti è divenuto un più pacifico Signore Dio dell’universo: e quasi nessuno, a quella lode, si inginocchia più. Ma una chiesa che non è capace di far inchinare umilmente i propri fedeli davanti a Dio non può pretendere di farli alzare orgogliosamente davanti agli uomini. Può solo accontentarsi di percorrere qualche tratto di strada insieme ora a questo ora quell’invasore.

Però è una povera chiesa, la stessa che nella Lauda LIII di Jacopone da Todi lamenta i tremendi effetti della pace mondana: “O pace amara, come m’hai sì afflitta/ Mentre fui in pugna, io stetti dritta;/ or lo riposo m’ha presa e scofitta;/ el blando Dracone m’ha sì venenato”.

Sette secoli più tardi sciveva G.K. Chesterton in un saggio su Dickens: “La nostra civiltà moderna mostra molti sintomi di cinismo e decadenza, ma di tutti i segnali della fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non ce n’è nessuno così superficiale o pericoloso come questo: che i filosofi di oggi abbiano cominciato a dividere l’amore dalla guerra, e a collocarli in campi opposti. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece che amare. Non c’è sintomo peggiore di quello che vede l’uomo, fosse pure Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a combattere. Una cosa implica l’altra. Una cosa implicava l’altra nel vecchio romanzo e nella vecchia religione, che erano le due cose permanenti dell’umanità. Non si può amare qualcosa senza voler combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo. Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore, ma lussuria”.

Un popolo lussurioso può solo decadere in “società civile” e soccombere. Oltre la linea rimangono piccoli focolai di fede: non lasciamoli spegnere.
 



luglio 2019
AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI