Dov’è davvero la profezia?

di Elia


Articolo pubblicato il 17 agosto sul sito dell'Autore

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Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum,
et in via peccatorum non stetit, et in cathedra pestilentiae non sedit

(Sal 1, 1).


Non è per infierire sul clero, al quale appartengo io stesso, con impietose analisi sulle sue condizioni, ma per aiutarvi a comprendere ciò che, nell’attuale situazione ecclesiale, vi scandalizza e confonde al di là del sopportabile.
Senza far torto a tanti buoni sacerdoti, retti e fedeli, che perseverano nella loro missione a prezzo di notevoli sacrifici e sofferenze interiori, non possiamo non costatare la deriva di numerosi preti e religiosi che tradiscono la propria vocazione per deviazioni dottrinali o intemperanze morali, oppure – dato lo stretto nesso che le collega – per entrambe le forme di infedeltà.
Lo stato dei consacrati varia da regione a regione e da un Ordine all’altro, ma dappertutto si registrano – sia pure con accentuazioni diverse – analoghe tendenze che sembrano riconducibili alla stessa matrice. Sperando allora di non essere ulteriore motivo di scandalo, condividerò con voi una riflessione che da qualche anno si va precisando nel mio pensiero.

Nella bimillenaria storia della Chiesa non era mai accaduto che, in seguito a un concilio, i Pastori si sentissero in dovere di cambiare sistematicamente tutto per attuarlo (liturgia, teologia, diritto, morale, pastorale, spiritualità…). L’unico esempio di rinnovamento globale innescato da un’ecumenica assise è quello prescritto dal Concilio di Trento, il quale, però, non comportò uno stravolgimento completo della Chiesa militante nelle sue espressioni e nel suo funzionamento, ma consistette in una rigorosa quanto necessaria messa a punto a tutti i livelli, visto il grado di corruzione in cui essa versava e il dilagare delle eresie protestanti. La riforma interna era dunque un obbligo assolutamente ineludibile che percepivano tutti i migliori spiriti dell’epoca.
Intorno alla metà del secolo XX, invece, ciò che minacciava la vita cristiana era una subdola crisi di fede che non si esprimeva in un’aperta contestazione, bensì in una sostanziale indifferenza dissimulata da un’adesione puramente formale, spesso ipocrita e interessata, contro la quale non aveva alcun effetto un rigorismo esteriore il cui unico frutto fu, quando giunse il momento, un violento rifiuto dell’educazione ricevuta.

Nel frattempo la nouvelle théologie preparava un colpo mancino, sfruttando la generale disaffezione alle forme e ai maestri della Tradizione, incasellati in un sistema senz’anima di regole e precetti. Già a Pio XI, peraltro, la convocazione di un concilio era stata vivamente sconsigliata dal cardinal Billot, il quale già allora vedeva chiaramente che essa era l’occasione d’oro attesa dai modernisti e dai nemici della Chiesa per modificarla dall’interno. Anche Pio XII, per motivi analoghi, aveva accantonato il progetto di riprendere il Vaticano I. Col senno di poi, quella di Giovanni XXIII fu quindi, come minimo, una colossale imprudenza. Più oltre non osiamo spingerci con la pretesa di giudicarne le intenzioni, che Dio solo conosce e che l’uomo, semmai, può soltanto ipotizzare in presenza di indizi significativi.
Sono ben note le amicizie del giovane Roncalli con soggetti in odore di modernismo, come pure le frequentazioni massoniche del nunzio a Parigi, ma tutto ciò non pare sufficiente per supporre una sua iniziazione; le asserzioni in questo senso di massoni troppo loquaci appaiono quantomeno sospette, soprattutto a chi ne conosce l’abito di mescolare verità e falsità al fine di accreditare le proprie menzogne.

Secondo una fonte che non sono riuscito a rintracciare, il Papa buono avrebbe agonizzato gridando: «Chiudete il concilio! Chiudete il concilio!». Il successore decise tuttavia di proseguirlo a oltranza, ma si accorse ben presto di non averne il controllo. I cospiratori franco-tedeschi avevano lanciato la loro macchina distruttrice e solo un miracolo avrebbe potuto fermarli: la Chiesa era ormai in balìa del loro volere.
In molti seminari e istituti religiosi infiltrati da superiori e professori progressisti o massoni, soprattutto nell’Europa nord-occidentale, la rivoluzione scoppiò subito, prima ancora che si concludesse il Vaticano II; segno, questo, che era stata preparata da tempo, come conferma lo studiato coordinamento dell’azione. Il metodo adoperato dai novatori per trasformare clero e religiosi in fedeli propagandisti della religione artificiale inventata a tavolino si può sintetizzare in una parola: castrazione. Una castrazione intellettuale, pratica e morale che avrebbe sfornato individui dall’identità e dalla funzione incerte, privi di spina dorsale, incapaci di pensiero autonomo, ghiotti di continue innovazioni, accomodanti sulle cose più sacre e proni a ogni ordine abusivo: in una parola, l’ideale per effeminati senz’arte né parte…

È difficile, del resto, che al di fuori di quella categoria qualcuno sia disposto a farsi reclutare per sottoporsi a una “terapia” del genere, a meno che non sia pronto a combattere per tutto il seminario (e per il resto della vita) per conservare gli attributi virili e la sanità dell’anima. Si tratta anzitutto di una castrazione della mente: mentre il processo conoscitivo, per sua stessa natura, mira a superare l’ignoranza o l’incertezza con l’apprendimento ordinato di dati corrispondenti alla realtà, la nuova teologia, per una pretesa di scientificità, ha consacrato il dubbio sistematico non solo come metodo universale, ma anche come permanente stato mentale di scetticismo.
Il neoclero, di conseguenza, non è più sicuro di nulla, né si sente autorizzato ad asserire alcunché – eccettuate le assurdità della propaganda politico-clericale – in modo non dico perentorio, ma almeno comprensibile. Da ciò consegue poi la castrazione della volontà: privata da una coscienza perennemente confusa di oggetti definiti cui applicarsi, essa scivola inesorabilmente in una piatta indifferenza a qualunque cosa non tocchi direttamente gli interessi vitali del soggetto.
Fase terminale del processo è la castrazione dell’agire, il quale, non essendo più diretto a un fine degno di un essere umano, ricusa con orrore qualsiasi dovere di stato o impegno stabile; d’altra parte, poiché ignora o trascura ogni limite o vincolo, si concede ogni genere di licenza.

Triste risultato (senza escludere – ripeto – le felici eccezioni) sono preti-attori che recitano una parte scadente in una pessima commedia, in totale assenza di amore per la preghiera e di zelo per le anime. Loro suprema aspirazione sembra essere l’oziare per ore davanti al computer o al televisore, nuovi tabernacoli della presenza virtuale del demonio. Nel migliore dei casi, questo vuoto esistenziale vien compensato con il culto del cibo e del corpo, nonostante la perizia culinaria di questi gourmet da guida del Touring mal si concili con la cura della linea, che impone poi improbabili diete oppure ore di palestra dagli esiti imprevedibili.
Altro oggetto di religiosa osservanza è la passione sportiva (più nel senso della tifoseria che della pratica); non da meno è la smania di viaggiare alla scoperta di uomini e Paesi. Riguardo al peggiore dei casi, infine, non c’è bisogno di insistere: dipendenza da pornografia e cedimento al vizietto sono purtroppo sempre più diffusi. Inutile dire che, in un contesto del genere, parole come penitenza e mortificazione assumono connotazioni decisamente umoristiche, ridotte, come pure i Novissimi, a temi da barzelletta.

Ora, ciò che più colpisce è che neanche i papi più “conservatori” abbian fatto nulla di efficace per modificare tale situazione. Decine e decine di discorsi rivolti a preti, religiosi e seminaristi sembran caduti nel vuoto, in mancanza di decisi interventi sui formatori. La riprovazione formale degli errori senza la rimozione degli erranti ostinati – se non in casi estremi – ha permesso a questi ultimi di prosperare indisturbati, compiendo carriere folgoranti fino ad occupare i posti-chiave; non è certo Bergoglio ad aver elevato alla porpora eretici conclamati come Kasper e Marx.
Il discorso inaugurale del Vaticano II ha lanciato l’illusione che basti spiegare la verità nel modo giusto per debellare l’errore senza proscriverlo; tutto il séguito non fu altro che un’applicazione di questa falsa premessa. Come si può dunque difendere ad ogni costo un concilio dagli esiti catastrofici, come se i guai da esso provocati fossero unicamente conseguenza di una cattiva ermeneutica? Ma un concilio serve proprio a chiarire punti controversi in modo univoco; perciò non deve aver bisogno di essere a sua volta interpretato, altrimenti non serve a nulla, anzi crea ulteriori problemi.

Forse la soluzione del rompicapo è più semplice di quanto non sembri, almeno a livello teorico. Non sono riuscito a trovare un atto formale di chiusura del Vaticano I; se un lettore è in grado di segnalarmelo, gliene sarò estremamente grato. Ora, se un concilio non si è concluso, non se ne può convocare un altro; se invece lo si fa, il nuovo concilio è illegittimo, a prescindere dal numero di partecipanti, e tutte le sue decisioni sono nulle. Se un giorno la Provvidenza ci donerà un papa che, dirimendo la questione in modo definitivo, la affranchi dal regime vaticansecondista, la Chiesa Cattolica sarà finalmente libera di uscire dalle secche in cui l’hanno incagliata e di riprendere il mare aperto, non rimettendo gli orologi agli anni Cinquanta (secondo la ricetta di talune aggregazioni dai tratti tipicamente settari che si attribuiscono il monopolio di una Tradizione fossilizzata), ma ristabilendo i contatti con la Tradizione perenne senza i pregiudizi e le censure della cosiddetta teologia postconciliare, quella colossale mistificazione che, al fine di snaturarla in senso protestante e giudaizzante, non ha risparmiato alcun aspetto della vita cristiana. Allora basterà ricostruire tutto da capo, con un po’ di pazienza…

Con il pontificato e il “magistero” di Bergoglio si potrà procedere in modo analogo, posto che le dimissioni di Benedetto XVI risultano nulle, in assenza di una dichiarazione di volontà conforme a quella prescritta ad validitatem da Bonifacio VIII nella Costituzione Quoniam aliqui: sponte ac libere cedo Papatui et expresse renuntio loco et dignitati, oneri et honori (di mia libera volontà lascio il Papato e rinuncio alla carica e alla dignità, all’onere e all’onore). Non solo Ratzinger non ha mai pronunciato queste parole, ma, da quanto è dato arguire dai segni esterni, non ha nemmeno abbandonato la carica, almeno non del tutto. Proprio il solerte sforzo di certi canonisti di giustificare l’anomala procedura da lui seguita dimostra che essa non è conforme a quella che avrebbe dovuto applicare.
Che dire? Dato che un papa non ha la potestà di modificare la natura del proprio compito, non possiamo far altro che riconoscere l’invalidità della sua rinuncia e, conseguentemente, quella del pontificato successivo. Non certo noi, però, ma solo un futuro papa potrà dichiararlo nullo con tutti i suoi atti, sanandone in radice quelli amministrativi onde evitare il caos giuridico. Questo – a scanso di equivoci – non è sedevacantismo, visto che un papa canonicamente eletto è ancora in vita, sebbene non in funzione. Alle stranezze, del resto, ci siamo abituati.

Anche con la liturgia, infine, un esame dogmatico-giuridico consente di risolvere il problema in modo radicale. Paolo VI promulgò un messale che, oggettivamente, non è un ritocco di quello di san Pio V (come nel caso delle edizioni di Clemente VIII, Urbano VIII, Leone XIII, Benedetto XV e Giovanni XXIII, tralasciando qui la riforma della Settimana Santa di Pio XII, che meriterebbe un discorso a parte), ma un rifacimento totale che ha profondamente alterato l’Ordo Missae in base a una teologia che non è quella cattolica del Divin Sacrificio. A tale atto di arbitrio ne seguì uno di imperio con cui il rito artificiale fu inesorabilmente imposto a tutti, nonostante le vive proteste di clero e fedeli che di colpo si videro privati senza ragione di un bene preziosissimo, dal quale dipende strettamente la conservazione e propagazione della fede. In questo caso il Papa agì ultra vires, al di là dei suoi poteri, poiché intervenne in modo dirompente su un patrimonio che è parte integrante della Tradizione (una delle due fonti della Rivelazione divina) e quindi, in quanto tale, era stato fino allora preservato sostanzialmente immutato, malgrado modifiche e arricchimenti secondari.

Un futuro papa dovrà restituire alla Chiesa la Messa romana che le è stata trasmessa dall’Antichità, ma non come variante alternativa, bensì come l’unica legittima, che dovrà rimpiazzare un prodotto così legato a un’epoca da esser già invecchiato, oltre ad aver spento la fede cattolica quasi ovunque (come ha fatto in Inghilterra il rito anglicano, di cui quello di Paolo VI è un’evidente imitazione). Una volta preso atto degli effetti disastrosi di certe scelte, bisogna avere il coraggio di voltar pagina con decisione per lasciarsi alle spalle la strada della rovina e riprendere la via della vita: l’unica, quella di sempre, perché l’ha tracciata il Signore e non gli uomini.
Dio non è un rivoluzionario che ama cambiamenti senza fine e capovolge i valori come se fallimento, disordine e squilibrio fossero un bene da perseguire: queste sono sciocchezze da sessantottini attardati e retrogradi che non hanno ancora capito di aver perso la partita e di esser rimasti indietro, fuori della storia. Se proprio vogliamo parlare di profezia, non è in Amazzonia che possiamo trovarla, ma nel ritorno alla Tradizione. Chi, per grazia e per fermezza, è riuscito a sfuggire a ripetuti tentativi di castrazione spirituale ne ha una certezza incrollabile; niente e nessuno varrà ormai a fargli mutare idea. Egli sa che il destino di chi rimane fedele, costi quel che costi, è la gloria eterna; quello dei traditori – se non si convertono in tempo – la dannazione (altrettanto eterna).




agosto 2019
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