I “PADRI APOSTOLICI”

IMPORTANZA E ATTUALITÀ DELLA QUESTIONE

LA TRADIZIONE DIVINO/APOSTOLICA E LA POLEMICA ANTIGIUDAICA DEI PADRI DELLA CHIESA
S. CLEMENTE DI ROMA E S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA.


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PARTE SECONDA -  Prima sezione

I PADRI APOSTOLICI IN MANIERA SPECIFICA

di Don Curzio Nitoglia


Gli articoli di Don Curzio Nitoglia sono reperibili nel suo sito






INTRODUZIONE


Durante il Concilio Vaticano II «parlare» di “tornare alle origini della Chiesa primitiva” era divenuto un ritornello quasi maniacale; tuttavia, quanto alla «realtà» (1), soprattutto la Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate (d’ora in poi NA) del 28 ottobre 1965, si allontana radicalmente proprio dalla dottrina della Chiesa delle origini sul Giudaismo postbiblico, come è espressa nella ”Tradizione apostolica”, ossia nella dottrina insegnata da Gesù agli Apostoli e trasmessa da questi ai loro diretti Discepoli e ai loro successori: i “Padri apostolici” (I-II secolo), i quali hanno polemizzato fortemente col Giudaismo talmudico, sostenendo la dottrina della “sostituzione” della Sinagoga da parte della Chiesa, negata invece, chiaramente ed esplicitamente, specialmente dalla Dichiarazione NA del Concilio Vaticano II. Infatti secondo la dottrina dei Padri apostolici 1°) la Vecchia Alleanza è stata rimpiazzata dalla Nuova ed Eterna Alleanza; 2°) tutti gli uomini (anche gli Ebrei) hanno bisogno di Gesù, unico Mediatore e Redentore universale dell’umanità; 3°) gli Ebrei postbiblici, che rifiutano (dal Golgota sino ad oggi) la divinità di Cristo e la SS. Trinità non sono “Fratelli maggiori dei Cristiani nella Fede di Abramo”, ma sono i fratelli maggior/mente separati dalla Fede del Cristianesimo, anche più dei Musulmani i quali, pur non credendo nella Divinità di Cristo e nella SS. Trinità, non reputano (come gli Ebrei) Cristo un malvagio impostore, che da uomo si è fatto passare per Dio, lo ritengono (solo) un profeta non Dio, ma neppure un blasfemo “reo, di morte”. Da ciò si evince irrefutabilmente la rottura, anzi la contraddizione radicale della Tradizione apostolica e, quindi, di tutta la religione cristiana da parte del Concilio Vaticano II, specialmente nella Dichiarazione NA che stiamo studiando ora.

Nella prima parte dell’articolo sui “Padri apostolici” abbiamo visto come nella Teologia del “periodo sub-apostolico il tratto particolarmente caratteristico è la polemica col Giudaismo contemporaneo. Alla pretesa del Giudaismo postbiblico di essere ancora il popolo eletto e il solo detentore delle promesse di Dio, da parte cristiana [soprattutto dai “Padri apostolici”, ndr] viene contrapposta la dottrina secondo cui, in séguito all’infedeltà del popolo ebraico al Vecchio Patto con Dio, i Cristiani sono il Verus Israel, che ha accolto l’eredità del popolo rigettato da Dio e lo ha soppiantato. Ciò è espresso nel modo più categorico da S. Ignazio d’Antiochia e nella Lettera di Barnaba” (H. JEDIN, Storia della Chiesa, Milano, Jaca Book, 1975, vol. I, pp. 183-184) (2). 

Solo prossimamente studieremo in modo specifico i “Padri apologisti” (III sec.), ma tratteremo soltanto in maniera generica e non specifica i “Padri ecclesiastici” (IV-VIII sec.), se non in qualche rara eccezione di attualità riguardo al problema del “Giudeo/Cristianesimo” tornato prepotentemente alla ribalta con il Concilio Vaticano II e il postconcilio.  Infatti comunemente si conoscono abbastanza bene i “Padri ecclesiastici”  dal IV all’VIII secolo (3), ossia da Sant’Ilario di Poitiers († 366) a San Beda il Venerabile († 735) e a San Giovanni Damasceno († 749), con i quali si chiude cronologicamente la Patristica  in Occidente e in Oriente (prima metà dell’VIII secolo); mentre sono meno conosciuti i “Padri apostolici” e “apologisti” (dal I al III secolo) sui quali, perciò, dovremo insistere maggiormente, in maniera specifica e non soltanto generica.


I PADRI APOSTOLICI (50-155 CIRCA)

I “Padri apostolici” (4) son vissuti durante il I secolo (dal 50 al 155 circa). Essi sono: 1°) S. Clemente Romano, †101 circa; 2°) S. Ignazio d’Antiochia, †107 circa, Vescovo di Antiochia  a partire dal 70; 3°) S. Policarpo di Smirne, †155 (5) ; 4°) Lo Pseudo-Barnaba, † 130/140 circa; 5°) Erma, † 140/150 circa (6); 6°) l’Autore della “Didachè” o la “Dottrina degli Apostoli”, composta probabilmente tra il 50 e il 150 (7) ; 7°) Papìa di Geràpoli, † post 130; 8°) l’Autore della “Lettera a Diognèto”, scritta verso il 150; essi furono soprattutto degli “espositori” della dottrina del Cristianesimo, che avevano conosciuto personalmente gli Apostoli e ne “condensarono gli insegnamenti, sulle verità dommatico/morali Rivelate, in formule concrete, con stile semplicemente espositivo” (P. PARENTE, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, “Schema di Storia della Teologia Dommatica”, p. XIX; ristampa, Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2019).

Nel presente articolo (1a Sezione della 2a Parte) vediamo solo i primi due Padri apostolici: S. Clemente Romano e S. Ignazio d’Antiochia. Nei prossimi articoli vedremo gli altri sei Padri (S. Policarpo di Smirne; lo Pseudo-Barnaba; Erma; l’Autore della “Didachè” o la “Dottrina degli Apostoli”; Papìa di Geràpoli; infine l’Autore della “Lettera a Diognèto”) possibilmente due per volta, di modo che vi saranno la 2a Sezione, la 3a Sezione, la 4a Sezione della 2a Parte: la quale tratta i “Padri apostolici” in specie. 


PRIMA SEZIONE DELLA SECONDA PARTE
 
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1°) SAN CLEMENTE DI ROMA († 101 CIRCA)

Papa San Clemente I Romano secondo S. Ireneo di Lione (Adv. haer., III, 3, 3) ed Eusebio di Cesarea (Hist. Eccles., III, 16; IV, 22, 1; V, 6, 2) è il terzo successore di San Pietro, dopo Lino (67-76 circa) e Anacleto (76-88 circa), sulla Sede Apostolica di Roma, dove sedette dal 92 al 101. “Clemente aveva conosciuto personalmente a Roma gli apostoli Pietro e Paolo” (S. IRENEO DI LIONE, Adv. haer, III, 3, 3).

La sua I Epistola ai Corinzi, che è ritenuta autentica dalla quasi totalità dei critici seri, mostra uno stile da cui i filologi deducono che egli proveniva dal Giudaismo ellenizzante e non dal Paganesimo romano, come invece ha scritto Dione Cassio (Hist. Rom., 67, 14). Origene (In Johann., VI, 54, 36) ed Eusebio di Cesarea (Hist. Eccles., III, 4, 9, 15) lo identificano col Clemente collaboratore di San Paolo nella evangelizzazione della Macedonia (Fil., IV, 3). La Tradizione del suo martirio sotto Traiano (97-117) è antichissima e nel IV secolo fu messa per iscritto nella Depositio Martyrum, inoltre viene attestata dalla Liturgia romana, da Rufino (335-395) e da papa Zosimo (417-418).

La sua I Epistola ai Corinzi fu composta verso il 96-98 – dunque essa precede di poco il Vangelo secondo San Giovanni – all’indomani della persecuzione di Domiziano. Questa antichità della Epistola ai Corinzi fa scrivere a Manlio Simonetti che assieme al Pastore di Erma e alla Lettera dello Pseudo-Barnaba essa avrebbe avuto un peso equiparabile agli scritti neotestamentari, tuttavia senza il carisma della divina Ispirazione e della canonicità (M. SIMONETTI – E. PRINZIVALLI, Storia della letteratura cristiana antica, Casale Monferrato, Piemme, 1999, p. 31). Essa secondo Origene ed Eusebio era conosciutissima nella Chiesa primitiva e veniva letta durante la Messa a Corinto (quasi fosse un Libro della Bibbia) ancora verso il 170 (EUSEBIO DI CESAREA, Hist. Eccles., IV, 23, 11). L’Epistola è di capitale importanza per la conoscenza della Teologia e della Liturgia romana sub-apostolica (capp. 59-61) e già sin dal 96/98 rivela la coscienza del diritto che la Chiesa di Roma (universale) possedeva cioè di intervenire, senza esserne stata richiesta dalla Chiesa di Corinto, negli affari interni delle altre Chiese locali (nazionali o diocesane) e concretamente in quella di Corinto, ossia del Primato del Papa sui Vescovi sparsi nel mondo ciascuno nella sua Diocesi.

Infatti a Corinto alcuni Presbiteri erano stati destituiti da un gruppo di giovani fedeli ribelli non meglio precisati. La I Lettera di San Clemente è protesa a richiamare la chiesa di Corinto alla pace e all’unità (63, 2) e ad indurre il gruppo dei rivoltosi alla penitenza e al pentimento poiché si era rivoltato contro la legittima autorità dei Presbiteri, fondata sulla Tradizione apostolica (capp. 1-3 e 40-58). Ora secondo San Clemente la comunità dei fedeli di Corinto non ha nessuna autorità di destituire i Presbiteri, i quali derivano il loro potere non dai fedeli o dalla comunità, ma direttamente dagli Apostoli, che a loro volta lo hanno ricevuto da Cristo. Clemente si dimostra, nello svolgimento degli argomenti della sua Epistola, un ottimo conoscitore non solo del Vecchio e Nuovo Testamento, ma anche della cultura ellenistica. 

Forse il conflitto sorto a Corinto era di natura anche dottrinale e non esclusivamente disciplinare. Infatti le frasi di Clemente contro i dubbi sulla Risurrezione (capp. 23-26) e contro coloro che impugnavano la vita ascetica (38, 2) rendono questa ipotesi abbastanza verosimile; d’altronde già ai tempi di San Paolo a Corinto vi erano problemi sia disciplinari che dogmatici, sui quali l’Apostolo delle Genti dovette scrivere nella sua I Epistola ai Corinti (cap. VII sulla Verginità come superiore al Matrimonio e cap. XV sulla Risurrezione dei morti) che risale all’anno 56-57 circa. Per cui non ci sarebbe nulla di strano se circa 40 anni dopo, San Clemente nella sua I Epistola ai Corinzi del 96-98, avesse trovato dei problemi non solo disciplinari a Corinto, ma anche dogmatico/morali i quali già sussistevano ai tempi di San Paolo (8).

Questa Epistola di San Clemente tratta “argomenti attinenti soprattutto all’organizzazione e all’attività interna delle singole comunità cristiane, ancora in parte alle prese con problemi connessi con le tradizioni giudaiche” (M. SIMONETTI – E. PRINZIVALLI, Storia della letteratura cristiana…, cit, p. 31). Inoltre nei capitoli 5 e 6 di essa “troviamo la più antica testimonianza della persecuzione di Nerone e del martirio dei Prìncipi degli Apostoli, Pietro e Paolo e di molti cristiani in Roma” (B. ALTANER, Patrologia, Casale Monferrato, Marietti, VII ed., 1977, p. 47) e il loro martirio sarebbe stato causato dalla “gelosia” dei Giudei (cfr. M. SIMONETTI – E. PRINZIVALLI, cit., p. 32).

“Rispetto al Paganesimo che lo circonda, Clemente dimostra una comprensione simpatica per tutto ciò che in esso vi è di nobile e di buono; comprende e ammira l’eroismo dei grandi pagani (cap. 44). Il suo Cristianesimo non è tale da formare uno spauracchio per i pagani, ma è ricco di una simpatia profonda e tutta umana” (A. FLICHE – V. MARTIN, Storia della Chiesa, vol. I, La Chiesa primitiva, III ed., 1958, Cinisello Balsamo, San Paolo, cap. X, I Padri apostolici, a cura di G. LEBRETON, p. 402).

Inoltre nella Lettera di San Clemente viene “affermato esplicitamente e con precisione non solo il dogma cristologico, ma anche quello trinitario (cap. 58)” (A. FLICHE – V. MARTIN, Storia della Chiesa, cit., p. 408). Per cui la differenziazione del Cristianesimo dal Giudaismo postbiblico ancora prima della morte di San Giovanni Apostolo ed Evangelista era già dottrina e pratica comune nella Chiesa romana.

“Clemente morì nel terzo anno dell’imperatore Traiano (97-117). Per nove anni aveva presieduto al Magistero della divina parola” (EUSEBIO DI CESAREA, Hist. Eccl., I"II, 15). Quindi Clemente morì tra il 100 e 101. 


2°) S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA († 107 CIRCA)

S. Ignazio martire “occupò la Sede vescovile di Antiochia secondo dopo San Pietro” (EUSEBIO DI CESAREA, Hist. Eccl., III, 22)

“Iniziò il suo apostolato l’anno primo di Vespasiano, cioè nel 70” ((EUSEBIO DI CESAREA, Chron. Ad ann. Abr. 2085).

Conobbe personalmente gli Apostoli (S. GIOVANNI CRISOSTOMO, Hom. S. Ign., PG, L, col. 588).

Arrivò a Brindisi da Durazzo e, per la via Appia, raggiunse Roma.

Poco prima del 100 (alcuni storici parlano del 110-130) Ignazio, Vescovo d’Antiochia, fu arrestato e condotto a Roma, dove si aspettava di subire il martirio. Dopo aver attraversato l’Asia Minore arrivò a Smirne, il cui Vescovo allora era San Policarpo ancora giovanissimo. Da lì scrisse una Lettera a ciascuna delle Chiese di Efeso, di Tralli e di Magnesia, poi scrisse anche ai Romani annunciando il suo prossimo arrivo; indi giunse nella Troade e qui scrisse una Lettera alla chiesa di Filadelfia, una a quella di Smirne e un’altra a Policarpo Vescovo di Smirne. Queste sette Epistole sono state conservate e son giunte sino a noi. Esse sono posteriori di circa dieci anni a quella di S. Clemente (96-98) e furono scritte mentre Ignazio viaggiava da Antiochia di Siria verso Roma ove morì attorno al 107, “fu gettato alle fiere a Roma” (ORIGENE, Hom. VI in Luc., PG, XIII, col. 1815). Eusebio di Cesarea specifica la data: 107-108 (Chronicon ad ann. Abr. 2123).

San Policarpo nella sua Lettera ai Filippesi (9, 2) scrisse che Ignazio, il quale da Filippi era andato a Durazzo e quindi a Roma, probabilmente era morto martire, ma non ne aveva la certezza. Anche Eusebio di Cesarea riteneva il martirio di S. Ignazio probabile, ma non certo e avvenuto attorno al 107 (Hist. Eccl., III, 36, 3). Gli storici moderni sono propensi a spostare verso il 110 il suo martirio.

I Filippesi chiesero a San Policarpo una copia delle sette Lettere di Ignazio. Policarpo rispose loro (Lettera ai Filippesi, 13, 1) e allegò una copia delle Lettere di Ignazio. Esse vennero diffuse in larga scala e furono conosciute da S. Ireneo di Lione (Adv. haer., V, 28, 4), da Origene (Hom. in Lc., VI, 4) e da Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl., III, 36). “Dato il ruolo ricoperto dalla biblioteca di Eusebio di Cesarea in Palestina, per la trasmissione dei testi cristiani, non ci si meraviglia che esse siano pervenute sino a noi” (A. DI BERARDINO diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato-Roma, Marietti-Augustinianum, 1984, vol. II, p. 1744, voce «Ignazio d’Antiochia» a cura di P. NAUDIN).

L’opera storica in due volumi titolata “Cronaca”, scritta prima dell’inizio della persecuzione di Diocleziano (303-305), da Eusebio di Cesarea parla del martirio di Ignazio avvenuto verso l’anno decimo dell’Impero di Traiano, ossia il 107, ma alcuni storici moderni (tra i quali Pierre Naudin della Sorbona di Parigi) sostengono che la data riportata da Eusebio fosse approssimativa e congetturale, non quindi certa e la spostano verso il 110 e qualcuno arriva anche al 130.

La dottrina di S. Ignazio la si trova espressa nelle sue Lettere. In quella ai fedeli di Filadelfia Ignazio parla di uno scisma prodottosi nella Chiesa del luogo. Alcuni fedeli si erano separati dal Vescovo di Filadelfia perché erano giudaizzanti e ritenevano che bisognasse osservare il sabato. Ignazio li condanna e li confuta.
Egli segnala e combatte un secondo errore diffusosi a Filadelfia: il Docetismo, ossia la dottrina secondo cui il Verbo divino non aveva assunto una vera natura umana, ma solo un’apparenza (“Dòcheo = apparire”) di umanità. Nella Epistola a Magnesia (8, 12) S. Ignazio getta un ponte tra questi due errori (Sabbatismo/giudaizzante e Docetismo). Infatti per provare che occorreva festeggiare la domenica e non il sabato ricorse all’argomento della vera e reale Risurrezione di Gesù, vero Dio e vero uomo, la Domenica di Pasqua. Quindi rigettare la domenica a pro del sabato significava implicitamente negare la realtà della Incarnazione del Verbo nella natura umana di Cristo, della sua morte e Risurrezione. Secondo Ignazio il Docetismo era una derivazione dello Gnosticismo. “Gli Gnostici giungevano a negare la vita reale di Gesù Cristo e il Vescovo di Antiochia, come il suo maestro San Giovanni Apostolo, vede in tale dottrina la rovina di tutto il Cristianesimo e non una semplice eresia” (A. FLICHE – V. MARTIN diretta da, Storia della Chiesa, cit., p. 417).

Il Docetismo dal greco “dòcheo, dòchesis = sembro, apparenza” è “una oscura eresia che riduceva l’Umanità di Cristo a un’apparenza, compromettendo la veridicità dell’Evangelo nel racconto della vita umana, della passione e della morte del Salvatore, e quindi il valore di tutta l’opera della Redenzione. Tracce di confutazione di questo errore si trovano già in San Paolo (Col., I, 20; I Tim., II, 5) – tra il 63 e il 65 circa – e San Giovanni (I Epist., IV, 2) tra l’85 e il 95. Poco più tardi S. Ignazio Martire difende contro i Doceti la realtà della carne assunta dal Figlio di Dio: così pure S. Ireneo (Adv. haer., III), Tertulliano (De carne Christi), S. Agostino (Contra Faustum) combattono varie forme di Docetismo vigente presso gli Gnostici (Simone, Saturnino), Marcione e presso i Manichei. […]. I Doceti come compromettono la realtà della passione di Cristo, così sono costretti a negare o a pervertire la realtà del Mistero eucaristico” (P. PARENTE, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, pp. 126-127, voce “Docetismo”; rist., Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2018).

Inoltre Manlio Simonetti spiega che Ignazio “condannò sia la dottrina di chi negava la realtà dell’Incarnazione, ossia il Docetismo, sia la persistenza di tendenze giudaizzanti in Antiochia, città a maggioranza pagana, ma sede di un’importante minoranza giudaica. La distanza tra Cristianesimo e Giudaismo è affermata a piene lettere da Ignazio, un Cristiano di origine pagana, che sente forte l’influsso di San Paolo e di Giovanni, il quarto Evangelista e lo radicalizza ancora di più” (M. SIMONETTI – E. PRINZIVALLI, Storia della Letteratura Cristiana Antica, cit., p. 34). “Ignazio combattè l’errore dei Giudaizzanti, che negavano che Gesù fosse il Messia, il Figlio di Dio” (Bibliotheca Sanctorum, Roma, Città Nuova, 1966, vol. VII, voce Ignazio di Antiochia, a cura di Guido Bosio).

Il rimedio a tali contese, secondo Ignazio, consisteva nell’unità col Vescovo del proprio luogo. Le Lettere di Ignazio sono i primi documenti scritti in cui esplicitamente si distinguono tre gradi della gerarchia ecclesiastica: Episcopato monarchico (un solo Vescovo in una sola Diocesi); Presbiterato o Sacerdozio e Diaconato. I Vescovi sono esaltati da S. Ignazio, che parla del loro grado di superiorità gerarchica sui Presbiteri e Diaconi (M. SIMONETTI – E. PRINZIVALLI, Storia della Letteratura Cristiana Antica, cit., p. 34). Il Vescovo è “Vicario di Dio” (Ep. ad Magnes., 3, 1; 6, 1; Ep. ad Trall., 3, 1) oppure è “Vicario di Gesù” (Trall., 2, 1; Eph., 6, 1) e non si può far nulla senza di lui: “Nihil sine Episcopo faciatis” (Trall., 2, 2; Phil., 7, 2). I Cristiani debbono evitare i matrimoni misti o per farli debbono avere il permesso del Vescovo (Phil., 5, 2); “Gesù Cristo è il Pensiero del Padre, come i Vescovi sparsi nel mondo sono il Pensiero di Cristo” (Efes., III, 2).

Berthold Altaner scrive che “le Lettere di Ignazio pongono singoli Vescovi a capo delle Comunità (Chiese particolari o Diocesi) cristiane e considerano l’Episcopato monarchico di Istituzione divina” (B. ALTANER, Patrologia, Casale Monferrato, Marietti, 1976, p. 50).

Ignazio parla anche del Primato romano, infatti la Chiesa di Roma ha una dignità particolare, essa “presiede ed è presidente dell’Amore (9). […]. Roma insegna agli altri; io voglio che sia praticato costantemente quanto voi ordinate e consigliate” (Rom., III, 1). Avvicinandosi il martirio scrive ai Romani: “La Chiesa di Siria, non avendomi più ha solo Dio per Pastore. Essa non avrà altro Vescovo che Gesù e la vostra Carità” (Rom., IX, 1). In breve mentre chiede solo preghiere alle altre Chiese, si raccomanda a Roma per avere la successione apostolica in un Vescovo che lo sostituirà (cfr. A. CHAPMAN, Saint Ignace d’Antioche et l’Eglise romaine, in “Revue bénédict.”, vol. XIII, 1896, pp. 385-400; P. BATTIFFOL, L’Eglise naissante et le catholicisme, IX ed., Parigi, 1927, p. 167 e 170). Lo storico anglicano S. H. Scott commenta: «La Chiesa romana aveva allora un diritto di Primato e questo diritto le veniva da San Pietro» (The Eastern Churches and The Papacy, p. 33).

Inoltre S. Ignazio sviluppa nelle sue Epistole e soprattutto in quella ai Romani la cosiddetta “Teologia del martirio”: “Lasciatemi essere pasto delle belve” (Rom., 4, 1). La ragione teologica del martirio consiste nell’Imitazione di Cristo: il discepolo non è superiore al Maestro, ma deve imitarlo. Quindi Ignazio vuol seguire Cristo anche e soprattutto nella Passione (Rom., 6, 3). Solo allora sarà un vero discepolo (Rom., 4, 2), troverà Cristo (5, 3) e quindi Dio (1, 2). Il suo sacrificio gioverà anche agli altri Cristiani (4, 2). Ignazio s’ispira fortemente alle Epistole di San Paolo e ai Libri dei Maccabei per esporre la sua dottrina sul martirio (10).

Joseph Lebreton nota giustamente che le Lettere di Ignazio sono molto simili alla Lettera di Clemente ai Corinti, però mentre “Clemente non si accontenta di esortare, ma con autorità dà ordini che dovranno essere eseguiti, invece Ignazio non assume lo stesso atteggiamento. Quindi ne concluderemo che, nel pensiero di Ignazio, le diverse Chiese locali sono indipendenti le une dalle altre e un Vescovo non può dare alle altre Chiese se non consigli, ma che la sola Chiesa romana ha una posizione speciale, un’autorità la quale imponendosi a tutte le altre giustificava la condotta di Clemente mentre dettava ad Ignazio sottomissione e deferenza a Roma” (A. FLICHE – V. MARTIN diretta da, Storia della Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo, III ed., 1958, vol. I, La Chiesa primitiva, cap. X, G. LEBRETON a cura di, I Padri apostolici e la loro epoca, pp. 412-413).

I circa dieci anni che separano la Lettera ai Corinzi di San Clemente (96/98) dalle sette Epistole di S. Ignazio († 107), hanno segnato nella Storia del Cristianesimo un progresso notevole, perché allora, ossia dopo la Lettera di San Clemente ai Corinzi e poco prima delle sette Epistole di S. Ignazio, è apparso il Vangelo di San Giovanni, il cui influsso su S. Ignazio fu grandissimo (A. FLICHE – V. MARTIN diretta da, Storia della Chiesa, cit., p. 420).
Da ciò si evince anche l’importanza della dottrina dei Padri apostolici direttamente contraddetta da Nostra aetate (cfr. prima parte del presente articolo). Infatti la Lettera di San Clemente cronologicamente precede addirittura il Vangelo di San Giovanni e le Lettere di S. Ignazio ne risentono direttamente. Certo esse non sono parte della Bibbia, non sono Libri Sacri, divinamente ispirati e assistiti, ma sono Tradizione apostolica, ossia la dottrina che essi insegnano fu rivelata da Gesù agli Apostoli e da questi ai Padri apostolici, che la ripeterono e la diffusero tra i primi Cristiani e in alcuni casi (S. Clemente, Ep. Rom.) precedettero cronologicamente persino la redazione del quarto Vangelo.

La Tradizione è la parola di Dio, concernente la fede e i costumi, “non-scritta”, ma trasmessa a viva voce da Cristo agli Apostoli (“Tradizione divina”) e, tra il I-II secolo, dagli Apostoli ai “Padri apostolici” (“Tradizione divino-apostolica”), per giungere attraverso i “Padri apologisti” (III secolo), i “Padri della Chiesa” (IV-VIII secolo) e i “Dottori scolastici” (X-XX secolo) sino a noi. 

Si dice “non-scritta” per significare che non è scritta “per Ispirazione divina” (come la S. Scrittura), pur potendo essere contenuta nei libri scritti dai Padri greci e latini.

Quest’insegnamento tradizionale e profondamente divino/apostolico di Ignazio, che gli veniva in parte anche da San Clemente (il primo dei “Padri apostolici”), fu poi trasmesso anche a due grandi campioni della Patristica apostolica (I-II sec.) e apologistica (III sec.): San Policarpo di Smirne († 155 circa) e Sant’Ireneo di Lione († 200).

Nel prossimo articolo vedremo il 3° e 4° Padre apostolico, ossia Erma e lo Pseudo-Barnaba.

FINE DELLA PRIMA SEZIONE DELLA SECONDA PARTE

CONTINUA






NOTE

1 - Questa discordanza tra “teoria” e “pratica”, tra il “discorrere” e la “realtà” - riguardo alla Teologia del “Padri apostolici” e la Teologia del Vaticano II - conferma il vecchio proverbio che recita: “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…”. La stessa discordanza veniva asserita da Monsignor Brunero Gherardini tra la “sempre asserita, ma mai dimostrata ermeneutica della continuità” del Vaticano II con la Tradizione apostolica, da parte di Benedetto XVI, e la realtà dottrinale che caratterizzava i 16 Decreti del Concilio Vaticano II, in cui oggettivamente si scorgevano con evidenza alcune contraddizioni palesi della Tradizione apostolica, come il Gherardini faceva rispettosamente notare in maniera irrefutabile. Cfr. BRUNERO GHERARDINI, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009; ID., Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011. 
2 - Padre Hubert Jedin nacque nel 1900 in Germania (a Grossbriesen). Studiò Teologia nelle Università di Breslavia, Monaco e Friburgo. Si perfezionò nella Storia della Chiesa presso l’Archivio Vaticano tra il 1926 e il 1930. Insegnò Storia della Chiesa all’Università di Breslavia e tornò a Roma nel 1933 come Bibliotecario al “Campo Santo Teutonico”. Nel 1936 iniziò a  redigere la sua famosa “Storia della Concilio di Trento” (tradotta in Nel 1949 fu nominato professore all’Università di Bonn, inoltre ha diretto, coadiuvato da molti altri specialisti, la grande “Storia della Chiesa” (iniziata nel 1962 e terminata nel 1979, poi tradotta in italiano dalla Jaca Book di Milano in 10 volumi dal 1976 al 1980). Egli era di origine israelitica e perse i genitori in un campo di concentramento germanico. Quindi non è stato mai animato da nessun sentimento di antisemitismo biologico o puramente razziale. Ha pure vissuto il Concilio Vaticano II e il postconcilio sino all’inizio del Pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), è morto nel 1980 a Bonn, ma da storico della Chiesa non ha potuto non constatare che la dottrina dei Padri apostolici è diametralmente diversa da ogni forma di Giudeo/Cristianesimo. 
3 - U. MANNUCCI – A. CASAMASSA, Istituzioni di Patrologia, 2 voll., Roma, 1942.
4 - G. BOSIO – E. DAL COVOLO – M. MARITANO, Introduzione ai Padri della Chiesa, Secoli I e II, Torino, I vol., 1980; ID., Introduzione ai Padri della Chiesa, Secoli II e III, Torino, 1991; ID., Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III e IV, Torino, 1993.
5 - Secondo gli studiosi di Patrologia, Policarpo nacque verso il 55 o al massimo verso il 69; S. Ignazio d’Antiochia, che fu Vescovo a partire dal 70, sarebbe nato probabilmente anche prima del 50. Cfr. U. PADOVANI (diretta da), Grande Antologia Filosofica, Milano, Marzorati, 1989, vol. III, p. 112, La Patrologia pre-agostiniana, a cura di E. RAPISARDA.
6 - Erma scrisse il Trattato “Il Pastore” sulla penitenza. Egli era fratello di papa S. Pio I (140-155) nato ad Aquileia presso Udine.
7 - Cfr. U. PADOVANI (diretta da), Grande Antologia Filosofica, cit., p. 104. Erma avrebbe scritto il suo Trattato “Il Pastore” tra il 50 e il 160.  
8 - Cfr. PIER FRANCESCO BEATRICE, Continenza e matrimonio nel Cristianesimo primitivo (sec. I-II), Milano, Studia Patristica Medionalensa 5, 1976, pp. 3-68; A. DI BERARDINO diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato-Roma, Marietti-Augustinianum, 1983, vol. I, pp. 712-714, voce “Clemente Romano” a cura di P. F. BEATRICE; A. JAUBERT, Clément de Rome. Epitre aux Corinthiens, Sources Chrétiennes 167, Parigi, 1971; B. ALTANER, Patrologia, Casale Monferrato, Marietti, VII ed., 1977, pp. 45-48.
9 - Più esattamente Berthold Altaner scrive che bisogna tradurre il passo della Epistola ai Romani (III, 1) di Ignazio con “avente la precedenza e il primato anche nel campo della Carità” (Patrologia, Casale Monferrato, Marietti, 1977, p. 50). Ove per Carità si può intendere anche il Governo e la Giurisdizione della Chiesa Universale Romana sulle altre chiese o Diocesi particolari. Infatti nel passo citato, Ignazio parla anche di “primato di attività d’istruzione [Magistero, ndr] da parte della Comunità cristiana romana rispetto alle altre Comunità cristiane. Quindi si rivela già evidente la preminenza effettiva e non solo affettiva ed onorifica [Primato di Giurisdizione e non solo di amore e di onore, ndr] della Chiesa di Roma” (B. ALTANER, cit., ivi).
10 - Cfr. A. QUACQUARELLI, I Padri apostolici, Roma, Città Nuova, 1976; G. TRENTIN, Rassegna di studi su Ignazio martire, Studi Patristici, 1972, pp. 75-87; R. JOLY, Le dossier d’Ignace d’Antioche, Bruxelles, 1979.



agosto 2019
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