Il nodo della questione è il rapporto col giudaismo


di Francesco Lamendola


Articolo pubblicato sul sito Accademia Nuova Italia







Inutile nasconderselo: il nodo di tutta la crisi che travaglia e sconvolge la Chiesa cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II, è la questione del rapporto fra cattolicesimo e giudaismo.
Da quando, il 28 ottobre 1965, Paolo VI ha pubblicato la dichiarazione Nostra aetate, un equilibrio due volte millenario si è rotto, e la Chiesa non è più stata la stessa. Le altre questioni, sia per ciò che concerne il “dialogo” con le altre religioni, l’islam in primo luogo, e con le altre confessioni cristiane, sia per quanto concerne la liturgia e la dottrina, cioè le questioni “interne”, sono tutte conseguenza di quel primo passo: la negazione della necessità che gli ebrei si convertano e, di conseguenza, il rifiuto di Cristo come la sola via, verità e vita.
Non ci possono esser due vie, due verità e due tipi di vita eterna: se ci fossero, allora potrebbero anche essercene tre, quattro, venti, cento, mille. Ed è quello che si sta verificando: dal rifiuto dell’unicità di Cristo quale Mediatore fra Dio e gli uomini, dal ripudio della sua assoluta necessità per il conseguimento della salvezza, si è aperta la breccia che è diventata una voragine sempre più ampia, e dalla quale ha fatto irruzione il relativismo più sfrenato.
Ora, in vista del Sinodo per l’Amazzonia, i cattolici allibiti apprendono che anche lo sciamanesimo, il panteismo, il naturalismo, l’animismo e l’indigenismo vanno bene; che sono mezzi perfettamente idonei ai bisogni spirituali dell’uomo; che è giusto adorare la “madre” Terra e che preoccuparsi della biodiversità, del clima e dello smaltimento dei rifiuti di plastica è cosa più urgente e necessaria della ricerca della vita eterna.




Il nodo della questione è il rapporto col giudaismo. Tutto iniziò con la dichiarazione “Nostra aetate” in cui si nega la necessità che gli ebrei si convertano. Ma il Dio dei cristiani non era Gesù Cristo, lo stesso che gli ebrei hanno rifiutato?


Questa deriva ormai pressoché inarrestabile porta con sé anche il relativismo morale, per cui non c’è niente di più bello che essere dei cristiani gay: infatti si può liberamente capovolgere le parole della Bibbia, affermando che Dio non distrusse, bensì – come sostiene senza batter ciglio monsignor Nunzio Galantino - volle risparmiare Sodoma e Gomorra, evidentemente perché il “peccato” dei suoi abitanti non era poi così grave, e dopotutto non era neanche un peccato, ma una cosa assolutamente lecita e naturale, come non si stanca mai di dire, scrivere e ripetere l’influente gesuita James Martin.
E perché no, visto che il Diavolo non esiste, come sostiene non da ieri, ma da sei anni a questa parte, il generale stesso dei gesuiti Sosa Abascal? Niente diavolo, niente peccato, ma solo, genericamente, il “male”; niente peccato, niente conversione; niente conversione, niente Dio.
L’uomo può far da solo: e infatti, perché si dovrebbe inginocchiare davanti all’Altissimo? Bisogna prendere esempio da Bergoglio, che non s’inginocchia mai, ma che, in compenso, è pronto a gettarsi carponi per terra e a baciare letteralmente i piedi degli uomini, dimostrando che il supposto male all’anca non è la vera causa delle mancate genuflessioni di fronte al Signore Eucaristico.




  Bergoglio non s’inginocchia mai davanti all’Altissimo, ma in compenso, è pronto a gettarsi carponi per terra e a baciare letteralmente i piedi degli uomini, dimostrando che il supposto male all’anca non è la vera causa delle sue mancate genuflessioni!


Tutto questo ha la sua radice nella Nostra aetate; o per dir meglio, nella volontà di auto-mortificare e auto-demolire il cattolicesimo, pur di compiacere i cosiddetti “fratelli maggiori” i quali, mediante il B’nai B’rith, e grazie alla compiacente comprensione di cardinali come Augustin Bea (altro gesuita!; e non avrebbe dovuto diventare cardinale, come Bergoglio non avrebbe dovuto diventare papa, appunto perché gesuita), e sfruttando i sensi di colpa dei cattolici per l’Olocausto, del quale peraltro erano perfettamente innocenti, posero le loro condizioni perché si realizzasse la possibilità di un “dialogo” che era, in effetti, una resa a discrezione della Chiesa cattolica alla Sinagoga, sua antica e implacabile nemica.
Da duemila anni questa si adoperava per giungere a un tale risultato, e infine c’è riuscita: e la prova di ciò è data dal fatto che sono gli ebrei a decidere chi, nella Chiesa cattolica, può essere proclamato santo, e chi no: si veda la vicenda di padre Léon Dehon che doveva essere innalzato agli altari il 24 aprile 2005, ma la cerimonia venne annullata all’ultimo minuto perché “qualcuno” sollevò la questione di alcune frasi ostili agli ebrei contenute in alcuni suoi articoli pubblicati sul quotidiano cattolico La Croix (e, precisiamo, perfettamente in linea col Magistero perenne).
Quale altra religione avrebbe accettato di subire un simile diktat? E quando mai la stessa Chiesa cattolica lo avrebbe accettato, anteriormente al Vaticano II? È stato il Concilio a creare questa situazione che, prima ancora di essere dottrinale, è di carattere psicologico: una vera e propria sudditanza nei confronti della religione dalla quale il cristianesimo è nato, e dalla quale esso si è radicalmente distaccato, grazie al Mistero della divina Incarnazione di Gesù Cristo, mentre il giudaismo è rimasto accattato alla Legge, a causa della quale esso continua a considerare Gesù come un falso profeta, nonché un bestemmiatore giustamente messo a morte.




Il cardinale gesuita Augustin Bea, qui nella foto con il rabbi Abraham Joshua Heschel durante il meeting del 1963 con la rappresentanza dell'American Jewish Committee, fu uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II, impegnandosi in prima persona alla stesura della dichiarazione Nostra aetate.


Ecco cosa dice testualmente, al § 4, la Nostra aetate:

Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.

La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.

Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede (6), sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili (7). La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso (8). Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: « ai quali appartiene l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine.

Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.

Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata (9); gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione (10). Tuttavia secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento (11). Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e « lo serviranno sotto uno stesso giogo » (Sof 3,9) (12).

Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.

E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo (13), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.

E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.

La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.




  Il vescovo Lefebvriano Richard Williamson


Ebbene, in queste poche frasi - scritte per altro con la consumata, untuosa abilità gesuitica che consiste nel dire e non dire, nel suggerire più che dire, contravvenendo alla norma stabilita da Gesù Cristo, e sempre rispettata da tutti i documenti del Magistero, che il parlare della Chiesa sia sì, sì, e no, no, vale a dire limpido e chiaro e dal significato inequivocabile - ci sono tutte le premesse per innescare la crisi morale che sta oggi dilaniando la Chiesa cattolica.
E a quelle anime candide le quali sospirano di nostalgia per l’abdicazione di Benedetto XVI e sostengono che, con lui, la deriva verificatasi adesso non ci sarebbe stata, ricordiamo che, su questo punto decisivo, egli la pensava sostanzialmente come Giovanni XXIII e come Paolo VI, ma anche come Bergoglio: le differenze erano secondarie e riguardavano le sfumature, non la sostanza del discorso. A riprova di ciò, vogliamo citare il punto centrale del discorso pronunciato da Ratzinger il 12 marzo 2009, davanti alla Delegazione del Gran Rabbinato d’Israele e alla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo; discorso che fu tenuto con qualche giorno di ritardo rispetto al calendario, per l’esplosione del “caso Williamson” che aveva fatto infuriare i rabbini per le tesi negazioniste del vescovo lefebviano  e la remissione della sua scomunica da parte del papa:

Durante questi sette anni [dalla visita di Giovanni Paolo II a Gersualemme nel marzo del 2000] non solo si è rafforzata l’amicizia fra la Commissione e il Gran rabbinato, ma avete anche potuto riflettere su temi importanti sia per la tradizione ebraica sia per quella cristiana. Dal momento che riconosciamo l’esistenza di un ricco patrimonio spirituale comune, un dialogo basato su comprensione e rispetto reciproci è, come raccomanda la Nostra aetate (n. 4), necessario e possibile.

Cooperando siete divenuti sempre più consapevoli dei valori comuni che sono alla base delle nostre rispettive tradizioni religiose, studiandoli nel corso dei sette incontri che si sono svolti sia a Roma sia a Gerusalemme.

Avete riflettuto sulla santità di vita, sui valori familiari, sulla giustizia sociale e sulla condotta etica, sull’importanza della Parola di Dio espressa nelle Sacre Scritture per la società e per l’educazione, sul rapporto fra autorità religiosa e civile e sulla libertà di religione e di coscienza. Nelle dichiarazioni comuni diffuse dopo ogni incontro, sono state evidenziate le idee radicate nelle nostre rispettive convinzioni religiose, mentre sono state anche riconosciute le differenze di comprensione. La Chiesa riconosce che gli inizi della sua fede risalgono al divino intervento storico nella vita del popolo ebraico e che qui ha il suo fondamento il nostro rapporto unico. Il popolo ebraico, che venne scelto come popolo eletto, comunica a tutta la famiglia umana la conoscenza del Dio uno, unico e vero e la fedeltà verso di Lui. I cristiani riconoscono di buon grado che le loro radici affondano in quella stessa autorivelazione di Dio che nutre l’esperienza religiosa del popolo ebraico.




  Il Concilio Vaticano II e la Nostra aetate hanno portato ad una deliberata soppressione dell’identità Cristiana: rispetto per i seguaci delle altre religioni come persone, sì; ma riconoscimento delle false religioni, partendo dal giudaismo, no!


Che senso ha ricordare che il cristianesimo deriva dal giudaismo se non si ricorda del pari le ragioni per cui se ne è distaccato, divenendo una religione nuova e universale, ciò che il giudaismo non è mai stato e che non è neppure al presente? E che senso ha ribadire che Dio ha scelto gli ebrei quale popolo eletto, tacendo che, dopo l’Incarnazione, il Sacrificio e la Resurrezione di Cristo, il concetto di popolo eletto si è esteso all’umanità intera? Infine, che senso ha dire che i cristiani riconoscono le proprie radici nella stessa auto-rivelazione di Dio che nutre l’esperienza religiosa degli ebrei, se non si dice chiaro e tondo che il Dio dei cristiani è Gesù Cristo, quel Gesù che gli ebrei hanno rifiutato, come la pietra scartata dal costruttore che diventa pietra d’angolo del nuovo edificio, secondo la similitudine evangelica (cfr. Mt 21, 40, 44; Mc 12, 10; Lc 20, 17-18; At 4, 11; Rm 9, 32-33)?


Ecco dove conduce la retorica del dialogo a tutti i costi: a dire solo ciò che suggerisce una somiglianza e a tacere tutto ciò che rappresenta una differenza; in altre parole, una deliberata soppressione della propria identità, perché senza differenza non esiste identità. D’altra parte, siamo perfettamente consapevoli che di più Benedetto XVI non poteva dire, né potrebbe dire alcun altro papa, né alcun cattolico. Ma appunto ciò dovrebbe suggerire l’inevitabile conclusione: rispetto per i seguaci delle altre religioni come persone, sì; ma riconoscimento delle false religioni, partendo dal giudaismo, no.





settembre 2019
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