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La logica del Card. Koch di
Alipio de Monte
A leggere le dichiarazioni rilasciate dall’Em.mo Card. Kurt Koch, prefetto del Consiglio per l’unità dei cristiani, all’agenzia Apic-Kipa (L’Osserv. Rom., 3 agosto), nasce il sospetto che fra l’eminentissimo personaggio e la logica ci sia un fatto personale. Il Cardinale vorrebbe rispondere in maniera pertinente all’ormai ampia e variegata critica conciliare; ci si prova, a dire il vero, ma con evidente esito contraddittorio. Non tenendo conto dell’articolato ventaglio in cui la detta critica si specifica senza mai diventare per questo né opposizione né prevenzione, si preoccupa di far capire a chi giudica che il Vaticano II sia stato un errore, o che qualche errore abbia insegnato, la colorazione protestante di un tale giudizio e la sua origine da Lutero. Se lo dice lui! Quando salì sulla rocca vaticana per guidare il suddetto Consiglio, lo accompagnava la fama di uomo in situazione limite. Era l’uomo del dialogo ecumenico, che aveva tessuto una fitta rete di rapporti tra gli eredi della Riforma e le posizioni conciliari e postconciliari della Chiesa cattolica, trovandone facilmente la sintesi nella figura e nell’opera teologica di Martin Lutero. Erano queste le benemerenze che lo avevano emblematicamente collocato ai vertici di un dialogo mai venato da qualche strascico polemico e sempre pronto al riconoscimento bilaterale di Lutero “nostro comune padre nella fede”. Lutero era, dunque, per lui, così come ovviamente per ognuno degli attuali epigoni della Riforma, la cerniera sulla quale si saldava nuovamente l’infranta comunione ecclesiale. Chi l’avesse infranta e perché, non era determinante; tale era invece la saldatura dell’unità nel nome di Lutero. Non consta che, pur non estraneo all’ambiente accademico, K. Koch brillasse per qualche monografia di alta scientificità teutonica sul grande Riformatore tedesco. Brillava, però, di infaticato impegno pastorale nel ricondurre e riproporre Lutero all’attenzione del mondo cattolico, nonostante che proprio M. Lutero, specie dal 1520 in poi, se ne fosse sdegnosamente ed acrimoniosamente distaccato. Come se l’articulus stantis et cadentis ecclesiae – cioè la giustificazione per la sola fede senza le opere – fosse una bazzecola, laddove lo stesso Lutero ne faceva una questione di vita o di morte, K. Koch profittò dell’inspiegabile rilettura che ne ripropose proprio la Chiesa cattolica in consonanza con la tradizione luterana per continuare a rilanciare il nome, l’autorità e l’attuale validità del padre della Riforma. Evidentemente il Lutero così appassionatamente rilanciato in fase dialogante non era quello che un pur modesto Lutherforscher conosce dallo studio della Weimarana e dalle più accreditate ricostruzioni storico-scientifiche, tedesche e non solo tedesche, della vicenda del Riformatore. Era un Lutero artefatto, ricostruito sulle esigenze del dialogo ecumenico, spogliato di ogni possibile motivo di contrapposizione teologica ed irenicamente valutato. Ora, però, chissà per quale improvviso ed inspiegabile transfert il nome di Lutero viene pronunciato non in segno di ammirazione e di richiamo al riscoperto valore delle sue posizioni, bensì nel segno della vecchia e bieca condanna: chi abbina errore e Vaticano II ripete la posizione ereticale di Lutero ed incorre nella sua stessa condanna. Se non che l’illuminante dichiarazione dell'eminentissimo personaggio non si ferma qui. Poiché la lingua batte dove il dente duole, passa di nuovo e disinvoltamente dall’immagine del Lutero ribelle, e come tale scomunicato, a quella del campione e modello nella fede e come tale meritevole dell’omaggio che, nel 2017, Chiesa cattolica e Federazione Luterana Mondiale già stanno alacremente preparando insieme. Ma allora, Eminenza, sa almeno lei a quale Lutero intende riferirsi? La sua prosa non brilla per linearità, coerenza e logica ed io che sul Vaticano II ho qualche seria riserva vorrei proprio sapere da Lei se mi rapporta al Lutero dell’Unam sanctam o a quello delle non lontane celebrazioni centenarie. Che il suo periodare manchi di trasparenza e si risolva in un modello di superficialità è documentato dalla sua dichiarazione, nella quale tutto il fermento critico-scientifico, finalmente sviluppatosi attorno all’ultimo Concilio come premessa ineludibile di una sua obiettiva ermeneutica, è liquidato con un vago e generico riferimento ai “critici del Concilio”: a quali, visto che in cinquant’anni se ne son visti di tutti i colori e tutte le gradazioni? Si sofferma di preferenza sul rilievo di qualche errore, ma nessuno riesce a capire l’oggetto del suo rilievo; non c’è studioso che non abbia premesso le coordinate di un Concilio ecumenico in quanto tale e non ne abbia preso spunto per qualche rispettosa osservazione critica al Vaticano II; lei risponde con l’appiattimento di tutti sulla figura di Lutero, rimanendo peraltro a mezza strada fra l’ex agostiniano ribelle e “il novello Apostolo delle genti”. Evidentemente non entusiasta che qualcuno esprima valutazioni positive sul Concilio di Trento o sul Vaticano I, instaura un risibile confronto fra Tridentino e Vaticano II, fra i pochi decreti dell’uno e la mole dei 16 documenti dell’altro. Giustifica l’ecumenismo dichiarandolo “un tema non secondario” e basandolo sulla Lumen Gentium unitamente a Nostra aetate e ad altri documenti: cioè, giustificando, come da cinquant’anni, il Vaticano II col Vaticano II. Insomma, la sua dichiarazione è talmente priva di una condivisibile linea di coerenza e perfino di logica, che suscita davvero il sospetto inizialmente accennato. Ma più grave di esso è il sospetto che gli sta a monte: in quale rapporto pone le cose di cui parla e l’unità della fede e della tradizione cattolica? Alipio
de Monte
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agosto 2012 |