Impariamo dalla spiritualità indigena amazzonica


A proposito della imminente celebrazione del Sinodo sull’Amazzonia, ci è sembrato opportuno riportare quanto pubblicato da un giornale brasiliano su certi usi e costumi dei popoli dell’Amazzonia, basati interamente su una spiritualità ancestrale che qualcuno presume risalente all’insegnamento dello “Spirito del Signore”. E questo qualcuno, incredibilmente, fa parte della moderna gerarchia vaticana, la stessa che ha redatto il documento preparatorio per il Sinodo, nel quale si legge:

È necessario cogliere ciò che lo Spirito del Signore ha insegnato a questi popoli nel corso dei secoli: la fede in Dio Padre-Madre Creatore, il senso di comunione e di armonia con la terra, il senso di solidarietà con i propri compagni, il progetto del “buon vivere”, la saggezza di civiltà millenarie che gli anziani possiedono e che ha effetti sulla salute, sulla convivenza, sull'educazione e sulla coltivazione della terra, il rapporto vivo con la natura e la ‘Madre Terra’, la capacità di resistenza e resilienza delle donne in particolare, i riti e le espressioni religiose, i rapporti con gli antenati, l'atteggiamento contemplativo e il senso di gratuità, di celebrazione e di festa e il senso sacro del territorio. (Instrumentum laboris, n° 121)

Sarebbe opportuno: Riconoscere la spiritualità indigena come fonte di ricchezza per l'esperienza cristiana.
(Instrumentum laboris, n° 123, § b))


Ora, se la “spiritualità indigena” dovrebbe essere – e dovrà essere a partire dal Sinodo – una “fonte di ricchezza per l’esperienza cristiana”, sembra di capire che il modo di vivere cristiano condotto per venti secoli debba essere abbandonato per ritornare all’età della pietra, scartando l’intera Bibbia, Nostro Signore, e tutti i Martiri, i Padri e i Santi che finora sono stati per i cattolici guide ed esempii di spiritualità.
Come giustamente fa osservare l’acuto amico e fratello Alessandro Gnocchi, abbiamo a che fare con una vera gerarchia che dirige una falsa chiesa.
Se vogliamo rimanere cattolici non abbiamo altra scelta: rifiutare questa gerarchia e rimanere ancorati alla vera Chiesa, come ci è stata consegnata dai nostri padri dall’inizio fino alla vigilia del Vaticano II.



L'articolo che presentiamo è stato pubblicato sul giornale Globo il 7 dicembre 2014, quindi in in tempi non sospetti. Esso riporta l'inchiesta svolta dal gruppo “Fantastico”, dello stesso giornale, su certi usi dei popoli amazzonici.
 
Le immagini sono nostre





Gruppo familiare Yonomami


La tradizione indigena permette che i genitori sopprimano i figli con disabilità fisiche.
La pratica si verifica in almeno 13 gruppi etnici indigeni in Brasile.
Una tradizione comune anche prima che i bianchi arrivassero nel paese.


Una questione della massima importanza: il diritto alla vita. Pensate che sia giusto uccidere i neonati a causa di una disabilità fisica?

Sappiate che questo accade in Brasile e non è un crimine. La Costituzione, la nostra legge superiore, assicura ai gruppi indigeni il diritto di praticare l’infanticidio, l’assassinio di bambini nati con un grave problema di salute.

Per gli indios, questo è un gesto d’amore, un modo per proteggere i neonati, ma ci sono persone che non sono d’accordo.

Un disegno di legge per sradicare l’infanticidio è già stato approvato in due commissioni della Camera federale e sta per essere votato in plenaria.

Dall’altra parte, gli antropologi difendono la non ingerenza nella cultura degli indios. I giornalisti di Fantastico sono andati a indagare su questo tema di cui poco si parla. E hanno scoperto che la morte di questi neonati ha cambiato in peggio la mappa della violenza in Brasile.

La città più violenta del Brasile si trova all’interno dello stato di Roraima: Caracaraí, che conta solo 19 mila abitanti.

Secondo l’ultima mappa della violenza, del Ministero della Giustizia, in un anno lì sono state uccise 42 persone; tra cui 37 indios, tutti neonati, uccisi dalle loro stesse madri poco dopo il primo pianto.

Con l’aiuto di un sorvegliante, Fantastico è entrato nella terra degli Yanomami, un’area di 9,6 milioni di ettari, più grande del Portogallo. Là vivono 25 mila indios in 300 villaggi entro una foresta interamente preservata.

Il figlio di una donna Yanomami entrerà nella prossima statistica dei bambini morti subito dopo la nascita. Questa donna, due settimane fa ha cominciato a sentire i dolori del parto, è entrata da sola nella foresta e ore dopo è tornata senza la pancia gravida e senza il bambino.

Gli operatori sanitari che lavorano là hanno detto, senza registrazione, che quella notte c’è stato un altro omicidio infantile, un infanticidio.

L'infanticidio indigeno è un atto senza testimoni. Le donne vanno da sole nella foresta. Lì, dopo la nascita, esaminano il bambino. Se questi ha una disabilità, la madre torna al villaggio da sola.

La pratica si verifica in almeno 13 gruppi etnici indigeni in Brasile, principalmente in tribù isolate come i Suruwahas, Yanomami e Kamaiurás. Ogni gruppo etnico ha una credenza che porta la madre ad uccidere il neonato.

Bambini con disabilità fisiche, gemelli, figli di madri single o frutto di adulterio possono essere visti come maledetti a seconda della tribù e finiscono per essere avvelenati, sepolti o abbandonati nella selva. Una tradizione comune praticata anche prima dell’arrivo dell’uomo bianco, ma che di solito rimane nascosta in mezzo alla foresta.

Il tema dell’infanticidio sta riemergendo perché spiccava nella Mappa della violenza del 2014, preparata con dati di due anni fa.

L’autore dell'indagine condotta per conto del Ministero della Giustizia, il ricercatore Júlio Jacobo, della Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali, non aveva idea della pratica.
“Allora ho iniziato a fare ricerche con i certificati di morte. Vi erano registrati bambini di colore o razza indigena, da 0 a 6 giorni di età. E abbiamo cominciato a vedere che si trattava davvero di una cultura indigena seminascosta di cui non si parlava, dice il ricercatore.

Il segretario della Sicurezza pubblica di Roraima, Amadeu Soares, spiega perché il suo Stato appaia per la prima volta tra i più violenti del Brasile.

Fantastico: Perché nel 2012 c’è stata questa evoluzione, con un numero così elevato?

Amadeu Soares: perché fu l’anno in cui la Segreteria Speciale incominciò a registrare questi infanticidi.
Ed è così che Caracaraí, all’interno di Roraima, divenne la città più violenta del Brasile. Ci sono 210 omicidi ogni 100.000 abitanti. La media nazionale è di 29 omicidi ogni 100.000 abitanti.

Pituko Waiãpi è un sopravvissuto. È nato 37 anni fa in un villaggio Waiapi, situato all’interno di Amapá. Aveva una paralisi infantile e fu condannato al sacrificio.
Egli racconta: “La mia famiglia non mi avrebbe accettato a causa della disabilità. Così, il Funai mi ha fatto uscire da lì”.
Il ragazzo è cresciuto tra i bianchi e, all’età di sette anni, è stato riportato alla tribù.
“Un assistente sociale non ha capito l’usanza del villaggio. Non sapeva che non avrebbe potuto tornare e lo ha riportato indietro”, dice Silvia Waiãpi, la sorella di Pituko.

Il ragazzo viveva portato dalla madre, dal padre o dal fratello maggiore.

Racconta Pituko: “Poi un giorno mia madre si stancò di portarmi e mi diede a mio padre. Quando fu il momento di attraversare il fiume, mio padre cominciò a minacciare che ero inutile, che meritavo di essere ucciso. A sentire questo, mia madre ha gridato che non avrebbe dovuto farmi questo”.

E la sorella racconta: “Mia madre l’ha dato ad un medico e l’unica parola che sapeva in portoghese era: ‘Anche se. Anche se. Anche se’”.

Egli rivide i suoi genitori quando aveva 21 anni.

Racconta Pituko: “Mia madre si sedette accanto a me e mi disse: ‘Figlio mio, ti ricordi quella volta che è successo?’. Risposi: ‘Mi ricordo’. Poi mi ha chiesto: ‘Sei arrabbiato con lui?’, ‘No. Mi piace mio padre. Questa è la vostra cultura. Forse tu stavi facendo la cosa giusta e io non stavo più soffrendo’”.

“Come si fa a portare sulla schiena una persona handicappata senza sedia a rotelle? In mezzo alla foresta?”, dice la sorella di Pituko.
E spiega che per il suo popolo, l’infanticidio non è un atto crudele.
“E’ un atto d’amore. Amore e disperazione. Perché non vuoi che tuo figlio continui a soffrire. Tu vuoi che sopravviva, ma come?”.

E l’antropologo João Pacheco spiega: “A questo non si può attribuire alcun elemento di crudeltà. Se una persona ha dalla nascita deformazioni fisiche o disabilità molto grandi, sarà sempre un emarginato”.
Secondo l'antropologo, questo ragazzo è un esempio di ciò che sarebbe marginale nella comunità indigena. Egli soffre di un problema neurologico.

“Secondo le informazioni, questo bambino è nato senza segni di alcun tipo di disabilità. Non l’hanno respinto, ma allo stesso tempo non è come gli altri bambini. Sta più appartato”, spiega Tiago Pereira, un infermiere del Segretariato per la Salute Indigena.

Non rendendosi conto della disabilità, la madre ha allattato il figlio.

Quest’atto è della massima importanza nella vita di un piccolo Yanomami. Quando la madre allatta il bambino è come se gli desse il certificato di nascita, egli viene accettato da lei e dalla comunità.
Gli indios credono che solo con questo rituale il bambino diventa un essere vivente e, grazie a questa prima alimentazione, Kanhu Rakai, la figlia di Tawarit, oggi è viva.
“Se l’avesse notato da bambina, avrebbe potuto essere sepolta”, dice Tawarit Makaulaka Kamaiurá, il padre di Kanhu Rakai.
Quando è nata, la famiglia, che fa parte del gruppo etnico Kamayurá, non si è accorta che Kanhu Rakai avrebbe avuto dei problemi.
“E’ nata normale. Dopo cinque anni, ha cominciato a indebolirsi”, dice Tawarit.
Kanhu Rakai aveva una distrofia muscolare progressiva, una malattia degenerativa che rende ogni giorno più difficili i movimenti della ragazza, e i suoi genitori venivano spinti dalla comunità ad uccidere la bambina.
“Il villaggio non comanda. Può indicare, ma chi decide siamo solo io e lei, sono le persone che decidono”, dice Tawarit.
E insieme decisero di trasferirsi a Brasilia.
“Per me, uccidere i bambini è brutto, molto brutto”, afferma Tawarit.

La soluzione per prevenire la morte dei bambini indigeni non è semplice. Chi vive vicino al problema lo sa. João Catalano è il coordinatore generale del Fronte per la Protezione degli indios Yanomami, il Funai.
“Bisogna capire l’ambiente in cui sono inseriti. Stiamo parlando della foresta tropicale più grande del mondo. La maggior parte delle regioni si raggiunge solo in aereo”, dice Catalano.

Il Segretario della Sicurezza Pubblica di Roraima sottolinea un altro limite all’azione: “Il Funai segue, studia e analizza tutte queste questioni culturali delle popolazioni indigene. E lo Stato ha la limitazione della sola registrazione in caso di morte.”

Durante la stesura di questa relazione, più volte abbiamo cercato di parlare con la direzione del Funai, la Fondazione Nazionale degli indios, ma non hanno voluto parlare dell’argomento con Fantastico.

E cosa dice la legge brasiliana sull’infanticidio indigeno? L’articolo 5 della Costituzione garantisce a tutti il diritto alla vita.
Il giurista José Alfonso da Silva, specialista in diritto costituzionale, ricorda una delle eccezioni previste dalla Costituzione.
“Essa riconosce la cultura indigena, i costumi indigeni, le tradizioni indigene”.
Quindi, per la Costituzione brasiliana, non c’è nulla di riprovevole nell’atto della madre india che uccide il figlio appena nato.

Il deputato federale Henrique Afonso, del PV di Acre, ha presentato un progetto di legge in cui indica come lo Stato possa agire per intervenire nella questione. E lo stesso Henrique Afonso spiega che “Questo progetto ha lo scopo di sradicare l’infanticidio in Brasile”.
Esso prevede, per esempio, la creazione di un Consiglio Tutelare Indigeno, che avrebbe l’autonomia per determinare quali mezzi debbano essere adottati caso per caso.
Il progetto non è stato messo ai voti al Congresso, ma è già criticato.

«Non c’è modo per applicare questo progetto, se non con la violenza, cosa sconsigliabile; e la stessa Costituzione lo scarterebbe”, commenta il giurista José Afonso da Silva.

E l’antropologo João Pacheco afferma: “Io non possono pensare che si tratti di un progetto realmente umanitario. In questo senso, gli antropologi si sono espressi sempre contro”.
Per gli antropologi, la soluzione sarebbe il dialogo. Una soluzione di successo trovata da un tecnico infermieristico della Segreteria Speciale della Salute Indigena del Ministero della Salute, Charles Sheiffer. Dialogando, egli è riuscito ad impedire la morte di una neonata indigena.
Egli racconta: “Ero al centro sanitario verso le 5:20 del mattino e improvvisamente ho sentito un colpo alla porta. La madre aveva mandato uno dei suoi figli a chiamarmi perché vedessi questa bambina. Sono arrivato e la bambina era già sull’erba con la placenta e tutto il resto. E sono rimasto con questa bambina per circa tre giorni”.
Il padre aveva altri tre figli. E credeva di non potersi permettere di crescere un altro bambino.
Dice Sheiffer: “Rimasi finché il padre non fu convinto dal mio atteggiamento. E anche la madre voleva la bambina, in ogni caso. E quando infine la madre le diede il primo latte, la cosa era fatta… la bambina era libera”.

Silvia, laureata in fisioterapia, è tenente nell’esercito e si lamenta della mancanza di una struttura per la salute di questi popoli.
“Mancano le medicine, mancano infermieri e tecnici, perché quei pochi che ci sono sono sovraccarichi. Quindi affermare che l’indio sta facendo un infanticidio è molto facile. Ma se ci fosse una struttura, dubito che accadrebbe. Dico questo perché mio fratello, Pituko, è tetraplegico, non ci sarebbero le condizioni di sopravvivenza all’interno del villaggio, ma qui oggi è un pittore. Muove solo la testa e il collo, dipinge e scrive solo con la bocca”.
Oggi Pituko è un orgoglio per il suo villaggio. Ora, i Waiãpis hanno scoperto che c’è un altro modo per i bambini nati con disabilità.
E lo stesso Pituko afferma: “Ho rotto i pregiudizi sulle persone con paralisi infantile… Ho una nipote che ha due figli disabili”.
E Silvia precisa: “Oggi mio padre ha capito questo. Lo vediamo nel suo sguardo. Uno sguardo d’amore. Uno sguardo di affetto. E quando ce ne andiamo, piange, perché è passato molto tempo dall’ultima volta che ci ha visti. E dice in portoghese: mi dispiace”.
“Lo stesso dispiacere che nutre Muwaji per il suo popolo. Lei viene da una tribù isolata dell’Amazzonia, i Suruwaha”
“Quando ha dato alla luce sua figlia, era sola in mezzo alla foresta. Si rese conto che la bambina non aveva aperto le mani e che le sue gambe erano incrociate e rigide. Muwaji ha iniziato a crescere sua figlia, ma suo fratello ha insistito che lei avrebbe dovuto uccidere la bambina: ‘Dalle il veleno’, la uccideranno’; ‘Non voglio ucciderla’, disse Muwaji.

Per salvare la bambina, Muwaji fuggì dalla tribù. Vive con la figlia di otto anni a Brasilia e non ha più visto la famiglia. “Il mio cuore è triste, piango, ma poi sono di nuovo allegra” racconta.
Lei non vede il modo per tornare dalla sua tribù e canta solo quando vuole sentirsi vicina al suo popolo.




Donne Yanomami




settembre 2019
AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI