La teologia “meticcia” di papa Francesco

di Roberto de Mattei


Articolo pubblicato il 18 dicembre 2019 sul Corrispondenza Romana






Tra le parole più ricorrenti nel linguaggio di papa Francesco c’è quella di “meticciato”. Francesco attribuisce a questo termine un significato son solo etnico, ma politico, culturale e persino teologico.
Lo ha fatto il 12 dicembre, affermando che la Madonna «si è voluta meticcia per noi, si è meticciata. E non solo con Juan Dieguito, ma con il popolo. Si è meticciata per essere Madre di tutti, si è meticciata con l’umanità. Perché? Perché ha “meticciato” Dio. E questo è il grande mistero: Maria Madre “meticcia” Dio, vero Dio e vero uomo, nel suo Figlio» (L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019).

Che papa Francesco ne sia consapevole o no, l’origine di questa visione “meticcia” del Mistero dell’Incarnazione sta nell’eresia di Eutiche (378-454), archimandrita di un convento di Costantinopoli, secondo cui, dopo l’unione ipostatica, l’umanità e la divinità di Cristo si sarebbero fuse per formare un tertium quid, un’ibrida mescolanza che non sarebbe propriamente né Dio né uomo. L’eutichianesimo è una forma grossolana di monofisismo perché ammette nel Figlio di Dio incarnato una sola natura risultante da questa confusa unione della divinità con l’umanità.
In seguito alla denuncia di Eusebio di Dorilea (lo stesso che vent’anni prima aveva accusato Nestorio), Flaviano, vescovo di Costantinopoli, nel 448 riunì un Sinodo in cui Eutiche fu giudicato eretico e scomunicato. Eutiche però, con l’appoggio del patriarca di Alessandria Dioscoro, riuscì a fare convocare un altro sinodo ad Efeso, in cui fu riabilitato, mentre vennero aggrediti e poi deposti Flaviano, Eusebio ed altri vescovi.
Era Papa in quel momento san Leone Magno che sconfessò il sinodo di Efeso, chiamandolo Latrocinium Ephesinum, il brigantaggio di Efeso, nome con cui quel conciliabolo è passato alla storia.
Dopo aver mandato a Flaviano una lettera in cui esponeva la dottrina cristologica tradizionale (Denz-H, 290-295), il Papa spinse la nuova imperatrice Pulcheria (399-453) ad organizzare un nuovo concilio nella città di Calcedonia, in Bitinia. Nella terza sessione del concilio fu letta la lettera di papa Leone a Flaviano intorno all’Incarnazione del Verbo; e appena tacque la voce del lettore, tutti i presenti gridarono insieme unanimi: «Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli apostoli. Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone» (Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima Collectio,VI, 971, Act. II).

Il Concilio di Calcedonia definì quindi la formula di fede che stabiliva l’unità di Cristo come persona e la dualità delle nature dell’unica Persona di Cristo, perfetto e vero Dio, perfetto e vero uomo, unico soggetto in due nature distinte.
La definizione dogmatica di Calcedonia confessa «un solo e medesimo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo; perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, Dio vero e uomo vero, fatto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale a noi secondo l’umanità, simile a noi in tutto fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità e, negli ultimi tempi, da Maria Vergine Madre di Dio, secondo l’umanità, per noi e per la nostra salvezza» (Denz-H, 301).

I protagonisti di Calcedonia, Flaviano e Pulcheria vennero assurti, come san Leone Magno, alla gloria degli altari, mentre il nome di Eutiche è annoverato tra quelli degli eresiarchi.

Tra le numerose varianti dell’eutichianesimo, nel corso dei secoli, c’è quella della kenosi, sviluppata nel mondo protestante attraverso una stravagante interpretazione dell’“annientamento” o “svuotamento” di cui parla san Paolo nella Lettera ai Filippesi (2, 7). La Chiesa intende questo passo in senso morale, leggendovi la volontaria umiliazione di Cristo che, pur essendo e rimanendo veramente Dio, si abbassò fino a nascondere la sua infinita grandezza nell’umiltà della nostra carne. La dottrina della kenosi afferma invece una vera perdita o completa rinunzia delle proprietà divine del Verbo.
Nell’enciclica Sempiternus Rex dell’8 settembre 1951, Pio XII la confutò con queste parole: «È del tutto contraria anche alla definizione di fede del concilio di Calcedonia l’opinione, assai diffusa fuori del cattolicesimo, poggiata su un passo dell’epistola di Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 2,7), malamente e arbitrariamente interpretato: la dottrina chiamata kenotica, secondo la quale in Cristo si ammette una limitazione della divinità del Verbo; un’invenzione veramente strana che, degna di riprovazione come l’opposto errore del docetismo, riduce tutto il mistero dell’incarnazione e redenzione a ombre evanescenti».

La pretesa di una limitazione della divinità è assurda, perché l’essere divino è infinitamente perfetto, semplice e immutabile, metafisicamente incapace di subire alcuna limitazione e un Dio che rinuncia ad essere sé stesso cessa di essere Dio e di esistere (cfr. Luigi Iammarone, La teoria chenotica e il testo di Fil 2, 6-7, in Divus Thomas, 4 (1979), pp. 341-373).
I neo-eutichiani negano la verità di ragione secondo cui Dio è l’Essere per essenza, Atto puro, immutabile nelle sue infinite perfezioni e rigettano la verità di fede secondo cui Gesù, in quanto Uomo-Dio, ha goduto durante l’intero corso della sua vita della visione beatifica, fondamento della sua divinità.
La teologia del “meticciato” di papa Bergoglio sembra far propria questa posizione, la medesima che gli attribuisce Eugenio Scalfari quando, in un articolo su Repubblica del 9 ottobre, ha scritto che, secondo Francesco, «una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
Il direttore della Sala Stampa Vaticana, intervenuto lo stesso giorno, non ha smentito come false le parole di Scalfari, ma ha detto che esse «rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato», lasciando un’ombra di grave sospetto sulla cristologia bergogliana.

Qualcuno potrebbe obiettare che noi attribuiamo a papa Francesco eresie che egli non ha mai formalmente professato. Ma se è vero che la censura di eresia può essere applicata solo a sentenze che negano una verità rivelata, è anche vero che un eretico può manifestarsi attraverso l’ambiguità delle sue parole, e dei suoi atti, silenzi ed omissioni. A papa Francesco ci sembra possibile applicare le parole che un eminente patrologo, il padre Martin Jugie, ha dedicato ad Eutiche: «E’ molto difficile sapere con precisione quale sia stata la dottrina personale di Eutiche sul mistero dell’Incarnazione, perché non lo seppe bene nemmeno lui. Eutiche è stato un eretico perché ha sostenuto con caparbietà formule equivoche, false per di più nel loro contesto: ma siccome tale formule si prestavano ad una spiegazione ortodossa e certe sue affermazioni favoriscono un’interpretazione benevola, si rimane indecisi sul suo pensiero effettivo» (Enciclopedia Cattolica, vol. V (1950), col. 870, 866-870).

La teologia di papa Francesco è “meticcia” perché mescola verità ed errori, formando un confuso amalgama in cui nulla è chiaro, determinato, distinto. Tutto sfugge ad ogni definizione e la contraddizione sembra essere l’anima del pensiero e del linguaggio. Francesco, assieme alla Madonna, vorrebbe “meticciare” la Chiesa, facendola uscire da sé stessa per mescolarsi con il mondo, immergersi in esso e da esso essere assorbita. Ma la Chiesa è Santa e Immacolata, come Santa e Immacolata Maria, Madre e modello del Corpo Mistico. La Madonna non è meticcia, nel senso che le attribuisce Francesco, perché nulla in Lei esiste di ibrido, di oscuro, di confuso. Maria non è meticcia perché è luce senza ombre, bellezza senza imperfezioni, verità incorrotta, sempre integra e senza macchia.

Chiediamo aiuto alla beatissima Vergine Maria affinché anche la nostra fede non sia meticcia, ma resti sempre pura e incontaminata, splendente davanti a Dio e davanti agli uomini, come splendette nella notte di Natale il Verbo Incarnato manifestandosi al mondo.





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