Per una critica dell’ermeneutica filosofica

(Riflessioni su Schleiermacher) (0)



di Paolo Pasqualucci

L'articolo è stato pubblicato come appendice alla riproposizione della voce “modernismo” del Padre Cornelio Fabro,
che il Prof. Pasqualucci  ha presentato sul suo sito  “Iter

L'immagine e l'impaginazione sono nostre







Il termine “ermeneutica” è usato spesso come equivalente erudito di “interpretazione”: l’ermeneutica di un testo altro non sarebbe che l’interpretazione dello stesso, giusta il significato di hermeneúo, che in greco antico voleva dire: dichiaro, espongo, interpreto.
Il termine deriverebbe da una radice ser o Fer, dalla quale il latino sermo, discorso.
Nella mitologia greca, il quasi omonimo Ermes (Mercurio per i Latini) era, tra molte altre cose, il dio dell’eloquenza.  
Così inteso, il termine è puramente descrittivo, non rivelando ancora di che tipo di interpretazione si tratti, a quali criteri essa si ispiri.
Ma nel pensiero contemporaneo si è fortemente sviluppata la tendenza a concepire la filosofia in quanto tale  come ermeneutica, intendendosi perciò quest’ultima in un senso ben più ampio rispetto alla semplice “interpretazione”.  Muovendo inizialmente dalla teoria dell’interpretazione dei testi, la concezione della filosofia come “ermeneutica” ha elaborato un concetto soggettivistico del comprendere in generale e quindi del modo stesso di concepire il concetto della verità.  E sappiamo che questa ermeneutica filosofica esercita ancor oggi un’ampia influenza.

Quando, nell’odierna disputa sull’esatto significato del Vaticano II, autorevoli fonti ecclesiastiche ci invitano (senza specificare) ad interpretarlo alla luce di un’ermeneutica della continuità e non della rottura con l’insegnamento tradizionale della Chiesa, che significato dobbiamo conferire al termine “ermeneutica”? 
Semplice, neutro equivalente di “interpretazione”?  Le fonti ecclesiastiche che lo impiegano, dovrebbero chiarire. A mio avviso, mancando tale chiarimento, applicare questo termine alla comprensione della dottrina della Chiesa può rivelarsi fuorviante. Infatti, molti potranno ricondurlo a quello di interpretazione della dottrina della Chiesa secondo i criteri tradizionali. Altri, invece, intenderlo nel senso della contemporanea ermeneutica filosofica, che ha la sua origine in Schleiermacher e il suo pieno sviluppo in Heidegger ossia  nell’antimetafisica dell’Esistenzialismo.
Lo scopo del mio breve intervento è quello di proporre alcune riflessioni proprio su Schleiermacher, seguite da un cenno finale su Heidegger.

L’ermeneutica come intuizione divinatoria in Schleiermacher

Ciò premesso, soffermiamoci dunque sulla celebre Hermeneutik di Friedrich Schleiermacher (m. nel 1834), pastore e teologo luterano, filosofo e “mistico”, uno dei padri fondatori del Romanticismo e del protestantesimo liberale, al quale ultimo i modernisti  si sono ampiamente ispirati [1]. È un saggio di circa settanta pagine, tratto dai suoi manoscritti e dagli appunti presi alle sue lezioni accademiche.  I concetti generali sono esposti in una Introduzione, seguìta da un lungo discorso sulla “ermeneutica psicologica” [2].

L’ermeneutica deve comprendere la vita come totalità

L’ermeneutica è “l’arte del comprendere” e consta di diverse “ermeneutiche speciali”. 
Poiché il discorso è solo “il lato esteriore del pensiero”, l’ermeneutica, oltre che all’arte, si rapporta alla filosofia.  Ma poiché il pensiero ha “natura comunitaria”, va posta in relazione anche con la retorica e la dialettica, grazie alle quali i nostri concetti entrano in relazione con il pensiero degli altri.  Il “discorso altro non è che il pensiero stesso nel suo divenire [lett., nel suo esser divenuto]”. 
Pensiero e discorso si comprendono solo nella “comune vita storica” e comunque nello sviluppo storico che riguarda il “discorso”.  La giusta comprensione del “discorso” si fonda dunque su quella del linguaggio e del pensiero del suo autore.  Anche il linguaggio va compreso alla luce di una totalità, quella della “lingua”.  Il pensiero è un “interiore discorrere”.
L’impostazione di Schleiermacher sembra evidente:  egli tende a risolvere i singoli fenomeni nella totalità ossia a spiegare le singole manifestazioni dello spirito (discorso, linguaggio, pensiero) alla luce di un tutto che deve ricomprenderle.  Questo “tutto” è visto nella storia ma soprattutto nel concetto di “vita”, un concetto che avrà fortuna nella filosofia tedesca posteriore.
“Ogni discorso deve sempre esser compreso nella totalità della vita cui appartiene poiché ogni discorso è riconoscibile come momento vitale (Lebensmoment) di colui che parla, nella realtà conchiusa di tutte le sue componenti vitali e tenendo in considerazione nient’altro che la totalità dei fattori ambientali che ha condizionato il suo sviluppo e progresso.  Ciò significa che ogni autore va compreso solo attraverso la nazionalità [cui appartiene] e l’epoca [cui appartiene]” [3].

Che nella comprensione dell’autore e quindi del testo (o dell’opera, in generale) si debba tener conto anche del condizionamento storico rappresentato dallo spirito del tempo e dalla nazionalità di appartenenza, non lo si può certo negare.  Ma non si può attribuire a questo criterio un valore assoluto, come fa Schleiermacher, in tal modo storicizzando completamente il significato di un testo. 
Tanto per fare un esempio, se noi storicizziamo del tutto il significato dei Vangeli, allora essi scadono a documento che si limita a riflettere la situazione storica ed ambientale dell’Israele del tempo, venendo in tal modo a perdere il loro significato universale perché spogliati di quel carattere sovrannaturale e quindi immutabile che appartiene loro, in quanto documenti ispirati da Dio, che ne è il vero autore [4].

L’interpretazione psicologica

Che cos’è allora il comprendere (Verstehen)? È “l’integrarsi dell’interpretazione grammaticale con quella psicologica”. Ma perché l’interpretazione è ”arte”?  Innanzitutto, perché essa deve armonizzare abilmente l’elemento grammaticale con quello psicologico, accentuando l’uno o l’altro a seconda del tipo di opera con cui si ha a che fare. 
Per Schleiermacher, la più importante è l’interpretazione psicologica, che costituisce il suo contributo più originale, come sottolinea Gadamer. È essa che ci consente di penetrare lo spirito dell’autore, situandolo nello stesso tempo nella giusta dimensione storica.  Tale interpretazione, infatti, evita veramente il “fraintendimento” (Missverstehen) solo quando assume carattere “storico” e nello stesso tempo “divinatorio” o “profetico”.  Solo questi caratteri permettono una “ricostruzione oggettiva e soggettiva del discorso” oggetto dell’interpretazione. 
Storica in senso “oggettivo” è quell’interpretazione che vuol vedere come il discorso si rapporti alla totalità della lingua e al sapere racchiuso in quest’ultima come un suo germoglio. 
Divinatoria in senso oggettivo, è quella che presagisce in che modo il discorso stesso diventerà un punto di sviluppo per la lingua. 
Storica in senso “soggettivo” è quella che mira a cogliere il discorso come fatto del sentimento (Tatsache im Gemüt), mentre divinatoria in senso “soggettivo” è quella che indovina in qual modo i pensieri racchiusi nell’animo dell’autore si sviluppano ulteriormente  in lui e da lui [5].

Questi criteri, pervasi da uno spirito visionario, si chiarificano nel famoso e discusso principio secondo il quale l’interprete può (anzi deve) giungere ad interpretare l’autore meglio di quanto quest’ultimo abbia compreso se stesso. 
“Il compito [dell’interprete] consiste anche nel comprendere il senso dell’opera non solo bene come l’autore, ma persino meglio”. 
Ciò significa che dobbiamo render esplicito anche ciò che può esserci di inconsapevole in quest’ultimo.  In tal modo, il compito dell’ermeneutica diventa in sostanza “infinito”, perché si estende “all’infinito del passato e del futuro” (racchiusi nella sfera insondabile dell’interiorità) e richiede un “entusiasmo” quasi divino [6].

Sembra  gran cosa quest’idea di cogliere la personalità dell’autore, in tutti i suoi risvolti, anche quelli a lui ignoti, al fine di poter comprendere l’opera nel migliore dei modi ed anzi meglio dell’autore stesso!  In realtà, questo principio sembra frutto di intellettualistica pedanteria. 
Può esser interessante, certamente, conoscere la personalità, la “vita”, dell’autore.  Ma si tratta pur sempre di una conoscenza utile ai fini di una storia minore, che riguarda la biografia personale dell’autore, il sottofondo della sua creazione.  Della vita di Shakespeare non conosciamo praticamente nulla:  forse questo ci impedisce di capire il significato delle sue tragedie?  Direi di no.  E cosa conosciamo della vita dei tragici greci? O forse possiamo dire che la vita di Dante, che ci è abbastanza nota, possa spiegare un poema del calibro della Divina Commedia?  Può aver influito, la sua vita di esiliato, su alcuni aspetti delle sue concezioni politiche.  Ma in ogni caso si è trattato di un’influenza secondaria. 
In realtà, la tesi di Schleiermacher andrebbe rovesciata, dal punto di vista della sana ermeneutica. È forse la vita di Balzac a farci comprendere la Comédie humaine? No.  È la Comédie humaine, la sua opera, a dare un senso alla vita di Balzac, ad essa dedicata.
Hanno ragione, a mio avviso, coloro i quali sostengono che l’individualità dell’autore, la sua esperienza individuale, racchiusa nella sua “vita”, scompare di fronte all’opera. 
La “vita” dell’autore è nella sua opera, la quale vive di vita propria ed indipendente.  Noi  conosciamo l’autore per la sua opera non per ciò che è stato in quanto individuo privato.  Tanto più l’opera dimostra di essere universale, tanto meno pesa in essa l’esperienza personale dell’autore, la sua “vita vissuta”, ivi compresi i suoi inespressi sentimenti e pensieri.  L’una e gli altri in sostanza privi di interesse, di fronte alla sua opera, ed ininfluenti quanto alla sua autentica comprensione.
Con esaltazione tipicamente romantica, l’interprete viene da Schleiermacher elevato al rango di un vate e l’ermeneutica al rango di un sapere profetico.  L’interprete è colui che, penetrando anche le intenzioni più riposte dell’autore, svela l’appartenenza dell’opera al Tutto, meglio di quanto possa fare l’autore stesso.  In questa appartenenza, si svela il Zirkel im Verstehen o “circolo ermeneutico”.  Il “circolo ermeneutico”, già noto alla retorica antica, viene reinterpretato una prima volta in modo peculiare allo spirito moderno proprio da Schleiermacher.  Una seconda, da Heidegger [7].

Il circolo ermeneutico

Come intende Schleiermacher questo “circolo”?  Egli ribadisce che l’interprete deve impadronirsi della lingua usata dall’autore e conoscere la sua vita esteriore ed interiore, vita che dipende dal carattere e dalle circostanze.  Queste conoscenze possono esser fornite dall’interpretazione in senso stretto (Auslegung) con i suoi ponderosi studi.  Ma il linguaggio tipico di un autore e la storia della sua epoca “si rapportano [tra di loro] come il tutto dal quale bisogna comprendere i suoi scritti nella loro individualità e viceversa [perché sono i suoi scritti che, a loro volta, ci permettono di comprendere il Tutto rappresentato dal linguaggio e dalla storia dell’epoca]”. 
Questo è dunque il circolo vizioso dell’ermeneutica:  “ogni particolare può esser compreso solo a partire dal tutto del quale è parte e viceversa” [8].  Comprendere a partire dal tutto, significa intuire il Tutto come “schema, scheletro, compendio soggiacente” all’opera [9].
Il “circolo ermeneutico”, come inteso da Schleiermacher, non è concetto puramente descrittivo, che si limiti a farci prender coscienza di un circolo vizioso al fine di poterlo superare.  Esso si inquadra nella concezione divinatoria dell’ermeneutica, tipica del nostro autore, i cui connotati panteistici sono stati messi bene in rilievo da Gadamer.  L’interpretazione deve cogliere il senso dell’opera impossessandosi alla fine dell’individualità del suo autore grazie ad un’intuizione di tipo divinatorio? Ne consegue che:  “la base ultima di ogni comprensione sarà sempre un atto divinatorio di congenialità, la cui possibilità si fonda su un precedente legame che unisce tutte le individualità.
In effetti il presupposto di Schleiermacher è che ogni individualità è una manifestazione della vita del tutto e perciò ‘ognuno porta in sé un minimo di tutti gli altri, e la divinazione è in lui stimolata dal confronto con sé stesso’.  Così egli può dire che l’individualità dell’autore va colta immediatamente, ‘con il trasformare in certo modo sé stesso nell’altro’.  In quanto per lui il problema della comprensione sbocca così in quello dell’individualità, il compito dell’ermeneutica gli si presenta come universale” [10].
Universale, come quello dell’individualità, dell’io, del quale si deve fondare il “comprendere” in maniera autonoma.  Poiché il Tutto della “vita”, storica, collettiva e universale, ricomprende sia l’interprete che l’autore, l’individualità dell’autore andrà colta nella sua appartenenza al Tutto e come manifestazione di esso.  Andrà colta, in definitiva, nell’ambito del rapporto circolare fra il tutto e la parte, che si illustra nel circolo ermeneutico. 
In tal modo, per tornare a Gadamer, il principio del circolo ermeneutico della tradizione ermeneutico-retorica, mantenuto dalla filologia contemporanea a Schleiermacher, non è più limitato da lui “all’intelligenza grammaticale del testo” e al suo inserimento nella totalità dell’opera, o “di una letteratura o di un certo genere letterario”.  Schleiermacher lo applica, questa è la novità, all’interpretazione psicologica, la quale “deve comprendere ogni struttura di pensiero come un momento inserito nel contesto della totalità esistenziale della persona dell’autore” [11].
Allora non si tratta più di eliminare dal comprendere “l’andare e venire dalle parti al tutto e dal tutto alle parti”, superando per quanto possibile (aggiungo) i condizionamenti soggettivi che ostacolano la nostra comprensione della cosa in sé, grazie all’uso corretto delle categorie della logica. Il circolo ermeneutico viene invece di fatto accettato quale momento costitutivo dell’interpretazione stessa. 
Per Schleiermacher non è uno scandalo che esso “si allarghi continuamente, giacché il concetto del tutto è relativo, e l’inserimento in contesti sempre più vasti influisce continuamente sulla comprensione del particolare” [12].  Non è uno scandalo, dal momento che – prosegue Gadamer - egli pensa sia possibile dominare questo “tutto” multiforme e magmatico grazie ad una “trasposizione divinatoria”, mediante la quale, di colpo, “ogni particolare acquista la sua piena luce “ e l’interprete coglie intuitivamente l’opera come un tutto e nel Tutto.
Questa è l’ermeneutica.  Il suo organo non è la ragione ma il sentimento, grazie al quale l’individualità supera i limiti che la ragione ed il concetto incontrano di fronte all’infinito del Tutto.  Questo limite “deve essere oltrepassato con il sentimento, cioè attraverso una immediata comprensione simpatetica e congeniale:  per questo l’ermeneutica è appunto arte, e non un’operazione meccanica.  Essa porta a compimento il suo compito, la comprensione, come un’opera d’arte” [13].

La religione panteistica di Schleiermacher 

Va ricordato che l’intuizione ed il sentimento costituiscono per Schleiermacher l’unica e vera fonte anche della religione. La religione, scrive, non va colta attraverso la metafisica o la morale, all’arida maniera dei kantiani. 
“La sua essenza non è costituita né dal pensiero né dall’azione ma dall’intuizione e dal sentimento (Gefühl)” [ 14].
Sentimento, intuizione di Dio? No.  Panteisticamente, sentimento del Tutto  al quale l’individualità appartiene per natura e nel quale deve immergersi di slancio, sulla spinta della “nostalgia dell’infinito”, che ricomprende (nel Tutto) anche l’umanità [15].
“La religione – scrive Schleiermacher - vuole intuire l’universo, nelle sue rappresentazioni ed azioni vuole porsi piamente in ascolto di esso, vuole lasciarsi possedere e riempire dai suoi influssi immediati, in infantile passività.  In tutto ciò che ne costituisce l’essenza e negli effetti che provoca, la religione si oppone ad entrambe [la metafisica e la morale kantiane].  Esse vedono nell’intero universo solo l’uomo come punto centrale di ogni rapporto, come condizione di ogni essere e causa di ogni divenire; la religione vuole invece vedere nell’uomo non meno che in tutte le altre entità finite, l’infinito, la sua impronta, la sua immagine”. 
La metafisica considera l’uomo anche come essere naturale, finito rispetto alla natura, che cerca di comprendere per rapportarla all’uomo, alle sue necessità.  “Anche la religione vive l’intera sua vita nella natura, ma nell’infinita natura del Tutto, dell’uno e di tutti”.  La morale (kantiana) muove dalla coscienza della libertà dell’uomo per estenderla all’infinito e sottometterle tutto.  “La religione respira là ove la libertà stessa è già diventata di nuovo natura...” [16].

Una religione così concepita non ha naturalmente nulla a che vedere con l’autentica religione, fondata sulla Verità Rivelata.  Anzi, i concetti stessi di rivelazione e di sovrannaturale le sono estranei e li sente come ostili.  Il racconto biblico di Adamo ed Eva altro non è che una “saga sacra” [17]. I dogmi sono solo “astratte espressioni di intuizioni religiose” oppure “libere riflessioni sulle necessità originarie del sentimento religioso, risultanti dalla comparazione del punto di vista religioso con quello comune”.  Essi sono inutili, “come i miracoli, le ispirazioni, le rivelazioni, le percezioni sovrannaturali – si può essere estremamente religiosi senza esser disturbati da alcuno dei concetti di queste cose...” [18].
Nemmeno serve a qualcosa la Sacra Scrittura.  Essa è un che di morto, “un mausoleo della religione, un monumento nel quale abitava uno Spirito grande, che oggi non vi abita più [...]  Non è religioso chi crede in una Sacra Scrittura bensì chi non ne ha bisogno ed anzi sarebbe persino in grado di produrne una lui” [19]. 
È ovvio, a questo punto, che non c’è nemmeno bisogno di ipotizzare l’esistenza di un Dio creatore dell’universo [20].  Il grado, l’intensità della religiosità di ciascuno dipende esclusivamente dalla forza del suo “sentimento dell’Universo”, che è sentimento di appartenenza al Tutto (non dipende, annoto, dalla fede e dalla condotta di vita, fondate sull’osservanza intellettualmente consapevole di una Verità rivelata) [21].

La negazione del concetto stesso della tradizione

Alla luce di simili irrazionali prospettive il paradosso dell’interprete che può e deve comprendere l’opera meglio del suo autore, e quindi l’autore meglio di quanto egli stesso si comprenda, svela (secondo Gadamer) il suo significato profondo, distruttivo di ogni tradizione.
Distruttivo per il semplice motivo che esso “suppone una netta superiorità dell’interprete sul suo oggetto”, facendo dell’interpretazione “un metodo generale indipendente da ogni contenuto”, e quindi un’ermeneutica che si applica indifferentemente ai più diversi testi, dalla Bibbia alla poesia all’opera d’arte, “lasciando indeterminato il problema della verità del loro contenuto” [22].
Il principio che l’interprete possa cogliere il senso dell’opera meglio del suo autore non è per la verità un’invenzione di Schleiermacher, anche se appare essere la sua proposizione più nota.  Se vogliamo, sottolinea Gadamer, lo possiamo ritrovare già in Kant e in Fichte, in armonia con il loro razionalismo, che li spinge a “voler arrivare, unicamente mediante il pensiero e lo sviluppo delle conseguenze implicite nei concetti di un autore, a posizioni che corrispondono alla vera intenzione dell’autore stesso, e che egli stesso non avrebbe potuto non condividere se avesse saputo pensare in maniera  sufficientemente chiara e precisa” [23].  Siffatto canone interpretativo sembra in realtà “antico quanto la critica scientifica stessa” e di fatto compare quasi sempre nelle polemiche filologiche [24].
Ma non è in questo modo che il romantico Schleiermacher lo intende. 
“La formula di Schleiermacher non tiene più conto dell’oggetto stesso di cui il discorso parla, ma vede il testo in modo indipendente dal suo contenuto di conoscenza, come una produzione assolutamente libera”. 
Una produzione nella quale, oltre alla libertà espressiva del linguaggio, si manifesta il Lebensmoment, l’esperienza vitale dell’autore (quell’esperienza che poi Dilthey definirà, in modo più articolato, come Erlebnis, esperienza vissuta) [25]. 
Poiché l’interprete può cogliere quest’esperienza meglio dell’autore stesso, ciò significa conferire all’interprete non solo una posizione di superiorità nei confronti del discorso o dell’opera ma anche una libertà sostanzialmente illimitata.  L’interprete non è più vincolato alla regola fondamentale della concordanza dell’intelletto con la cosa al fine di stabilire il significato esatto di ciò che analizza, innanzitutto in relazione alle intenzioni manifeste dell’autore.  Lo si ritiene, invece, libero di affidarsi al proprio sentimento, che gli consentirà di cogliere intuitivamente il significato dell’opera, in quanto espressione del rapporto circolare (all’infinito) fra il Tutto e le parti.
Ma in tal modo, osservo, l’interpretare perde ogni punto di riferimento oggettivo.  L’unico vero punto di riferimento è costituito dall’individualità dell’interprete stesso, il quale comprende il proprio oggetto esclusivamente alla luce della propria intuizione, con la quale egli crede di illuminare il rapporto circolare esistente fra le parti e il tutto.  La comprensione si fonda in definitiva sulla coscienza di sé del soggetto-interprete e tende a diventare autocomprensione poiché, nel comprendere l’altro (l’autore) come momento del Tutto, l’individualità dell’interprete emerge consapevolmente a  sua volta come momento del Tutto e quindi si comprende alla luce di questa esperienza.

È chiaro che l’applicazione di una simile ermeneutica, se può illuminare aspetti di contorno, riferibili alla personalità dell’autore e alla situazione storica, comporta conseguenze devastanti per qualsiasi testo, lasciato alla discrezione dei vaticini dell’ermeneuta. Devastanti, in particolare, per i Testi Sacri, rifiutando l’ermeneutica di Schleiermacher a priori il significato loro attribuito e mantenuto dalla tradizione (che per i Cattolici è stabilito e difeso dalla Chiesa nel depositum fidei) per opporvi la ricostruzione individuale dell’interprete, convinto di poter “indovinare” o “vaticinare” liberamente il senso delle Scritture.
Così si spiega, a mio avviso, l’atteggiamento da “vati” assunto da molti nouveaux théologiens, ai quali non era certamente ignota la teoria ermeneutica di Schleiermacher. 
Del resto, anche Heidegger si è rivestito dei panni di “vate” dell’Essere.
È ovvio che un’ermeneutica del genere di quella elaborata da Schleiermacher rappresenta la negazione di ogni tradizione interpretativa.  Se con tradizione intendiamo qui un significato riconosciuto e consolidatosi nel tempo, come significato che corrisponde alla natura della cosa che in esso si esprime, siffatta tradizione non può avere alcun valore dal punto di vista di Schleiermacher.  Quel significato scompare di fronte al libero gioco dell’intuizione vaticinatoria dell’interprete, intuizione che nessuna opinione  consolidata può evidentemente pretendere di controllare, anche parzialmente.  Ma ciò significa privare l’interpretazione del suo necessario rigore e consegnarla all’anarchia delle intuizioni  dell’interprete.

Soggettivismo integrale, da Schleiermacher a Heidegger

Soggettivismo integrale, dunque, l’ermeneutica di Schleiermacher, nella quale appare una “metafisica panteistica dell’individualità”, tipica del resto del Romanticismo [26]. 
Compare qui il concetto del comprendere come possibilità libera ed infinita di interpretazioni ad opera dell’individualità; un concetto del comprendere non vincolato alla natura della cosa che si vuole comprendere e pertanto sciolto dal concetto della verità come concordanza dell’intelletto con la cosa (con l’oggetto della comprensione).  Insomma, appare già in Schleiermacher quel concetto soggettivo di ermeneutica e della verità che troverà la sua consacrazione finale in Heidegger, attraverso la mediazione della scuola storica tedesca e soprattutto di Dilthey (m. nel 1911), il quale ha voluto applicare l’ermeneutica alla comprensione della storia universale, cercando di costruire una “critica della ragione storica” sulla base appunto dell’ermeneutica [27].
Si è detto prima che Heidegger reinterpreta in modo caratteristico e definitivo, per quanto riguarda lo sviluppo dell’ermeneutica filosofica, il concetto del “circolo ermeneutico”.
Heidegger sostituisce al rapporto circolare della parte con il tutto (che contiene una petitio principii perché il tutto vi spiega la parte e la parte il tutto) il rapporto circolare fra precomprensione e comprensione.  Nel soggetto che comprende ci sarebbe sempre una pre-comprensione in azione, costituita da una complessa struttura preliminare del comprendere. Essa ci impedirebbe di conoscere l’oggetto in modo neutrale, dando vita, invece, ad un inevitabile circolo ermeneutico. 
Secondo Heidegger, l’asserzione mediante la quale esplichiamo o interpretiamo qualcosa, anche un testo, non può più esser presa in considerazione (alla maniera di Aristotele) come giudizio del quale dobbiamo accertare la verità intrinseca.  E perché?  Perché in quello che chiamiamo “giudizio” opererebbe una struttura preliminare composta dal “proposito” e dall’”orientamento” o “previsione”, i quali costituiscono una sorta di “pre-concezione” (Vorgriff), come se si sapesse già che cosa si vuole trovare, onde il comprendere (in generale) non sarebbe mai un afferrare senza presupposti qualcosa di già dato [28].
Questa struttura preliminare anziché essere dissolta da una presa di coscienza critica da parte dell’interprete, deve invece esser consapevolmente utilizzata nel comprendere stesso.  In tal modo
“l’impianto stesso dell’analisi heideggeriana della comprensione è determinato sin da principio dalla prestrutturazione [Vorstruktur] attribuita a un comprendere che sempre preinstaura se stesso
Ma la necessità di questa pre-posizione non è una premessa del comprendere che vada poi eliminata nel suo svolgimento [questo è il punto], ma resta insita in esso e lo orienta.  Ogni esplicazione deve aver in qualche modo già inteso preliminarmente quel che va esplicato, e tenersi in questa comprensione preliminare.  La [vera] dimostrazione scientifica non può presupporre quel che deve dimostrare:  la “prestrutturazione” significa quindi che il comprendere, contro ogni istanza scientifica, si muoverà in un circolo, e precisamente, secondo le regole della logica scientifica, in quel circulus vitiosus che si dovrebbe evitare [...]  Ma per Heidegger, ciò che conta, non è uscire dal circolo del comprendere ma precisamente entrarvi, e nel modo giusto, cioè “garantirsi” l’oggetto scientifico del comprendere non lasciandosi precostituire il proprio preconcepimento da ciò che l’anonimità del “si” [risultante dal predominio impersonale delle idee ed opinioni dominanti] comunemente presuppone senza saperlo, ma facendo proprie con un atto esplicito le presupposizioni del comprendere e rendendole, così, trasparenti.  Il circolo del comprendere, così garantito, non è poi la mera circolarità in cui si muoverebbe un particolare tipo di conoscenza, ma esprime la stessa prestrutturazione esistenziale del [nostro] essere” [29].

La menzionata trasparenza, non ci fa dunque superare la “precomprensione” per giungere ad una conoscenza veramente obiettiva.  Il fatto è che la questione non esiste, dal punto di vista di Heidegger, perché nella nostra “pre-concezione” o “pre-strutturazione” (la si chiami come si vuole) è secondo lui sempre all’opera la nostra libertà, intesa come “possibilità di essere”  (cioè di “progettarsi”) non sottoposta in realtà ad alcun effettivo limite (allo stesso modo dell’intuizione e del sentimento vagheggiati da Schleiermacher).  Il comprendere, ossia la possibilità di conoscere dell’uomo in generale, resta quindi fondato solamente sul soggetto e per ciò stesso ne dimostrerebbe la libertà.
Il comprendere diviene così la comprensione di sé, l’autocomprensione del soggetto, che si progetta secondo possibilità ritenute infinite.  Ma in tal modo si preclude del tutto al soggetto la possibilità di giungere all’oggetto, di poterlo effettivamente comprendere.  A tal punto, che ogni conoscenza si riduce di fatto alla “precomprensione”, altrui e propria, in definitiva alla ricerca del modo nel quale ognuno comprende se stesso. 
Questa maniera distorta di concepire la conoscenza è penetrata, come è noto, anche nella teologia cattolica.  I Vorgriffe  di Karl Rahner s.j. derivano infatti dai Vorgriffe, dalle  “pre-concezioni” di Heidegger.  


NOTE

0 - Nei numeri 16 e 18 della scorsa annata [2008], sì sì no no ha pubblicato in due puntate un articolo dal titolo Ermeneutica vuol dire “rottura”, a firma B.B.   Data l’attualità e l’importanza dell’argomento, ci sembra opportuno pubblicare a breve intervallo di tempo la relazione, che si sofferma sull’origine del concetto di “ermeneutica” nella filosofia moderna, inviata dal prof. Paolo Pasqualucci all’VIII Convegno teologico di sì sì no no, recentemente tenutosi a Parigi, nei giorni 2-4 gennaio del corrente anno 2009.
1 - Sul punto, vedi:  Cornelio Fabro, voce Modernismo dell’Enciclopedia Cattolica, vol. VIII, coll. 1188-1196; col. 1191-1192.
2 - Friedrich Schleiermacher, Hermeneutik, in Werke, a cura di O. Braun e J. Bauer, con saggio introduttivo di A. Dorner,  2a ed. Leipzig 1927-28, rist. anast. Scientia, Aalen, 1981, vol. 4, pp. 135-206. L’Introduzione è alle pp. 137-154. Sulla posizione di Schleiermacher nello sviluppo dell’ermeneutica filosofica, vedi la sezione intitolata Preparazione storica nella Parte Seconda di H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. della seconda edizione (1965), a cura di G. Vattimo, Fabbri, Milano, 1972, pp. 211-311; pp. 223-238.  Hans Georg Gadamer, morto nel 2002 all’età di 102 anni, è stato l’ultimo autorevole esponente dell’ermeneutica filosofica, della quale ha cercato di superare il soggettivismo, concependola in modo dialogico.
3 - Herm., p. 140.  Questo e gli altri passi sono tratti dalla citata Introduzione dell’opera (cfr. pp. 137-140).
4 - Ciò si nota, ad esempio, nell’interpretazione puramente “psicologica” che Schleiermacher cerca di dare delle Lettere di S. Paolo (Herm., pp. 203-204).
5 - Herm., p. 146.
6 - Ivi.  Sulla comprensione (più che mai divinatoria) dei pensieri dell’autore, vedi, nella parte dedicata all’interpretazione psicologica, le pp. 184-204 dell’edizione della Hermeneutik  citata.
7 - Sul punto, Gadamer, op. cit., p. 213, 230, 312 ss.
8 - Herm., p. 147.  Vedi anche p. 166.
9 - Ivi, p. 149.
10 - Gadamer, op. cit., p. 229.
11 - Ivi, pp. 229-230.
12 - Ivi, p. 230.
13 - Ivi, p. 231.
14 - Reden über die Religion, 1799, in Werke, 4, cit., pp.  207-399; p. 240.
15 - Ivi, p. 242.  Per l’identificazione dell’umanità “eterna” al Tutto, mediatrice tra l’io e il Tutto, che nello stesso tempo diventa essa stessa “l’Universo”:  ivi, pp. 262-279.  Questi Discorsi sulla religione furono scritti quando si era ancora nel pieno dello sconvolgimento spirituale provocato dalla Rivoluzione Francese, la quale professava e diffondeva l’atea religione dell’Umanità.
16 - Per tutte queste citazioni, Reden, cit., pp. 240-241.
17 - Ivi, p. 263.
18 - Ivi, pp. 279-280.
19 - Ivi, p. 283.
20 - Ivi, p. 284-290.
21 - Ivi, pp. 250-251.
22 - Gadamer, op. cit., pp. 235-238.
23 - Ivi, p. 235.
24 - Ivi, p. 236.
25 - Ivi, pp. 237-238.
26 - Ivi, p. 239.
27 - Ivi,  p. 239, 260-287.
28 - Sul punto:  Karl Löwith, Interpretazione di ciò che rimane taciuto nel detto ‘Dio è morto’, in ID., Saggi su Heidegger, 1960, tr. it. di C. Cases e A. Mazzone, Einaudi, Torino, 1966, pp. 83-123; pp. 88-89. Corsivi miei.
29 - Löwith, op. cit., p. 90.  Vedi anche Gadamer, Verità e metodo, cit., pp. 312-319.  Inoltre, Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1963, 10 ed.,  par. 63 (pp. 314-316).






febbraio 2020
AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI