L’Italia si restringe

di Mario Bozzi Sentieri



Pubblicato il 18 febbraio 2020 sul sito
Ricognizioni


 






L’Italia si sta restringendo. A dircelo gli indicatori demografici annuali dell’Istat: per il quinto anno consecutivo il nostro Paese fa registrare un calo di popolazione di 116mila unità in meno rispetto al 2018.
L’istituto nazionale di statistica mette in evidenza anche un altro dato importante: per ogni 100 persone che muoiono in Italia ne nascono solo 67, dieci anni fa erano 96. Il tasso di ricambio naturale tra nascite e decessi è il più basso mai espresso dal paese da 102 anni.
Dato ancora più preoccupante è la spaccatura dell’Italia, con un Mezzogiorno, tradizionalmente prolifico,  dove si concentra il calo della popolazione, mentre a crescere è la popolazione del Nord, in modo particolare nelle provincie autonome di Trento e Bolzano, in Lombardia ed Emilia Romagna.

I numeri non danno scampo: secondo una costante universale, il valore di sostituzione, ovvero il numero di figli necessari a garantire una bilancia demografica in pareggio, è  di 2,1. Se un Paese lo supera la popolazione ha tendenze espansive, se non lo raggiunge si va verso una contrazione demografica.
Le statistiche dell’Italia mostrano che il Paese è sceso sotto il tasso di sostituzione nel 1977, e dal 1984 è stabilmente sotto il valore di 1,5, un livello che non solo non evita il declino demografico, ma annuncia quasi certamente che la caduta sarà traumatica.

Questa la fotografia della realtà, oggettivamente disarmante anche per le conseguenze della crisi demografica, che avranno – sempre di più – un peso determinante sul sistema pensionistico (con la diminuzione della massa dei contribuenti e l’aumento dei beneficiari), sul sistema sanitario (sostenuto da una popolazione attiva ridotta), sulle dinamiche socio-economiche nel loro complesso (sempre più “frenate”) e sulle relazioni tra le diverse aree del mondo (con un’evidente sproporzione delle nascite tra il nord ed il sud del pianeta).

Sul  “che fare” le indicazioni appaiono decisamente poco aggressive. Scontati i richiami alle politiche sulla famiglia, alla precarietà lavorativa ed esistenziale, ai servizi insufficienti, al welfare inaccessibile e al disatteso, da decenni, “Quoziente Famiglia”, cioè il calcolo delle tasse basato sul numero dei figli. Oltre non si va. Soprattutto per “aggredire” le cause “strutturali” del crollo delle nascite. Il tema infatti, ancor più che relativo alle politiche sociali, è antropologico e culturale.

Il primo dato è la “percezione” della maternità tra le giovani generazioni, figlie del relativismo etico e dell’edonismo, nel nome del “child-free”, che ormai ha contaminato ampi strati della popolazione, facendosi cultura diffusa, luogo comune condiviso.
Secondo una ricerca dell’Eurispes, pubblicata nel 2019 (“Soprattutto io. Coppie millenians tra stereotipi, nuovi valori e libertà”), per sette italiani su dieci i figli non sono una condicio sine qua non per essere felici nella vita. 

Oltre i  numeri, oggettivamente allarmanti,  ancora più allarmante è che nessuno sembra volersi fare carico del  problema. Pochi ne parlano. I mass media ne fanno appena cenno. Nessun talk show dedica  attenzione alla crisi demografica. Quando va bene si possono ascoltare le solite, spesso stanche  e ripetitive critiche sulla mancanza di politiche per la famiglia e sulla crisi economica: troppo poco per trasformare in un caso il crollo delle nascite, creando il necessario allarme nazionale sulle ricadute socio-economiche di tale crollo.

L’invecchiamento italiano (con un’età media che si aggira intorno ai 44 anni) condiziona infatti le stesse dinamiche sociali, come confermano gli ultimi cinquant’anni della nostra storia.

Pensiamo all’Italia degli Sessanta del ‘900 (dove, non a caso il tasso di natalità era doppio rispetto a quello attuale) espressione di un’energia sociale ed economica, in cui la spinta demografica era un fattore essenziale, una sorta di “investimento” sul futuro che, oggi, purtroppo non si riesce neppure ad immaginare.

A vincere è l’interesse particolare, il soggettivismo, l’egoismo individuale. A crescere sono le diseguaglianze, con una caduta della coesione sociale e delle strutture intermedie di rappresentanza che l’hanno nel tempo garantita. Siamo insomma al “letargo esistenziale collettivo”.
In discussione c’è l’esistenza stessa del nostro Paese: linea piatta per l’Italia senza figli e senza domani. Decisamente una brutta prospettiva. A meno che non si cominci a invertire la tendenza, favorendo la crescita di una nuova cultura dell’accoglienza alla vita e delle politiche in grado di favorirla. 

Di questo bisogna trovare il coraggio di discutere, prendendo consapevolezza delle conseguenze della crisi demografica ed invitando le forze politiche e le istituzioni a una forte assunzione di responsabilità.
Consapevolezza e responsabilità: di questo, alla prova dei fatti, c’è un gran bisogno, ancora prima che degli asili, degli assegni familiari e degli incentivi per le famiglie. Che pure servono, ma non bastano.



 



febbraio 2020
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