Dall’inversione dei valori ai nuovi preti

di Giovanni Servodio

Proporzionata o meno che sia la reazione, siamo di fronte ad una situazione di emergenza e i nostri sguardi si volgono di qua e di là alla ricerca di un punto di riferimento affidabile ed efficace. Abbiamo provato, ma non riusciamo a trovare qualcosa, o qualcuno, che ci spinga a fermarci: è tutto fluttuante; non un punto fermo, non una sensazione di stabilità; una certezza però: ubbidire a dei consigli che ci vengono imposti come ordini perentori, pena multe salate e perfino il carcere.
Se ci chiediamo: cosa sta succedendo? L’unica risposta che ci viene data è che c’è in giro una malattia che cerca di aggredirci, quindi avremmo il dovere di isolarci e di isolarla, allo scopo di sconfiggerla e di uscirne indetti. E tuttavia, nel giro di poche settimane siamo stati indotti quasi a cambiare la conduzione della nostra vita ordinaria; come ne usciremo, ammesso che scamperemo alla malattia? Illudersi che tutto tornerà come prima, come se niente fosse accaduto, è pura ingenuità: già “prima” si sentiva aleggiare un’aria malsana, figuriamoci dopo, con sulle spalle la paura e i controlli perfino delle persone appiedate che passano da un portone all’altro. 

La prima cosa che è cambiata è il senso di sicurezza e di responsabilità: non siamo noi a decidere, ma le “autorità”. Quasi inavvertitamente ci siamo ritrovati in stato di tutela, e questo ha tutta l’aria di trasformarsi in qualcosa di stabile. L’epidemia farà il suo sfogo, finirà, ma resterà il nuovo rapporto fra pubblico e privato, col secondo sottoposto non poco al primo. Una volta si chiamava “bene comune”, da oggi in poi si chiamerà protezione forzata; una volta il bene comune era perseguito responsabilmente dai singoli sulla base di riconosciuti principi morali, da oggi verrà imposto per decreto emanato dopo aver consultato le commissioni scientifiche competenti, le quali sentenzieranno: la salute del corpo è il bene supremo.
E’ la seconda cosa che cambierà: la morale sostituita dalla scienza.
Il bello, o il brutto, è che “prima” esisteva un ente morale, seppure ultimamente indebolito al punto da poter essere soppiantato, da oggi esisterà una entità che prescinde da ogni morale, forte dell’esperimento fatto e del relativo adeguamento praticato da tutti noi.

Un’inversione dei valori? In realtà questa tendenza è in atto da tempo, ma da oggi ha assunto una veste di ufficialità. Quello che per i nostri padri era prioritario: la famiglia, la comunità, la religione, oggi appare secondario. La famiglia è quasi distrutta ed ha lasciato il posto all’individuo in preda ai propri istinti; la comunità ha perso il senso di appartenenza e dell’identità ed ha subíto una trasposizione nell’amalgama globalizzato e globalizzante; la religione è mutata in religiosità permeata da istanze naturaliste e circoscritte alla mera sopravvivenza.
Nel complesso non si vive più accompagnati da richiami interni ed esterni che trascendono il mero vivere quotidiano: quello che conta è vivere o, per meglio dire, sopravvivere. Una civiltà che si riconosceva per la sua peculiarità culturale e religiosa è scaduta in qualcosa che è sempre alla ricerca di non si sa bene che, e trova i suoi ideali in un quotidiano personalista ed egoistico.
L’esempio dell’ossequio dei preti alle ingiunzioni governative di chiudere le chiese per evitare il contagio della malattia è la riprova di tutto questo. E questo esempio basta a farci capire che si intravedere in un orizzonte non tanto lontano una nuova civiltà: una civiltà dove si farà di tutto per sostituire la vera Chiesa di Cristo con la falsa chiesa dell’Anticristo; una civiltà che dal punto di vista laico avrà i connotati del Nuovo Ordine Mondiale, i cui prodomi sono proprio le attuali ingiunzioni governative.



 

Per quanto sembri che l’uomo moderno abbia una qualche personale sicurezza, da un punto di vista individuale resta il fatto che ci si aspetta che nel buio brilli una luce per potersi orientare. Una volta questa luce era la chiesa del villaggio, aperta con la candela accesa sull’altare: si poteva pregare entrando o stando sulla porta e da lì si poteva anche scorgere un uomo vestito con un abito particolare: il prete; disposto a pregare lui per primo, a far pregare gli altri o ad amministrare la Confessione o la Comunione; in ogni caso si poteva stare certi che anche quel giorno il prete avrebbe celebrato la Santa Messa, cioè avrebbe richiesto a Dio di porgere l’orecchio alle preghiere degli uomini disorientati e intimoriti.

Questo ieri. E oggi? Oggi, che c’è un diffuso senso di timore e di insicurezza, è arrivata l’ingiunzione dell’autorità civile di chiudere le chiese per evitare assembramenti e possibili contagi. I preti non sono rimasti disorientati, ma si sono chiesti come fare per seguire l’ingiunzione civile; dalle diverse dichiarazioni appare chiaro che non abbiano risposto per prima all’ingiunzione di Dio di non far mancare la preghiera.
Peraltro, la preghiera che si rivolge a Dio è innanzi tutto quella che lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo rivolge al Padre, e che solo secondariamente, per delega, viene recitata dal prete in vece Sua, per la salute terrena e celeste dei vivi e la consolazione dei morti. Questo significa che il prete non può decidere da sé di pregare o meno, ma deve farlo per suo dovere di stato e per tenere accesa la luce che brilla sulla via che in vario modo conduce a Dio; e deve farlo comunque, che ci sia o meno la presenza di fedeli, siano essi intorno all’altare o sparsi fuori dalla chiesa. E i fedeli, da parte loro, devono essere certi che il prete pregherà e celebrerà la Santa Messa tutti i giorni, per loro e per tutti, per i vivi e per i morti.
Se venisse meno tutto questo, verrebbe meno il collegamento con Dio, la “religio”, e cioè verrebbe meno la religione il cui centro è il culto: la Santa Messa, appunto.

Grazie a Dio, in forza del fatto che una sola Santa Messa raccoglie virtualmente tutti i fedeli e raccoglie tutta la Chiesa militante accomunandola alla Chiesa purgante e alla Chiesa trionfante, grazie a Dio i fedeli possono stare certi che il rapporto quotidiano con Dio non viene meno. Malattia o no, pestilenza o no, carestia o no, guerra o no, il collegamento con Dio è assicurato dal prete che rimane al suo posto, sull’altare, a compiere il suo dovere davanti a Dio e in nome di tutti gli uomini.
Ora, per fare questo è necessario che il prete abbia la piena consapevolezza della sua funzione, al di là della sua componente umana, abbia la piena consapevolezza del suo essere un sacer-dote, un portatore del sacro. Ma sembra proprio che oggi il prete moderno questa consapevolezza non ce l’abbia e si consideri piuttosto un funzionario umano che deve svolgere un compito terreno. Un dramma!
Un dramma che vede coinvolti e accomunati preti, vescovi e papi, per il semplice e devastante motivo che da cinquant’anni costoro si sono convinti che non si debba rendere primariamente culto a Dio, ma all’uomo, e ultimamente all’uomo e alla natura… dalle stelle alle stalle!

In questi ultimi cinquant’anni, grazie al lavoro svolto da tutti i vescovi nel Vaticano II, si è passati dalla religione di Dio alla religione dell’uomo; dagli occhi rivolti al cielo ai occhi rivolti alla terra; dalla mente e dal cuore rivolti alla vita del mondo che verrà, alla mente e al cuore rivolti alla vita del mondo di qua. Come se questa vita dovesse essere indefinita, incalcolabilmente continua, piuttosto che finita e palesemente breve e caduca.
In questi ultimi cinquant’anni, grazie alla predicazione dei papi che sono seguiti al Vaticano II, si è passati dal chiedersi dove andiamo all’essere certi di dove stiamo; e si è creduto che stiamo in terra per rimanerci, godendocela con un supposto crescendo della durata di vita che sembra voglia preludere ad una durata indefinita col superamento perfino della morte… basta dare tempo al tempo… e alla scienza!

E invece la realtà è che la vita è tale perché è preceduta dalla non vita e seguita dalla morte: si nasce solo per morire, e in questa vita occorre sempre pensare a prepararsi per il dopo morte, poiché a fronte della brevità della permanenza su questa terra sta la indefinita durata della più vera e reale esistenza fuori da questa terra: in un mondo di eterna luce. Guai a trascurare questa prospettiva, perché si corre il rischio di ritrovarsi dopo la morte in un culo di sacco dove l’unica luce è quella infuocata dell’uomo prigioniero di se stesso, divenuto infelice compagnia degli angeli decaduti che prima di lui hanno preferito l’abisso alla vetta, il pesante al leggero, il terreno al celeste: è il soggiorno infero, cioè sotterraneo, buio, privo di luce, di chi avendo vissuto in termini di autosufficienza, si ritrova rinchiuso nella prigione che si è preparata, convinto che fosse esaltante e che invece si ritrova a sperimentare con dolore che l’unica cosa che valeva la pena perseguire, la luce, rimarrà costantemente lontano da lui, e vicino a lui rimarrà solo l’amarezza e il rimpianto.

«Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. […] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. […] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (Mt. XXV, 34-46).




marzo 2020
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