Ben altre Pasque

di Marcello Veneziani


Pubblicato sul quotidiano La Verità del 12 aprile 2020
e ripreso dal sito dell'Autore





Felici come una Pasqua, si diceva una volta. Perché in effetti Pasqua è un’esplosione di vita naturale e soprannaturale, spirituale e alimentare. Esplode la vita da un sepolcro, con la Resurrezione di Cristo, ma esplode la vita anche da un inverno, i vestiti si fanno leggeri, come i modi di vivere; la natura fiorisce e il mare annuisce, mentre nei paesi riesplode lo struscio, da quello sacro, perché le processioni pasquali inaugurano la stagione delle feste di strada, a quello profano perché il passeggio torna al centro della vita di provincia e non solo. E a casa trionfano dolci e pietanze pasquali. È un quadro pasquale fuori dal tempo.
La Pasqua presente è la più triste e perversa che io ricordi. Perché la Pasqua è la scoperta solenne dell’aria aperta, del mondo in fiore, umani inclusi.

Non vi parlerò, almeno oggi, della via crucis che stiamo vivendo e di cui vediamo e intravediamo sei tappe: l’emergenza sanitaria, la prigionia domestica di massa, la terribile crisi sociale ed economica, poi l’aiuto peloso dell’Europa, il malaffare in agguato, e sopra tutti la gestione di tutto questo nelle mani del peggior governo d’incapaci vanitosi (uno qualunque della prima o della seconda repubblica sarebbe stato meglio, e ce n’erano di scadenti). Vi parlerò invece di ben altre Pasque, che ci consolano di questa.

Risale dentro di noi la nostalgia della Pasqua d’infanzia, quasi un desiderio di tornare alla nostra originaria Isola di Pasqua. Che ne è della Pasqua antica di cui abbiamo gloriosi ricordi? Che ne è della civettuola Pasquetta? Nella preistoria della mia infanzia la Pasqua era un’atmosfera più che una ricorrenza, era un clima, un intreccio di riti, di odori e comunità al passeggio. Era bella l’aria nei giorni di Pasqua, si sentiva il suo sapore nel vento, nelle campane e negli occhi della gente. Non ci crederete, ma c’erano pure gli sguardi pasquali. Facce miti da agnello e da colomba, facce di primavera rivestite di giulebbe, facce sante da precetto pasquale. Altro che gli sguardi sospetti, timorosi del contagio, di questi giorni, la diffidenza verso il mondo, la promozione della misantropia di stato e dell’asocialità di massa.

Nelle Chiese tra i ragazzi in fila per il precetto pasquale si cercava di far peccare l’amico già confessato, strappandogli una bestemmia, un piccolo atto di violenza, una fornicazione. Così perdeva la purezza, non poteva farsi la comunione ed era costretto a rifare la fila per confessarsi di nuovo.

La famiglia a Pasqua usciva in formazione completa e provava la sua unità su strada: anche la nonna, dopo il lungo letargo invernale, lasciava gli arresti domiciliari e tornava a passeggio; pure la zia, bloccata d’inverno dai geloni ai piedi, scendeva in piazza; i nipoti esibivano a Pasqua il costume nuovo (l’abito). Il debutto avveniva il Giovedì Santo ai Sepolcri. Il pellegrinaggio per i Sepolcri era un itinerario mistico e fieristico, a metà strada tra la devozione e l’ammuina. Un intero paese ti scorreva davanti, lo incrociavi nei Sepolcri alla Chiesa grande (la cattedrale) e poi alle altre chiese. Uno struscio sacro dove si strofinavano due flussi di gente, entranti e uscenti dalla chiesa. Sacro e profano si mescolavano, fede e pettegolezzo, spiritualità e spiritosaggine dei ragazzi, per far ridere le ragazze. Nonostante fosse la visita al Sepolcro di Cristo, si respirava una vitale euforia, forse per il presagio della resurrezione, forse per il clima primaverile esploso da poco.

A Pasqua con quell’aria sorniona di primavera, i corpi si lasciavano rivedere dal sole e dalla gente, liberati finalmente dalle palandrane invernali. Il risveglio della campagna si avvertiva fin dentro le narici della città. Il bello della Pasqua era che a differenza delle altre domeniche non annunciava la mestizia leopardiana del lunedì (“diman tristezza e noia recheran l’ore”). Perché alla domenica di Pasqua seguiva il Lunedì dell’Angelo. La Santa Pasqua si faceva puttanella con la Pasquetta. La vezzosa Pasquetta, in campagna o al mare, tra i cibi avanzati della Pasqua, più i tegami e le tielle da asporto, la Pasquetta pomiciona, tra camicette gonfie, corpi scoperti e prime voluttà come acconti d’estate. Il sole che torna sulla pelle, il contatto con la terra, per i più arditi il primo bagno a mare, tra grida disumane per l’eccitazione goliardico-vascolare. Alla Pasquetta c’era una regressione infantile: si giocava al pallone, alla bandiera, a mago o libero.

Vorrei dire infine qualcosa a Michele Serra che giorni fa ha attaccato lo scemo di destra che tiene alla messa pasquale. Finché difende la misura di profilassi, lo capisco. Ma lui ha paragonato, con volgare scemenza, la riapertura delle chiese “alle riaperture delle bocciofile e dei tornei di scopa d’assi”, confondendo religione con ricreazione. E dopo aver sproloquiato sul fascismo che non c’entra un tubo con le messe pasquali, si è chiesto: “Perché mai gli scemi di destra pretendono che la fede debba avere la forma di un’adunata?” Caro Michele, forse non lo sai, ma la religione cristiana si organizza da duemila anni su comunità di credenti che si chiamano chiese (da ekklesia, comunità, assemblea, adunata) e vanno a messa; se la fede ne facesse a meno sarebbe faidate, come il bricolage. Sarebbe superflua la religione come le sue istituzioni e i sacerdoti, basterebbe chiudersi in bagno come dice il teologo Fiorello per pregare. Ora lasciami dire che la tua è una proposta da idiota, nel senso etimologico della parola, perché vuoi ridurre la fede e la religione a un fatto privato (idiotes). E tu idiota non sei, perciò ripensaci, torna in te stesso, non seguire l’astiosa demenza che colpisce a sinistra persino più che a destra, e più i vip che la gente. Ma siamo a Pasqua e non voglio nemici, per giunta persone che ho stimato; perciò scambiamoci il segno proibito della pace.






aprile 2020
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