Domenica di Pasqua:

una lettera redatta da un prete.



di Giacomo Devoto





Se si cerca su Internet si trova facilmente una missiva indirizzata ai cosiddetti “movimenti popolari”, che non sono certo dei gruppi molto popolari, sia perché non esistono in tutti i paesi, sia perché laddove esistono non sempre riscuotono il consenso del “popolo”.

Tale lettera è scritta con un linguaggio che fa pensare che il suo redattore sia un componente di uno dei tanti movimenti che professano di avere a cuore il bene dei diseredati. Lo si capisce dal lessico e dalla ideologia che esso appalesa.
Le cose dette hanno certo una base reale, ma esprimono tale realtà con l’uso esclusivo delle tinte fosche, tipico di chi è abituato a considerare solo il lato tenebroso delle cose esistenti al mondo. In effetti, in questo nostro mondo moderno non si può negare che sono più i tanti aspetti oscuri a prevalere sui pochi aspetti luminosi; verrebbe da dire che oggettivamente questi ultimi sono così pochi e così esigui che si fa fatica a individuarli e a parlarne. Tuttavia, questo non autorizza l’osservatore a conferire una qualche luce a ciò che non ne ha: come per esempio alla miseria o all’indigenza. Eppure, in una certa ottica ideologica capita spesso che si faccia perfino l’apologia della miseria, facendola assurgere a valore esistenziale, pur accompagnandola da una sorta di condanna che di solito non va oltre se stessa.

Si legge infatti in questa lettera: «So che siete stati esclusi dai benefici della globalizzazione. Non godete di quei piaceri superficiali che anestetizzano tante coscienze, eppure siete costretti a subirne i danni. I mali che affliggono tutti vi colpiscono doppiamente».
Come si vede si denunciano i mali e i danni, ma al tempo stesso ci si rammarica per il fatto che gli stessi danneggiati non godrebbero dei benefici della globalizzazione e in particolare dei “piaceri superficiali”. Dal che si riesce a dedurre che gli interessati sarebbero stati beneficiati se avessero potuto godere dei “piaceri superficiali”, e cioè se avessero potuto rimanere con la coscienza anestetizzata, condizione che inspiegabilmente sembrerebbe poter essere considerata ad un tempo sia deplorevole sia auspicabile, al punto da essere rimpianta.
Forse è solo il linguaggio ad essere confuso, ma di certo esso lascia trasparire una concezione che intravede solo aleatori godimenti a compenso delle ventilate condizioni precarie: danneggiati ed esclusi, ma gabbati e anestetizzati.
Possibile che degli interessati non si consideri alcuna etica? Possibile che non si consideri alcuna morale?

C’è da pensare che gli orizzonti dell’etica e della morale non facciano parte della visione di chi ha redatto la lettera, né della visione degli stessi interessati a cui egli si rivolge.
L’unico richiamo che si trova nella lettera è il seguente: «Conoscete infatti le
crisi e le privazioni... che con pudore, dignità, impegno, sforzo e solidarietà riuscite a trasformare in promessa di vita per le vostre famiglie e comunità»
E’ questo l’unico passo in cui si trovi menzionata la “dignità”, che però non informerebbe la condizione di vita degli interessati, ma sarebbe solo uno strumento capace di trasformare le loro  “privazioni” in “promesse di vita”, tale che nel loro orizzonte si intravede solo una sorta di benessere materiale che viene eufemisticamente denominato “promesse di vita”.
Non è difficile cogliere qui quella specie di esaltazione della indigenza che renderebbe gli interessati “dignitosi” solo in forza della loro condizione. Nella concezione del redattore della lettera, lo stato di miseria sarebbe di per sé un valore.
E questo viene sottolineato quando si esprime il seguente concetto: «La nostra civiltà, … ha bisogno di un cambiamento, di un ripensamento, di una rigenerazione … voi disponete di una voce autorevole per testimoniare che questo è possibile».
Di quale cambiamento si tratterebbe? Di «una conversione umana ed ecologica che ponga fine all’idolatria del denaro e metta al centro la dignità e la vita». Quindi di un cambiamento che sostituisca all’idolatria del denaro una non meglio precisata “vita” fondata sull’“umano” e sulla “ecologia”.
Si vede chiaramente che il redattore della lettera vive come affossato in una concezione materiale ed utilitaristica della vita, nonostante ritenga deplorevole l’“idolatria del denaro”. Evidentemente egli non si rende conto che “idolatria del denaro” e umanitarismo ecologico siano cose sostanzialmente equivalenti; solo che lui ritiene di potere attribuire un valore positivo al secondo e un valore negativo al primo; e questo, non perché l’“idolatria del denaro“ sarebbe un disvalore di per sé, ma perché corrisponderebbe a “gli smisurati profitti per pochi”. L’istanza quindi non è quella del ripudio del denaro, ma quella della partecipazione di tutti ai “profitti”.
E’ la vecchia istanza di stampo marxista che da tempo ha predicato la ricchezza per tutti, ma che di fatto ha potuto realizzare, giocoforza, solo la povertà per tutti, visto che i “profitti” non possono essere tali da rendere tutti ricchi.

Cosa si coglie in questo groviglio di considerazioni che si rincorrono nel pantano della dimensione materiale della vita umana moderna? Si coglie la plateale assenza di istanze superiori, di aneliti sopraumani, di certezze celesti, per così dire, in grado di abbracciare ed elevare e perfino trascendere i meri bisogni terrestri o terreni; per dirla in altre parole: una concezione del mondo che parta dal cielo per giungere alla terra e che conseguentemente, a partire dalla terra, miri a ritornare in cielo; una concezione del mondo che abbia la piena consapevolezza che l’esistenza è qualcosa di ben più grande della mera sopravvivenza.

L’unico passo che fa pensare che il redattore della lettera abbia una qualche infarinatura di quanto appena detto è il seguente: «Vorrei che sapeste che il nostro Padre celeste vi guarda, vi apprezza, vi riconosce e vi sostiene nella vostra scelta». Ma è chiaro che si tratta solo di una infarinatura, poiché si notano subito due cose: la prima è che questo redattore ritiene di poter assicurare ai suoi interlocutori che lui abbia una certa confidenza col “Padre celeste” degli interessati, al punto da poter loro assicurare il suo apprezzamento e il suo sostegno; la seconda è che lo stesso redattore attribuisce al “Padre celeste” degli interessati una primaria e quasi esclusiva preoccupazione terrena, nonostante sembra trattarsi di qualcuno che viva in cielo.

La cosa lascia perplessi e fa pensare che in realtà il redattore della lettera non abbia alcuna idea di quello che pensa il “Padre celeste” degli interessati, ma che si sia compiaciuto di far credere la cosa ai suoi interlocutori, quasi come per fare un bel gesto, una bella figura; per assicurare loro, in qualche modo, che quello che stanno facendo e come lo stanno facendo è cosa buona e giusta.

Ed è in questa ottica un po’ strabica che il redattore della lettera esprime un auspicio che è come un manifesto programmatico sempre di stile marxista, sia nell’enunciazione che nella auspicata realizzazione: «Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti».
Ci scusiamo con i lettori, ma dovevamo riportare la frase per intero, anche se siamo coscienti che non esiste alcuno “slogan” “cristiano” che affermi “nessun lavoratore senza diritti”; si tratta evidentemente di un’altra invenzione del redattore della lettera, che ha tutta l’aria di scambiare la realtà con la sua immaginazione, incurante perfino della intelligenza dei suoi interlocutori, pur di provare a fare bella figura con loro.

Giunti a questo punto, per rispondere alla inevitabile domanda che sarà sorta nella mente dei lettori, non ci esimiamo dal segnalare che il redattore della lettera è il signor Jorge Mario Bergoglio, di nazionalità argentina e attualmente residente nella Città del Vaticano, in quel di Roma, Italia; dove svolge il lavoro di dirigente degli affari interni e internazionali dell’attuale Organizzazione Non Governativa (ONG) che una volta era nota come Chiesa cattolica.

Il signor Bergoglio ha redatto la su menzionata lettera il 12 aprile 2020, corrispondente al giorno in cui una volta la Chiesa cattolica celebrava la Pasqua e parlava solo di Cristo, del Suo insegnamento, della Sua Passione e della Sua Resurrezione, da Lui realizzate soprannaturalmente per la Redenzione degli uomini e per la salvezza delle loro anime.
Il signor Bergoglio, approfittando del suo posto di lavoro, ha voluto rivolgere ai suoi amici, che dice di ricordare «in modo speciale» e «desidero starvi vicino», una lettera in cui assicura loro che li considera “poeti sociali” e che ciò che fanno «per i problemi più scottanti degli esclusi» «mi mette in questione ed è di grande insegnamento per me».
Confessando così che nel giorno di Pasqua egli non è interessato agli insegnamenti di Cristo, e di Cristo morto e risorto anche per lui, ma è tutto preso dagli insegnamenti dei suoi amici dei “movimenti popolari”.

Questo, tanto per essere onesti e per non far mancare ai nostri lettori tutte le informazioni necessarie per capire con chi hanno, e abbiamo, a che fare.

Il testo integrale della lettera è stato pubblicato anche su Avvenire:
https://www.avvenire.it/c/papa/Documents/Carta%20todos%20los%20idiomas%20-%20
Francisco%20a%20los%20MMPP%20-%20COVID.pdf




aprile 2020
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