Hanno dato a Cesare ciò che è di Dio

di Elia


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Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo (Mt 22, 21).

«Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio».
Il responso del Signore alla capziosa domanda sul tributo all’imperatore romano dimostra una sapienza assolutamente fuori del comune. Egli non solo sventò magistralmente l’insidia tesagli, ma pose i Suoi avversari di fronte alla propria ipocrisia. Essi si erano illusi di averlo incastrato con un quesito insolubile: affermare apertamente la liceità delle tasse pagate a uno Stato pagano lo esponeva ad un’accusa di tipo religioso, negarla lo rendeva perseguibile a livello politico.
La classe dirigente giudaica, in realtà, aveva raggiunto con Roma un equilibrio molto vantaggioso fin dai tempi delle guerre maccabaiche, a parte l’incidente della violazione del tempio da parte di Pompeo nel 63 a.C.
I farisei, per il timore di contaminarsi, scansavano gli stranieri come appestati, ma – come Gesù fece loro ammettere da sé stessi – usavano con disinvoltura il loro denaro. Pecunia non olet, sentenzia l’antico adagio… L’occupazione romana, di fatto, offriva agli ebrei ricchi ottime opportunità economiche, garantendo loro al tempo stesso una relativa autonomia: niente di meglio per poter prosperare sulle spalle di un popolo anche mentalmente sottomesso dalla loro artificiosa precettistica.

Anche la casta sacerdotale, che in maggioranza apparteneva invece al movimento sadduceo, era in ottimi rapporti con l’occupante, tanto che gli zeloti, durante l’occupazione di Gerusalemme del 67, la massacreranno a causa del suo collaborazionismo. Del resto proprio i sommi sacerdoti, pur di ottenere la pena capitale per l’Innocente che Pilato intendeva rimettere in libertà, erano caduti nel tranello del procuratore dichiarando piena fedeltà all’imperatore: «Non abbiamo re se non Cesare» (Gv 19, 15); in tal modo, essi avevano manifestato pubblicamente l’apostasia ormai consumata nei cuori e nella prassi.
Già l’antica cattività babilonese, se per alcuni era stata una salutare purificazione, per altri aveva costituito un ulteriore incentivo a quel sincretismo che nel culto d’Israele, fondamentalmente, non era mai cessato; è là che la falsa religione talmudica aveva accolto la visione gnostico-panteistica e le relative pratiche magiche mescolate ai riti prescritti dalla Torah. Oggi gli eredi spirituali (non certo discendenti) di quegli ipocriti votati a Lucifero hanno assunto il dominio del mondo tramite la gestione dell’alta finanza, cui tutto il resto è sottoposto.

Annoverare fra loro i nostri governanti e i vertici ecclesiastici significherebbe sovrastimarli. Essi sono semplici pedine in un gioco che li supera; possono mettersi impunemente il diritto sotto i piedi unicamente perché protetti da entità invisibili che li manovrano come burattini, non perché dotati di un potere reale.
A tale conclusione conducono inevitabilmente troppi indizi e troppe convergenze, fino all’ultimo scambio di colpi tra il governo e la conferenza episcopale sulla questione delle Messe con concorso di popolo.
Occorre anzitutto precisare che lo scontro non sta avvenendo tra soggetti legittimi, bensì tra il capo di un esecutivo non eletto e una struttura burocratica che, quasi fosse un sindacato di categoria, si arroga il diritto di rappresentare i vescovi italiani e a nome loro emette dichiarazioni non firmate. Già solo per questo siamo al di fuori di qualsiasi cornice di legalità, oltre che per il merito dei provvedimenti adottati, i quali, come da più parti osservato, sono in flagrante violazione sia della Costituzione che del Concordato.
Chiunque può poi arguire da sé che il tempismo del susseguirsi di botta e risposta a pochi minuti di distanza, la sera del 26 aprile, sa troppo di copione già scritto: è il solito, ipocrita gioco delle parti?

In ogni caso, rivendicare l’indipendenza della Chiesa e la libertà di culto è cosa che si sarebbe dovuta fare immediatamente, alle prime avvisaglie di ingerenza dello Stato in un ambito in cui la Chiesa ha competenza in modo esclusivo. La forza pubblica non può entrare nelle chiese se non chiamata, né tanto meno può disturbare o interrompere le funzioni religiose, reato punito dal Codice Penale con il carcere.
I vescovi, nel regolare esercizio delle loro prerogative, devono denunciare queste scandalose prevaricazioni e ordinare ai parroci di celebrare alla presenza del popolo, pur nell’osservanza delle misure precauzionali prescritte per altri luoghi pubblici.
I successori degli Apostoli hanno il pieno e nativo diritto di esercitare la giurisdizione sugli edifici destinati al culto e non devono chiederne il permesso a nessuno.
La proibizione del culto pubblico configura un sopruso senza precedenti al quale bisogna opporsi con decisioni concrete, non con comunicati privi di ogni valore istituzionale in quanto emessi da un fantomatico Ufficio per le Comunicazioni Sociali di una struttura giuridica che non ha alcuna facoltà di sostituirsi ai vescovi nel governo delle loro diocesi. Questa non è la Chiesa Cattolica, ma qualcosa di molto simile all’Associazione patriottica cinese.

Reagire dopo ben due mesi di incondizionata sudditanza, peraltro, significa offrire all’avversario l’opportunità di dare scacco matto: se alle parole non seguiranno i fatti, la Chiesa italiana dimostrerà di non contare più nulla e di essere alla mercé dei decreti statali; una volta creato il precedente, in futuro qualunque scusa sarà di nuovo sufficiente per sospendere il libero esercizio delle sue attività in modo arbitrario, per motivi irragionevoli.
Qui non si tratta di mendicare una concessione pietosa e nemmeno di rivendicare un diritto inviolabile, bensì di esercitare la giurisdizione ecclesiastica, sia pure nel rispetto dell’autorità civile in ciò che è di sua competenza, la salute e l’ordine pubblico.
Se però i vescovi, in considerazione delle conseguenze giudiziarie, non si sentono abbastanza forti per farlo, tocca alla Santa Sede intervenire a loro sostegno richiamando lo Stato italiano all’osservanza del Concordato, non a un ignoto funzionario della conferenza episcopale che si appella alla libertà di culto (cioè a un diritto individuale anziché a quelli della Chiesa) con l’assurda motivazione che la vita sacramentale serve a sostenere il servizio ai poveri… pensieri da impiegato di una O.N.G. che tradisce così la propria vera preoccupazione: ormai nelle parrocchie mancano i quattrini – ma non certo negli enti che si occupano di “accoglienza”: nella trattativa dell’8 marzo, il segretario generale della C.E.I. è miracolosamente riuscito a farli inserire nel decreto salva-imprese…

Ma cosa ci si può aspettare, in questo frangente storico, dalla Santa Sede? Cosa potrà ottenere per noi, da un governo filocinese, un Segretario di Stato filocinese, amico del Presidente del Consiglio, che l’anno scorso ha partecipato alla riunione del Gruppo Bilderberg?
Come può aiutarci un “papa” che, anziché guidare la Chiesa, si limita a fervorini mattutini in cui un giorno dice e l’altro disdice, sconfessando l’episcopato per puntellare la posizione del governo?
E i vescovi cosa possono fare, alle prese con il Leviatano di un potere pilotato da luciferine società segrete che, per mantenerci sottomessi con il terrore, ignora cure efficaci e sperimentate, facendo morire i malati con terapie sbagliate?
Dov’è finito il Vicario di Roma, dopo lo scontro con il suo superiore sull’apertura delle chiese? Prima in ospedale, e poi… desaparecido. Ecco in quale vicolo cieco ci ha condotto questa casta clericale senza fede e senza morale che predica il rispetto della legalità, anziché della legge divina; professa obbedienza allo Stato e a massoniche istituzioni internazionali, piuttosto che a Gesù Cristo Re; si fa megafono della propaganda mondialista, anziché tromba della verità eterna…
Invece di dare a Dio ciò che Gli spetta, ha dato a Cesare anche ciò che è di Dio. I farisei non cambiano mai, ancor meno in questa Chiesa che giudaizza da decenni, infiltrata com’è da emissari della sinagoga di Satana… altro che fumo!

«Ogni piantagione che non ha piantato il mio Padre celeste sarà sradicata. Lasciateli perdere: sono ciechi e guide di ciechi» (Mt 15, 13-14). La Chiesa non coincide con la farraginosa, infruttuosa e spaventosamente costosa macchina burocratica costruita con il pretesto del rinnovamento conciliare e utilizzata per coartare la libertà dei vescovi nell’esercizio della loro missione, conculcandone la sacra autorità di diritto divino e riducendoli a meri funzionari periferici del partito. Questa costruzione artificiosa è destinata ad essere demolita e già mostra i primi segni di cedimento.
Ora, a quanto pare, pensano che sia giunto il momento del lancio, più volte rimandato, della terza edizione del Messale italiano, con le sue modifiche ai testi e, forse, anche alla sostanza; ma non si rendono conto che han perso ogni credibilità? Quanti preti e fedeli sono ancora disposti a seguire gli odierni collaborazionisti, in questa situazione abnorme? I fatti recenti dimostrano inequivocabilmente che la C.E.I. è morta.
Dopo aver intonato il Te Deum, scrivete o telefonate al vostro vescovo per chiedergli di riappropriarsi della sua autorità per guidare il popolo santo dietro il Pastore eterno, se ancora ha la fede – nonché le doti virili per farsi rispettare: gratia supponit naturam.

Omnis plantatio, quam non plantavit Pater meus caelestis, eradicabitur. Sinite illos, caeci sunt et duces caecorum (Mt 15, 13-14).


https://lascuredielia.blogspot.com/p/nota-canonico-pastorale-il-governo.html

https://www.marcotosatti.com/2020/04/29/intervista-
a-vigano-conte-delirio-di-onnipotenza-indecoroso-e-illegale/

https://www.youtube.com/watch?v=H01-OY_V4c4






maggio 2020
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