La distanziata, futura umanità

di Roberto Pecchioli


Articolo pubblicato sul sito Accademia Nuova Italia







Il mestiere di vivere diventa ogni giorno più complicato. Ci vorrebbero la penna e la sensibilità di un Cesare Pavese per descrivere il mondo inumano in cui siamo precipitati.
Un percorso lungo, accidentato, con accelerazioni e frenate.
Natura non facit saltus, ma la cultura, la folle civilizzazione dell’homo sapiens il salto lo ha fatto, eccome. La corsa è più veloce, al tempo del virus: ora impera il “distanziamento sociale”, la pratica virtuosa di allontanarci dagli altri esseri umani.
Talvolta, ragionando sulle continue, infinite novità del progresso obbligatorio, pensiamo di essere apocalittici, di guardare alle cose attraverso lenti deformate, con un pessimismo infondato o pregiudiziale. In fin dei conti, l’uomo è un animale incompleto, ma straordinariamente capace di adattamento.

Ne ha viste di peggiori. Probabilmente è così, ma se mettiamo a confronto l’esperienza di una vita ormai lunga, non riusciamo a sottrarci all’impressione della decadenza, del degrado, di una involuzione ammantata di retorica tecnologica, ottimismo da Baci Perugina e, soprattutto, celata dietro una disumanizzazione ogni giorno più chiara, almeno ai nostri occhi.
Distanziamento sociale, dicevamo. E se fosse il sintagma politicamente corretto, eufemistico, per imporre nuove solitudini, prodromi di una post-umanità tecnicizzata, isolata, una foresta feroce in cui davvero l’uomo è lupo all’altro uomo, tanto più che nemmeno più lo conosce e riconosce?

Fin dalla sua comparsa sul pianeta Terra, l’uomo ha cercato di non essere solo.
Per Aristotele, è un animale sociale e politico, destinato alla relazione. Cesare Pavese, nel diario tormentoso Il Mestiere di vivere, scriveva: “tutto il problema della vita è dunque questo, come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri”.
Vecchiume: il XXI secolo prescrive il contrario, allontanarsi dagli altri, con il perfetto alibi del contagio, per non comunicare se non con uno schermo e attraverso di esso. Solitudine, incomunicabilità, ma senza profondità o riflessione, tanto meno riservatezza, silenzio: le pareti, i muri, restano, ma diventano di plexiglas. Ci affidiamo alla chimica, al vetro sintetico, il polimetilmetacrilato destinato non più a modellare accessori, ma a diventare il divisorio della distanziata futura umanità. A partire, dicono, dalle spiagge.





Al tempo del coronavirus? Il presente è già distopia,
almeno per chi si ostina a credere all’antiquata umanità!


Ci adatteremo, senza dubbio: la megamacchina è troppo potente per ascoltare le obiezioni passatiste. Soli, divisi da innumerevoli paratie - quella di plexiglas è solo l’ultima - ma trasparenti, nudi, a disposizione del Potere.
Il totalitarismo della trasparenza abolisce il confine tra pubblico e privato, e rende impossibile sfuggire al Panopticon digitale, frontiera definitiva del controllo sociale.

Distanti, resi atomi che ruotano attorno agli schermi e alle tastiere, i nuovi media universali di comunicazione, siamo più soli che mai, in un mondo sempre più arcano, incomprensibile, con il quale possiamo interagire esclusivamente attraverso codici, password e il magico clic dell’invio. Segni senza significato, dove il mondo e le cose si assottigliano sino a divenire pura superficie. Un universo ridotto a schermo, touchscreen, del tutto privo di profondità e sempre meno illuminato dalla presenza dell’Altro.
C’è un tempo per tutto, rivela l’Ecclesiaste. Il nostro è quello del distanziamento e della solitudine. Il libro biblico avvertiva: “guai a chi è solo, perché se cade non ha chi lo sollevi” (Eccl. IV, 10).

Residui del trapassato: l’aiuto esiste, è l’assistente digitale online.
Alexa, Cortana, Siri, già popolano i nostri computer e apparati digitali, si insinuano, a volte di nascosto, a volte apertamente nei ritmi della nostra vita quotidiana. Sono il nuovo “prossimo” della transumanità distanziata. Senza di essi – ma forse dovremmo usare il pronome personale “loro” - non potremo accedere a beni, servizi, informazioni.
Il presente è già distopia, almeno per chi si ostina a credere all’antiquata umanità.
In chiesa, abbiamo visto cartelli che invitano non solo alla distanza tra i fedeli (fratelli, ma non troppo…), ma addirittura ingiungono di non inginocchiarsi. L’Altissimo non merita tanto, la tecnologia probabilmente sì. Al tempo del coronavirus, sono chiuse le biglietterie delle stazioni ferroviarie: il fai da te è un obbligo.

Arrángiati, se non sei capace di fare tutto online, pagare con carta di credito, o utilizzare l’apposita macchinetta, previa igienizzazione delle mani e utilizzo di guanti monouso. Lo stesso in banca: bancomat a parte, puoi farti il bonifico da te.
Nessun rapporto umano, nessuna relazione interpersonale: sono sufficienti le dita, le immancabili card e la capacità di comunicare come vuole l’apparato tecnico, il nuovo “prossimo tuo”.
Il percorso è obbligato, domande e risposte stanno nelle istruzioni. Tutto online, per un’umanità distanziata, ma connessa h.24.
Che meraviglia: tu lavori al posto loro e paghi, i soliti gestiscono da remoto i tuoi dati, il tuo denaro, ti profilano, sorvegliano e sanno tutto di te. Incidentalmente, si possono disfare di un gran numero di figure professionali divenute inutili. L’esperimento avanza nella scuola: basta maestri, pedagoghi e professori, la paideia si realizza davanti allo schermo.

Menù con le domande frequenti (FAQ), istruzioni, immagini, audio e video. Si può, si deve “interagire”, verbo passepartout postmoderno; è d’obbligo essere multimediali.
Il telelavoro si diffonde a macchia d’olio. Comodo, per molte attività, fare tutto da casa. Ma la distanziata post umanità privata di contatti interpersonali, senza colleghi, non vive più immersa nel mondo, i suoi interessi non sono più quelli degli altri, crolla la dimensione comunitaria, si dissolve quella collettiva.
Solitudine anche nel lavoro; ha qualcosa da obiettare il sindacato, non teme un nuovo drammatico salto nei rapporti di forza tra un numero infinito di atomi, di Io minimi e chi possiede le piattaforme, chi impartisce ordini da remoto, chi può vedere e controllare tutto, minuto per minuto, oltre il plexiglas e al di là dello schermo? Nel lavoro, nello studio, nella vita, lo scambio, la relazione, è tutto, anche quando diventa conflitto.




Al tempo del coronavirus? In chiesa, abbiamo visto cartelli che invitano non solo alla distanza tra i fedeli (fratelli, ma non troppo…), ma addirittura ingiungono di non inginocchiarsi.
L’Altissimo non merita tanto, la tecnologia probabilmente sì.


Lo sapeva Eraclito. “Pòlemos è padre di tutte le cose, di tutte è re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.” In quale schieramento ci troviamo, o Eraclito vale soltanto per il celeberrimo Panta rei, mediocre giustificazione del progresso lineare, anziché presa d’atto della drammatica caducità del tutto?
L’umanità distanziata, perennemente connessa, terminale di se stessa, con gli occhi fissi sullo schermo e le dita che corrono sulla tastiera o sull’icona, è ancora sapiens, o si è ridotta ad animale ammaestrato?
Interagire, a breve, con robot, come già facciamo con apparati senza vita ma dall’immenso potere, ci cambierà in modo sostanziale, ci renderà una specie diversa.  Saremo migliori, più felici, più saggi? L’esperienza di questi anni, l’accelerazione degli ultimi mesi sembra escluderlo.

Ma, bisogna tacere e andare “avanti”, come i fanti il 24 maggio. L’animale politico diventa lupo solitario, più acido, più complessato, più litigioso e triste, impaurito, sospettoso. Chissà se andrà meglio con il cyberuomo che si ibriderà con la macchina.
E “io”, sarò ancora mio, parte di un apparato tecnico, inevitabilmente comandato a distanza? 
Domande, inutili, probabilmente da scacciare, poiché l’uomo ha bisogno di essere superficiale, nutrirsi di facili certezze, allontanare ciò che inquieta per vivere con un minimo di serenità. La dignità umana è sin troppo ferita per chiederci se c’è ancora posto per l’anziano, il malato, il debole, il povero, quello che “non ce la fa”.

Nelle biblioteche virtuali, libri virtuali, seppelliti tra milioni di files; nella vita virtuale, pochi contatti resteranno reali.
Dematerializzare, è la parola d’ordine. Forse salveremo qualche lembo della foresta amazzonica, ma l’uomo che stanno plasmando come creta, per sopravvivere dovrà rinunciare al pensiero critico, a porsi domande. Per reggere, dovrà essere trattato con droghe chimiche, il soma proposto da Aldous Huxley nel Mondo Nuovo.
Quale maschera dovrà indossare per sopportare la vista del suo prossimo e il suo stesso volto? Davanti all’apparato tecnico, parlerà a monosillabi con l’assistente virtuale, forse finirà per amare un robot in forma umana.
Ci sembra che se ne parli troppo poco, per timore o più probabilmente per prescrizione dall’alto. Distanziati, non sappiamo se sia emerso qualche segno di allarme per la prescrizione enfatica del distacco sociale. Temiamo che pochi s’inquietino per tale limitazione della libertà naturale, al di là della prudenza nella fase di allarme.

La distanza, tuttavia, è per l’uomo una categoria antropologica di una profondità costitutiva, essenziale. L’allarme che lanciamo riguarda il sospetto che la prescrizione del distacco sia parte di un processo di lungo periodo, il cui obiettivo è nelle promesse del transumanesimo.
L’uomo è un essere che parla, comunica, ma è anche “faber”, costruttore. Fabbrichiamo le parole, così come comunichiamo con gli oggetti significativi di cui è composta la vita. La realizzazione graduale, l’invenzione paziente della capacità di comunicazione e di cooperazione, grazie alla produzione e all’uso delle cose e delle parole, ha significato una profonda metamorfosi nel concetto di distanza.




Fin dalla sua comparsa sulla Terra l’uomo ha cercato di non essere solo. Per Aristotele è un animale sociale e politico, destinato alla relazione. Il libro biblico avvertiva: guai a chi è solo perché se cade non ha chi lo sollevi!


Lentamente, grazie alla creazione e l’uso di cose e parole, abbiamo costruito il nostro potenziale cooperativo e comunicativo. Impegnati nell’opera comune di sviluppare e utilizzare un mondo articolato di oggetti e merci, abbiamo dovuto tener conto della presenza e della prossimità degli altri. Per contare su di loro, anche quando non erano direttamente accanto a noi, poiché ciò che stavamo realizzando aveva senso solo in riferimento agli assenti. Dovevamo tener conto dell’Altro, perché il nostro fare si articolava nel suo. La fiducia, fondamento della speranza che gli altri sarebbero stati parte del nostro agire, incoraggiava a sua volta il compimento responsabile delle nostre azioni.

Coinvolti in strutture di interazione che trascendevano l’opera individuale presa separatamente, potevamo essere distanti sino a perderci di vista, ma contavamo gli uni sugli altri, che ci apparivano attraverso le cose in cui eravamo impegnati e le parole con cui le designavamo. Una mediazione inevitabile in qualunque incontro umano. Poi giunse il momento in cui il processo costitutivo di quella forma di cooperazione si proiettò dagli antenati ai discendenti, colmando il divario temporale tra vivi e morti.
Da tempo, tuttavia, l’attività di produzione di serie, industriale, con totale divisione dei compiti, ha troncato quella distanza intima, quel canale fatto di considerazione degli assenti che dava senso ai nostri atti.

La mercificazione e l’industria moderna, ampliando le distanze, frammentando le operazioni e isolandoci in nome di un programma astratto di produzione di valori di scambio, ha interrotto un’antica, profonda integrazione comunitaria.
Una nuova “cecità morale” (Z. Bauman) è sorta dalla distanza che fa perdere di vista l’assente, rompe il nostro impegno e distrugge la speranza.
Gli operai di una fabbrica di armi ricevono con gioia una nuova commessa, poiché garantirà lavoro, e intanto si rammaricano sinceramente per i morti di una guerra lontana.
Celebriamo la caduta del prezzo delle materie prime, ma deploriamo la carestia e la fame prodotta da qualche parte nel mondo. Chi manovra le bombe davanti a uno schermo si congratula come in un videogioco per il successo del gesto meccanico che è morte e distruzione per l’Altro, distante, sconosciuto.




Al tempo del coronavirus? Il mestiere di vivere diventa ogni giorno più complicato!


Temiamo che la distanza sociale si estenda in modalità di vita e lavoro che isolano e rendono egoisti, indifferenti, forme in cui il reale viene nascosto, rinchiuso, sostituito dalla sua rappresentazione virtuale.
Il lavoro sarà risolto in prestazioni di unità incomunicabili, chiuse, la cui articolazione e coordinamento a distanza non riconoscerà altro orizzonte sociale che lo schermo. Una relazione malata, assai diversa dalla parola viva e dalle cose reali, che ci avvicina solo in forma di fantasmi. Riaffiora un pensiero di Gunther Anders ne L’uomo è antiquato. “Quando il lontano si avvicina troppo, il vicino si allontana e sparisce. Quando il fantasma si fa reale, il reale si trasforma in fantasma.

Ignoriamo ancora le conseguenza del veloce trasbordo verso il distacco. Quando potremo contemplarne gli effetti, nel nostro posto di lavoro, nell’atto del consumo, nelle relazioni personali, disarticolati, quasi disincarnati, forse smetteremo di sentirci reciprocamente presenti. A distanza, in lontananza. Rari nantes in gurgite vasto, rari nuotatori nel vasto gorgo: la drammatica condizione dei compagni di Enea dopo il naufragio provocato dalla dea Giunone. Nel mare in tempesta, soli, distanti, dispersi tra le onde e il fasciame di navi affondate.



maggio 2020
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