La libertà imprigionata

dal pensiero unico liberale

di Roberto Pecchioli



Pubblicato il 1 giugno 2020 sul sito
Ricognizioni


 






La nostra è, o forse era, una civiltà fondata sul libero arbitrio e la libertà di espressione e movimento: nessuna sottomissione, primato dell’autonomia personale, nel senso antico e letterale di governo di sé. Anche questa caratteristica - che pareva scolpita nel marmo - si è afflosciata, è implosa dinanzi ai timori di una malattia sconosciuta, globale come il tempo corrente, difficile da inquadrare, sfuggente.
Uno scrittore e intellettuale francese, Eric Zemmour, politicamente scorrettissimo, tra i più invisi al “pensiero unico”, in una recente intervista al Figaro, uno dei più influenti quotidiani d’Oltralpe, si è posto con sgomento la domanda fatidica: come hanno potuto gli europei e gli occidentali lasciarsi espropriare senza fiatare delle “libertà individuali” per il Coronavirus, in modo così vasto, plateale e senza reazioni?

La questione – che ha bisogno di una risposta assai articolata – ci sembra mal posta, se non addirittura fuorviante. Ovvero, nella domanda è già contenuta una parte di risposta. Abbiamo rinunciato alle libertà “individuali” in quanto già da tempo ci eravamo liberati da quelle comunitarie e collettive, e poi di quelle dello spirito, intrappolate nell’istinto, nella pulsione di una carne senza più uno scheletro a sostenerla.

La libertà non si perde mai tutta insieme: la rana occidentale era già bollita, senza più la forza per ribellarsi a chi l’aveva messa in pentola. È stato sufficiente, per l’ultima spallata, scrostare l’ultimo strato di vernice della finzione democratica.
Intendiamoci: la salute è davvero un’emergenza e gli antichi sapevano già che primum vivere, deinde philosophari”, ma la docilità con cui la stragrande maggioranza ha accettato di sospendere le libertà che A.C. (Avanti Coronavirus) considerava più sacre, attesta che il regno dei diritti e dei capricci abdica in un attimo dinanzi alla necessità della preservazione biologica. La tutela della salute non può però fornire al Potere – si tratti dello Stato o delle oligarchie tecnocratiche e finanziarie sovrastanti - un alibi permanente per lo stato d’eccezione.

Sotto l’ombrello onnicomprensivo della democrazia e del liberalismo abbiamo conferito la sovranità sulle nostre vite al potere politico, a quello finanziario e tecnologico, a sedicenti élites di esperti. Vige e si acutizza una censura preventiva sulla maggior parte delle questioni davvero importanti della vita personale, pubblica e comunitaria.
Da tempo, si tratti del problema migratorio, dei rapporti tra i sessi, della questione della giustizia sociale o dei temi etici, un’ideologia falsamente “aperta” calata dall’alto detta ciò che è permesso e ciò che è proibito, ciò che si può dire e ciò che è opportuno tacere, tanto che abbiamo interiorizzato il principio della disciplina di parola ed espressione senza opporre la minima resistenza.

L’occasione della tragedia è propizia per modificare, rovesciare attitudini, condotte e divieti, restituendo all’uomo la sua libertà che, come insegnava una comunista non leninista, Rosa Luxemburg, è sempre libertà di pensare diversamente.
Il presente è riuscito a rendere pleonastico l’avverbio “diversamente”: è il mero atto di pensare a essere sospetto, sconsigliato, deviante. È il fallimento definitivo della narrazione liberale, liberista, libertaria e della stessa forma democratica.

Nell’aderire con entusiasmo alla liturgia “progressista”, ircocervo liberale e post marxista, abbiamo lasciato che prevalesse l’uomo a una dimensione. Non ci riferiamo all’espressione coniata da Herbert Marcuse. L’essere umano europeo e occidentale postmoderno non è che un individuo, un atomo solitario, una monade che nuota in un magma continuamente mutante. Ha perduto la dimensione trascendente, battuta dai materialismi fratelli liberali e collettivisti, ma anche il senso di appartenenza a una cultura, a un’identità, persino a legittimi interessi collettivi o di gruppo.
Carne deperibile, tubo digerente, è regredito al puro istinto: respiro, dunque sono.

Basta con l’ingombrante concetto di persona, che attiene alla dimensione del Sé, del giudizio, del rispetto e persino dell’onore. Al deraciné amputato, solo tronco – via le radici, i rami e le fronde – non più “situato” in principi, luoghi, tradizioni, comunità, resta una tenda a ossigeno per rivedere il sole dell’indomani. Fine del Super Io etico e della dimensione comunitaria. Resiste, alla comparsa inaspettata del Perturbante, il virus Covid 19, un Es trincerato dietro la mascherina, ultima difesa contro Thànatos, la morte.

Privatosi allegramente dei punti di riferimento, l’’Homo consumens passato dalla dimensione “solida” a quella liquida sino a lanciarsi senza paracadute in un gaio nichilismo, lasciato a se stesso, alla nuda vita (zòe), non può che esprimere terrore dinanzi alla prospettiva di perdere la sopravvivenza organica, l’ultima proprietà che gli resta. Nulla di più opportuno, quindi, di un allarme sanitario – vero, ma enfatizzato – per farlo precipitare in un’angoscia da cui esce solo se rassicurato rispetto all’istinto di conservazione soggettiva. Così, ha facilmente accettato di “non vivere per non morire”, mettendosi disciplinatamente agli ordini del Potere.
Sindrome di Stoccolma, in parte, poiché la vittima solidarizza e bacia la mano del carnefice, ma vi è di più, ed è l’assenza di qualunque orizzonte trascendente (il silenzio delle religioni sgomenta) e insieme di qualsiasi profondità o tensione comunitaria, ancora presente in narrazioni letterarie di contagi come quella della Peste di Camus.

Conto solo “io”, il numero di anni o di ore che potrò ancora trascorrere in questo mondo. Quali libertà possono importare a un’umanità ridotta a sopravvivenza darwiniana, respiro e tubo digerente, disabituata a fare i conti con la morte? Luogo orribile per l’assenza di “io”, esorcizzato attraverso la corsa sfrenata senza traguardo, il presente dilatato, la tabula rasa del passato e l’indifferenza per il futuro, la morte rimossa, scomparsa dai radar contemporanei, è strettamente collegata all’eliminazione della religione.
Ora, all’improvviso, si torna al reale: il male esiste, la morte è in agguato, non resta che affidarsi alla Scienza, a chi può allontanare l’incubo, gettarsi nelle braccia del Potere.

Essenziale è comprendere perché siamo a questo punto, chi o che cosa ci ha portato in questa misera condizione e, se possibile, uscirne. “Libertà va cercando, ch’è sì cara/ come sa chi per lei vita rifiuta”. In questi versi danteschi (Purgatorio, canto I, vv.71-72), tanto incomprensibili alla mentalità post moderna e a ogni materialismo, sono contenute, in nuce, le risposte che cerchiamo, e anche le domande di cui sono figlie. Virgilio, la ragione umana, si rivolge a Catone Uticense, l’uomo politico romano che scelse il suicidio piuttosto che rinunciare alla libertà che Cesare aveva tolto alla fazione sconfitta.

Libertà è la parola che fa comprendere perché Catone si trova nel Purgatorio: morto per difendere la propria dignità, si trova nel luogo simbolo della libertà dal peccato cui anelano le anime. Pur essendo pagano, Catone è salvato per i suoi meriti morali, quindi la sua scelta estrema di libertà diventa esempio per tutte le anime. La lezione da trarne, al di là delle questioni di fede, è che l’uomo occidentale contemporaneo non ama la libertà, o meglio le libertà, ma solo la nuda vita, la “sua” nuda vita individuale.
È ancora un uomo, dunque, nel senso nobile del termine?

Probabilmente, il peccato originale delle grandi ideologie moderne, narrazioni intorno al Nulla, è quello di aver rifiutato il peccato originale, ossia la condizione imperfetta, caduca dell’uomo, per abbracciare il più imperdonabile di peccati, la hybris, l’assenza del limite. Nel libro biblico di Isaia si dice (51,17) “Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, (…) la coppa della vertigine hai bevuto, l’hai vuotata”.
Abbiamo delegittimato le agenzie di senso e le istituzioni che ordinavano la trasmissione della vita, e oggi un potere gelido, impersonale, statistico, arriva a sottrarci il diritto elementare alla mobilità, all’incontro con l’altro, a vietare i riti che accompagnano la morte.

Per chiudere una pagina di storia, diceva l’intellettuale slavo Predrag Matvejevic, bisogna prima averla letta. Non si può riannodare il filo della libertà, che è l’ambizione di questo scritto, senza prima averlo dipanato. Le due grandi ideologie materialiste, il liberalismo e il socialismo, hanno un nucleo forte comune: l’internazionalismo/cosmopolitismo, l’ostilità ad ogni appartenenza comunitaria, l’indifferenza alle tradizioni, il disprezzo per il passato, il mito del progresso lineare, oltre all’ostilità per ogni forma di spiritualità e senso teleologico della vita. Il tragitto è stato lungo, ma stanno raccogliendo i frutti velenosi del lavoro di tre secoli.

L’erosione è opera di numerose ondate, la più potente delle quali è stata la modernità liberale, il cui primo coerente banditore fu John Locke, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Locke intendeva costruire una società individualista fondata su libertà e proprietà. In realtà, la dimensione materiale, economica, utilitarista era già dominante nel teorico della “gloriosa rivoluzione” inglese di fine XVII secolo, il cui esito fu l’inizio dello strapotere delle istituzioni finanziarie.

La celebrata “tolleranza”, oggetto della sua Lettera era già un compiuto panegirico delle libertà mercantili. Non è senza logica che Locke raccomandasse tolleranza generalizzata con la notevole eccezione della fede e della Chiesa cattolica. Il padre nobile del liberalismo classico aveva già declinato le generalità della nuova ideologia, in cui ogni elevato discorso sulla libertà ruotava inevitabilmente intorno all’unico nucleo fondante: il libero commercio, la proprietà, la giustificazione e glorificazione del nascente capitalismo, parola che significa la fondazione della società sulla potenza del denaro e della ricchezza.
Thomas Jefferson, nell’America della dichiarazione d’indipendenza, orientò questa intenzione liberale verso l’emancipazione assoluta dell’individuo. “Life, liberty and the Pursuit of Happiness”, vita, libertà e ricerca della felicità, è scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776.

Con questa ingiunzione morale, e l’allusione scoperta che la felicità ha uno stretto rapporto con la ricchezza e il possesso di beni materiali, il Padre fondatore degli Stati Uniti fece entrare direttamente la teoria liberale nella prassi politica, corrompendola nel tragitto. Il perseguimento della felicità, eco maldestro dell’eudemonismo, aprì nuove prospettive libertarie al mondo anglosassone.

Respingendo il vecchio mondo, la repubblica commerciale - prodotto di una particolare cultura - si pretendeva universale, diventando il terreno di prova del liberalismo prima d’esportarlo per tutto il pianeta.
Il XX secolo vide il grande scontro della modernità tardiva e il liberalismo poté dominare incontrastato le menti, una volta sconfitti il Fascismo e il Socialismo, acquisendo nel passaggio la pulsione libertaria, contaminandosi con la psicanalisi e nutrendosi di autentico odio per la nozione di autorità, complice la lucida follia dei francofortesi.

Il liberalismo-libertario mira all’emancipazione assoluta dell’individuo. Dapprima la società fu distinta dallo Stato, poi lo Stato fu separato in poteri, quindi posto al servizio degli individui. Infine, l’acrobazia: il potere diventa tecnopotere e biopotere per dominare masse amorfe di soldatini-consumatori. Questa dinamica, a posteriori, appare come un cumulo di ombre, di decostruzioni e di sradicamenti.
Divenuti gli unici soggetti legittimi, l’umanità e l’individuo ormai rifiutano ogni ostacolo e adottano senza batter ciglio la norma contrattuale del mercato, ovvero dello scambio, come misura di tutte le cose. “Liquida”, la società segue l’incessante fluttuazione dei desideri, determinata dall’unico autentico obiettivo liberale: il mondo-mercato.

Un breve brano del Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels (1848) è illuminante: la borghesia, che Marx considerava il motore del capitalismo, “al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli”. Il socialismo, pur nel suo radicale materialismo, aspirava a una forma di liberazione dell’umanità, alla creazione di una comunità umana (gemeinwesen) affrancata dalla povertà e dallo sfruttamento. L’esito fu catastrofico, ma le intenzioni del suo antagonista erano esattamente quelle descritte da Marx. Il capitalismo si è affrancato prima dalla borghesia, poi da se stesso, diventando puro dominio privato. Il liberismo non è che la privatizzazione del mondo a scopo di dominio, non solo economico.

Soprattutto e innanzitutto, il liberismo si è definitivamente sciolto da ogni legame con l’ideologia, in qualche modo “morale”, che lo sorreggeva all’inizio ed alla quale affidava la sua giustificazione, cioè il liberalismo. La fase storica che viviamo, con l’impetuosa accelerazione di questi mesi in conseguenza della pandemia, ne è la dimostrazione.
In questa sede non interessa l’origine del Coronavirus, sposare o attaccare teorie di qualsiasi tipo sulla sua insorgenza e diffusione. Importa esaminare l’accelerazione totalitaria e radicalmente antiumana alla quale stiamo assistendo. La contraddizione iniziale del liberalismo classico – teoria della libertà il cui fine era sin dall’origine l’utilitarismo e la prevalenza dell’economia su ogni principio etico, politico o spirituale – non poteva che condurre agli esiti odierni.

Riappropriarsi dell’idea di libertà, strappandola dalle mani sporche del liberismo-liberalismo trionfante dalla pelle di serpente – oggi tocca alla versione tecnocratica e scientocratica – è il compito di un nuovo “pensiero meditante” (Heidegger).
Il tornante storico fatto esplodere dal Coronavirus è l’occasione, forse l’ultima, di reagire a un pericolo realmente mortale. Il primo gesto da compiere è completare il percorso avversario con l’ultimo gesto di decostruzione e di demitizzazione: perdere ogni residuo rispetto per il liberalismo, figlio degenere della libertà, che ne usurpa e distorce il significato, sino a far credere di esserne l’inventore. Con il suo lessico mercantile, dobbiamo sottrargli il brevetto, espropriarlo del copyright.

Partiamo da una constatazione elementare: in questi mesi di confinamento siamo stati privati della mobilità. È risorto il feudalesimo dei servi della gleba vincolati al territorio; ma se la mobilità è una libertà, essa non è certo tutta la libertà. C’è una libertà superiore, che implica “poter” essere mobili, ma anche scegliere, al contrario, l’immobilità. Questa libertà superiore è l’autonomia. Dunque, oltre la libertà di circolare, la grande questione che si pone è riconquistare la libertà come autonomia, perduta dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della società di massa.

Quello che dobbiamo intaccare in questo tempo decisivo è l’idea della globalizzazione liberale, ossia il pensiero unico, obbligato e assurdo per cui la libertà è la competitività di tutti verso tutti, il principio che l’ordine umano sia il risultato della regolazione impersonale dei flussi di capitali, merci e persone. L’obiettivo è nientemeno che recuperare la libertà come autonomia e libera circolazione delle influenze morali, sociali, intellettuali, comunitarie e spirituali. Non vi è altra strada per ritrovare la libertà che fuoriuscire coraggiosamente dalla ragnatela liberale, liberista, libertaria.

Il loro libero mercato, la loro democrazia procedurale eterodiretta, i loro diritti/capricci, sono la copertura impudica, la crosta disseccata di uno spaventoso dominio oligarchico.
Un esempio di libertà e autonomia, una bussola positiva per un nuovo inizio, è un passo tratto da La fine dell’epoca moderna, del pensatore italo tedesco Romano Guardini: “vive nell’uomo, [creatura] in immediato rapporto con Dio, un soffio dell’alito divino. (…) L’uomo ha una responsabilità di fronte al creato. La potenza umana non deve costruire un proprio mondo autonomo, ma portare a compimento il mondo di Dio facendone un umano mondo di libertà”.




giugno 2020
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