Perché l’identità è un valore, e perché va difesa

di Francesco Lamendola


Articolo pubblicato sul sito Accademia Nuova Italia







Oggi si parla spesso di identità: sia con riferimento allo stato, alla nazione, alla patria, sia in riferimento alla chiesa, alla religione, alla fede. Per alcuni non se ne parla abbastanza, per altri se ne parla anche troppo. Gli uni ne fanno un valore, gli altri la considerano, se non proprio un disvalore, almeno potenzialmente una trappola che rinchiude individui e comunità nel loro bozzolo, li rende egoisti, refrattari alla solidarietà e all’inclusione.
Prima di partire, a lancia in resta, per collocarsi in uno di due schieramenti - perché di due eserciti si tratta, l’un contro l’altro armati, piaccia o non piaccia – bisogna avere ben chiaro cosa significa identità. 
Ne abbiamo già parlato in un precedente lavoro (cfr. l’articolo Che cos’è l’identità?, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 07/10/17) e in primo luogo abbiamo operato una distinzione tra il concetto di identità in filosofia e il medesimo concetto in sociologia, psicologia, antropologia. Un terzo concetto di identità, quello della matematica, lo lasciamo da parte, perché non ha attinenza col ragionamento che ci accingiamo a fare, e che riguarda la sfera pratica della vita, non la dimensione teorica. Dunque, avevamo visto che, in filosofia, l’identità (da identitas, che a sua volta deriva da idem, cioè “la stessa cosa”, dal greco tautotes) è la prerogativa di un oggetto di essere uguale a se stesso, e pertanto riconoscibile rispetto ad altri oggetti; mentre in sociologia l’identità è la coscienza e l’idea che un individuo ha di se stesso e che lo rende distinguibile dagli altri; coscienza ed idea che non rimangono fissi, ma evolvono, sia rispetto alla crescita dell’individuo, dall’infanzia alla vecchiaia, sia per effetto dei cambiamenti che si verificano a livello sociale, dato che ciascun individuo è inserito in una società e ne risente l’influsso.
In questa sede vogliamo condurre un approfondimento del primo significato, senza però perdere di vista neppure il secondo, in quanto, nella sfera della vita pratica, è cosa impossibile, e comunque sbagliata, volerli separarli in maniera drastica, mentre si può prescindere dal significato matematico dell’identità.




Dotato di uno statuto ontologico complesso, privilegiato, di non facile identificazione, l’uomo ha un fine e perciò una essenza, ma sotto il segno della libertà e non della necessità, quindi è la sola creatura che può non solo mancare il proprio fine, ma anche tradire la propria essenza. Da parte nostra, ribadiamo che il fine dell’uomo è riconoscere il suo Creatore!


Dire che le cose sono caratterizzate dalla loro identità, ossia dal fatto di essere se stesse e non altro, potrebbe sembrare una ovvietà addirittura lapalissiana, ma di fatto è la chiave di volta di tutta la logica, o almeno della logica occidentale, figlia della filosofia greca.
Su tale concetto si fonda il principio di non contraddizione, perché è chiaro che A non è uguale a B solo a condizione che A sia uguale ad A, vale a dire a se stesso. E tuttavia c’è il pericolo di forzare il significato di quel concetto fino a stravolgerlo, portandolo all’assurdo. Infatti, dire che una cosa è proprio quella se è uguale a se stessa, non può voler dire che quella cosa deve rimanere eternamente immobile, intangibile e immodificabile.
Tutte le cose – non solo gli organismi viventi, ma proprio tutte – sono soggette al mutamento, perché tutte sono soggette al movimento. La prima prova dell’esistenza di Dio elaborata da san Tommaso d’Aquino, che si rifà al concetto della Causa Prima di Aristotele, si rifà proprio a questo dato di fatto: le cose si muovono, e più precisamente sono mosse da altro da sé (la sola che non subisce il moto, ma ne è la causa, è il Motore Immobile, che in termini cristiani è Dio).
Ora, se tutte le cose sono soggette al moto, allora tutte le cose subiscono un processo di trasformazione più o meno rapido. Per notare il cambiamento di una montagna sono necessari milioni di anni, mentre per notare il cambiamento di un essere umano sono sufficienti alcuni anni; per quello di una farfalla, dei giorni; per quello dell’insetto chiamato Ephémera, bastano alcune ore (poiché vive un giorno in tutto). Perfino la morte è soggetta a cambiamento: se infatti non viene congelato, oppure mummificato, qualsiasi corpo si decompone più o meno velocemente e alla fine scompare, distrutto dai batteri o microrganismi decompositori.
Noi tutti siamo coscienti di quanto l’identità delle cose e delle persone sia labile: scattiamo fotografie e realizziamo filmati per catturare la testimonianza di ciò che, un domani, ci aiuterà a non smarrirne l’identità, in una specie di lotta perenne contro l’impermanenza.




L’essenza di una cosa è ciò che la fa essere quel che è. L’essenza di un organismo è vivere, l‘essenza della filosofia è il pensiero, e l’essenza del pensare è comprendere; l’essenza dell’arte è esprimere il bello e l’essenza della religione è stabilire una relazione sufficientemente chiara fra l’uomo e Dio!


Guardando le nostre foto di quando eravamo bambini, possiamo misurare quanto la nostra identità si è modificata, al punto che chi ci ha conosciuto solo da adulti, a cominciare dai nostri stessi figli, probabilmente non riconoscerebbe in quelle immagini la nostra identità, la quale diventa così un segno di contraddizione: da un lato attesta che le cose permangono uguali a se stesse, dall’altro reca la testimonianza inoppugnabile che cambiano, e più trascorre il tempo, più si allontanano, almeno esteriormente, da ciò che sono state in passato.
Strano, vero? Una vecchia fotografia ci dice che quella persona è proprio lei e sempre lei, però, nello stesso tempo, ci dice che è cambiata così tanto da essere divenuta irriconoscibile, se non per chi le è stato accanto ogni giorno nel corso degli anni.
E una ricognizione geologica ci dice che in Antartide, ove ora non ci sono che neve e ghiaccio, in un tempo remoto le palme e le felci arborescenti stormivano alle dolci brezze tropicali. Questi fatti ci ricordano che essere uguali a se stessi non significa esserlo in senso assoluto, ma relativo.
In un certo senso, tutto viaggia col tempo e avere coscienza di sé equivale ad avere coscienza di come il mondo, e noi con esso, subiamo perennemente il movimento e quindi siamo trasformati dalla sua azione. Dire tempo è come dire moto: il tempo esiste perché le cose si muovono, e il tempo è la misura degli effetti di quel movimento. Niente moto, niente trasformazione e quindi niente tempo, ma solo un eterno presente, un tempo fuori dal tempo. Anche il nostro pensare, anche il nostro ricordare, anche il nostro prevedere (il futuro), si muovono all’interno del tempo; noi siamo figli del tempo e quindi del cambiamento. E tuttavia in noi vi è una parte che anela a uscire dai lacci del tempo, che ha sete di eternità e che talvolta riesce a intravedere nel suo slancio mistico – che non è qualcosa d’irrazionale, ma di sovra-razionale – la realtà assoluta al di fuori del tempo. Proprio come un uccello fatto per le altezze, un grande albatro, riesce a oltrepassare la cortina delle nuvole e a vedere il sole che brilla al di sopra di esse; mentre tutti gli altri, che restano sulla terra, vedono solo grigiore e assenza di luce.




Se l’essenza delle cose è ciò che definisce il loro fine, già questa definizione ci pone in conflitto con la cultura moderna, perché la cultura moderna rifiuta il finalismo, lo considera una specie di superstizione e afferma che le cose esistono “Senza alcun fine”: infatti l’uomo moderno europeo è di fatto solo un alienato, senza alcun fine!


Abbiamo dunque acquisito un primo punto importante: l’identità è la coscienza del permanere delle cose in se stesse, pur nel loro incessante mutare. Difendere l’identità, riconoscere un essa un valore, non può essere quindi una difesa statica dell’esistente, così come esso appare oggi: anche perché, dal punto di vista delle generazioni passate, anche solo della generazione appena passata, il presente è già molto cambiato rispetto a ciò che esisteva prima.
La difesa dell’identità e il riconoscimento del suo valore consistono allora nella coscienza che le cose mutano, restando tuttavia se stesse. Se una cosa dovesse mutare al punto da divenire altro da sé – cosa impossibile nel regno della pura logica, per il principio di non contraddizione, ma possibile, almeno in apparenza, nel mondo della vita empirica – allora non sarebbe che un inganno, perché trascinerebbe in errore chi la volesse assumere e difendere per ciò che era, ma ora non è più.
Si pone perciò la domanda: è possibile che il mutamento, quando è radicale, o molto veloce, induca nelle cose una trasformazione che non è più soltanto quantitativa – come il bambino che diviene adulto, ma resta sempre un preciso individuo – bensì anche qualitativo, tale cioè da snaturare completamente l’identità? Facciamo un esempio: se una città, in un certo lasso di tempo, diventa cento volte più grande, e cambia totalmente aspetto, davvero è ancora la città di prima, sia pure accresciuta e modificata?




Oggi, come dice monsignor Viganò, la situazione si è fatta quanto mai chiara: è in corso una lotta senza quartiere tra i figli della luce e i figli delle tenebre, e il falso clero bergogliano ha fatto la sua scelta, schierandosi coi secondi e contro i primi!


O non è divenuta, di fatto, una città interamente nuova, senza più nulla a che fare con quella di prima? Facciamo un altro esempio: se una persona soggiace al cosiddetto disturbo della personalità multipla; oppure se viene posseduta da uno spirito maligno, è ancora lei, è ancora se stessa, oppure è divenuta un’altra? E l’animale selvaggio, una volta ammaestrato da un esperto domatore, è ancora se stesso o è divenuto un altro? Un animale selvaggio lo riconoscerebbe ancora come un suo simile?
Domande difficili, senza dubbio, ma che ci fanno vedere come la linea di confine fra identità e diversità è assai meno netta, più sfumata di quel che comunemente si crede. E questo perché siamo immersi nella dimensione dell’impermanenza, caratterizzata dallo scorrere del tempo, che agisce sulle cose per mezzo del moto (anche le rughe sono una forma di moto, ossia di spostamento, in questo caso un cedimento delle cellule cutanee).
Sorge a questo punto un ulteriore interrogativo: qual è la vera identità delle cose? Vale a dire: qual è l’essenza, il quid, che le fa essere ciò che sono e che permane, anche se le forme esteriori mutano con lo scorrere del tempo? Ad esempio, l’essenza della notte è il buio, come quella del dì è la luce. Se non vi è più una distinzione riconoscibile fra essi, come accade alle alte latitudini, allora di fatto la loro identità svanisce, anche se continua ad esistere come modello teorico ad uso dei geografi.
Ebbene, qual è l’essenza di ciascuna cosa?




Anche Qual è la vera identità delle cose? L’essenza delle cose è ciò che definisce il loro fine! La prima prova dell’esistenza di Dio elaborata da san Tommaso d’Aquino, che si rifà al concetto della Causa Prima di Aristotele, si rifà proprio a questo dato di fatto: le cose si muovono, e più precisamente sono mosse da altro da sé (la sola che non subisce il moto, ma ne è la causa, è il Motore Immobile, che in termini cristiani è Dio)


Rispondiamo, e può sembrare una tautologia, ma non lo è, che l’essenza di una cosa è ciò che la fa essere quel che è. L’essenza di un organismo è vivere; l’essenza di una macchina è svolgere un certo lavoro; l‘essenza della filosofia è il pensiero, e l’essenza del pensare è comprendere; l’essenza dell’arte è esprimere il bello e l’essenza della religione è stabilire una relazione sufficientemente chiara fra l’uomo e Dio.
In altre parole, l’essenza delle cose è ciò che definisce il loro fine; e già questa definizione ci pone in conflitto con la cultura moderna, perché la cultura moderna rifiuta il finalismo, lo considera una specie di superstizione e afferma che le cose esistono senza alcun fine, causalmente, sulla base delle leggi intrinseche della materia o, nel caso dell’uomo, della psiche (niente anima ovviamente, anche questa è una superstizione).
Pazienza per la cultura moderna, della quale facciamo volentieri a meno, e proseguiamo per la nostra strada. Qual è l’essenza dell’uomo? Evidentemente, quella definita dal suo fine. E qual è il fine dell’uomo? L’uomo, lo abbiamo detto più volte, possiede una doppia cittadinanza, carnale e spirituale, che sono per loro natura in conflitto reciproco e che solo nelle nature superiori si armonizzano in una sintesi più alta, nella quale comunque è sempre lo spirituale ad adeguare a sé il carnale, e mai viceversa. Dotato di uno statuto ontologico complesso, privilegiato, di non facile identificazione, l’uomo ha un fine e perciò una essenza, ma sotto il segno della libertà e non della necessità, quindi è la sola creatura che può non solo mancare il proprio fine, ma anche tradire la propria essenza.
Da parte nostra, ribadiamo che il fine dell’uomo è riconoscere il suo Creatore, amarlo, adorarlo, lodarlo e servirlo fedelmente; e che quindi la sua essenza è inseparabile da quel Dio al quale egli tende, da quell’Assoluto di cui ha una viva nostalgia fin dalla nascita.
 



L’uomo, lo abbiamo detto più volte, possiede una doppia cittadinanza, carnale e spirituale, che sono per loro natura in conflitto reciproco e che solo nelle nature superiori si armonizzano in una sintesi più alta, nella quale comunque è sempre lo spirituale ad adeguare a sé il carnale, e mai viceversa!


Tutto questo, in linea generale. Per noi europei del terzo millennio, identità significa appartenenza alla civiltà europea, le cui radici sono cristiane e la cui arte, la cui filosofia, la cui scienza sono cristiane. L’Europa moderna si è allontanata da se stessa e quindi l’europeo moderno è già di per sé un alienato, che si è separato dalle proprie radici.
La cosa diventa ancor più evidente, e ancor più drammatica, se si entra nel cuore del cattolicesimo. La chiesa di Bergoglio non è cattolica e non  è nemmeno cristiana, è una anti-chiesa satanica, schiava del mondo e alleata con tutte le forze diaboliche che mirano alla distruzione del regno di Dio sulla terra. Il male però comincia assai prima di Bergoglio, secoli fa e si manifesta apertamente col Concilio Vaticano II, che promuove la sovversione radicale, dichiarata, della vera chiesa di Cristo e la persecuzione dei santi (quelli veri, come padre Pio, e non quelli fasulli come Roncalli e Montini).




L’Europa non è più se stessa perché ha smesso di essere se stessa e ha rifiutato con disprezzo le proprie radici cristiane! Noi siamo ciò che siamo perché siamo stati ciò ch’eravamo. Questo, nessuno ce lo può rubare. E se Cristo è con noi, di chi dovremo aver paura?


L’Europa, quindi, non è più se stessa perché ha smesso di essere se stessa e ha rifiutato con disprezzo le proprie radici cristiane; e la chiesa non è più se stessa perché se ne sono impadroniti i cardinali e i vescovi massoni che hanno favorito, pervertendo l’insegnamento nei seminari e la pastorale nelle parrocchie, l’affermazione delle forze anticristiane e sataniche, le quali da sempre spiavano l’occasione favorevole per sferrare l’assalto.
Oggi, come dice monsignor Viganò, la situazione si è fatta quanto mai chiara: è in corso una lotta senza quartiere tra i figli delle luce e i figli delle tenebre, e il falso clero bergogliano ha fatto la sua scelta, schierandosi coi secondi e contro i primi. Perdere la propria identità si rivela pertanto come il primo passo verso la perdita della propria anima.
L’Europa sta cadendo sotto il doppio assalto dell’immigrazione/invasione afro-islamica e della sottomissione ai poteri finanziari di stampo massonico. Se vuole sopravvivere, deve tornare a essere ciò che era: la figlia della grande civiltà cristiana; così come la vera Chiesa, se vuol sopravvivere, deve tornare a tendere al proprio fine: l’annuncio del Vangelo.
Basta con il falso ecumenismo, il falso dialogo, la falsa libertà; basta con la Pachamama, con Abu Dhabi e con l’equiparazione di tutte le fedi nel nome di una fratellanza di stampo massonico e anticristico.
L’Europa vivrà se ritroverà l’orgoglio di ciò che è stata e che ha fatto la sua grandezza; e la Chiesa vivrà se tornerà ad annunciare Cristo, a qualsiasi prezzo, anche a prezzo della vita, in un mondo che lo rifiuta, ma che ha più che mai bisogno di Lui.
La via è quella indicata dai cattolici cinesi: la via luminosa della croce che redime, non quella indicata da Bergoglio che strappa l’applauso del mondo e conduce all’inferno.
Forse non tutto è perduto. Oggi è domenica e un suono di campane entra dalla finestra aperta. Un suono dolce, che ci ricorda ciò che eravamo e ci ricollega all’infanzia, alle radici, alla nostra identità. Noi siamo ciò che siamo perché siamo stati ciò ch’eravamo. Questo, nessuno ce lo può rubare. E se Cristo è con noi, di chi dovremo aver paura?


giugno 2020
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