A cinquantacinque anni dal Vaticano II

di Belvecchio






E’ passato più di mezzo secolo dalla chiusura del Vaticano II  (11 ottobre 1962 - 8 dicembre 1965) e non si placano le polemiche sulle sue conseguenze: fu un vero concilio ecumenico o una rivoluzione nella vita della Chiesa?
Ultimamente, la posizione assunta da Mons. Carlo Maria Viganò, che ritiene che si sia trattato di un inganno, ha innescato una serie di precisazioni e di distinguo, tutte basate sul principio che un concilio ecumenico è pur sempre un atto solenne del Magistero.
Come sempre accade, le varie precisazioni hanno una base teologica, le differenze vertono sulla relativa interpretazione.

Noi siamo convinti che fino a quanto si dibatterà sulla valenza cattolica dei documenti del Vaticano II e sulla loro formale accettazione come documenti della Chiesa, si rimarrà in un vicolo cieco e si potrà discutere ancora per interminabili decenni.
Il Vaticano II non è stato un concilio dogmatico, esso ha voluto formulare orientamenti e direttive atte a permettere alla Chiesa di farsi meglio ascoltare dal mondo, soprattutto in vista della possibilità di accostare meglio il mondo stesso alla Chiesa… o viceversa.
In questa ottica, le disputazioni teologiche servono a poco, perché per loro stessa natura si muovono su un piano dottrinale, e il Vaticano II non è stato un concilio dottrinale, nonostante le dottrine esposte nei suoi documenti. La valenza quasi esclusivamente pastorale dei documenti del Vaticano II impone che esso si valuti e si giudichi sulla base dei risultati pastorali che ha determinato l’applicazione dei suoi documenti.

Da questo punto di vista, da cinquantacinque anni si parla di “crisi nella Chiesa”, con accenti diversi a partire dallo stato della Chiesa al suo interno e dal rapporto di essa col mondo. Se l’applicazione del Vaticano II avesse prodotto i frutti annunciati, si sarebbe parlato di vittoria nella Chiesa, se si parla di crisi è perché al posto della vittoria si è determinata una sconfitta.
Com’era inevitabile il fallimento delle direttive del Vaticano II non poteva fermarsi sul piano pastorale e si è esteso anche al piano dottrinale: non solo si è determinata una crisi della pratica della vita cattolica, ma essa è stata accompagnata da una crisi del credo dei cattolici. Non si può, per esempio, cambiare la Messa e pretendere che non cambi anche il credo dei fedeli sulla dottrina della Messa. Non si può cambiare il rapporto tra verità della Chiesa ed errore del mondo e pretendere che non cambi il credo dei fedeli.
Questo significa che la “crisi nella Chiesa” è una crisi di fede: i cattolici non credono più cattolicamente, ma secondo una visione che confonde le verità della Chiesa con gli errori del mondo. In tal mondo si arriva a credere, per esempio, che Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo, ma insieme si crede che è stato un uomo storico racchiuso nel suo tempo.
E questa “crisi di fede” interessa per primi i componenti della gerarchia cattolica: non si sarebbe arrivati alla crisi di fede nei fedeli se questa non fosse stata vissuta per prima dai vescovi, dai cardinali e dai papi.

La fede è venuta meno, allora?
La risposta è stata fornita dallo stesso Vaticano II: esso ha presentato la fede in maniera cosiddetta innovativa e tali innovazioni hanno determinato come un giro di boa: tutto quello che hanno creduto i nostri padri per duemila anni è stato rivisto fino a convincere i fedeli che potevano credere in una fede diversa. Il credo centrato su Dio ha preso il posto di un credo centrato sull’uomo; si è sostituita la prevalenza di Dio con la prevalenza dell’uomo, fino all’inevitabile assurdo che oggi si crede in Dio per l’uomo, come se fosse l’uomo l’origine di Dio e non viceversa.
In queste condizioni, la fede è venuta meno e così non si ama più il prossimo per amore Dio, ma si pensa di amarlo per se stesso. La polarità è stata invertita.
Se questi sono i frutti del nuovo insegnamento della Chiesa è proprio da questi frutti che si può e si deve giudicare il Vaticano II. Non vi è alcun dubbio: il Vaticano II è stato una rivoluzione e ogni considerazione di carattere teologico non può giustificare alcunché dei documenti di questo Concilio.
Tutto, in teoria, può dirsi del nuovo insegnamento, ma in pratica, quando esso realizza una rottura col Credo di sempre e non muove più il fedele verso il Cielo, ma lo lega fortemente alla terra, non determina più la salvezza dell’anima del fedele, ma la sua perdizione.

In conclusione: il Vaticano II è stato un inganno e come tale va rigettato in toto, nonostante qua e là i suoi documenti contengano briciole di verità di fede.
Ha ragione quindi Mons. Viganò e hanno torto i teologi?
No. Hanno ragione i fatti e contra factum non valet argumentum.
 




luglio 2020

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