A proposito delle considerazioni di Marco Bongi
sulla cosiddetta “esclusione” dalla FSSPX
di Mons. Richard Williamson

di C. C.

Quando fu pubblicato il comunicato della Casa Generalizia della Fraternità San Pio X, che annunciava l’esoterica “esclusione” di Mons. Williamson dalla Fraternità, ci sembrò opportuno far notare, a caldo, che tale decisione era quanto meno inopportuna, perché dava la stura ad una conflittualità in seno alla Fraternità di cui nessuno sentiva certo il bisogno.

In un suo articolo recente, l’amico Marco Bongi ha confermato la nostra preoccupazione, esprimendo anche lui delle perplessità per una decisione che, tra l’altro, egli vede come “un errore strategico”.
Il problema sta nel cercare di capire se tale errore abbia a che vedere con  la vita e con il bene della Fraternità o se invece non riguardi solo l’attuale tattica di governo di essa.
Insomma, si è trattato di un errore di metodo o di un errore di merito?

Leggendo l’articolo sembra che in esso si protenda per un errore di metodo, visto che in quanto al merito, fin dall’inizio vengono presentati non pochi elementi a sostegno della giustezza della decisione assunta nei confronti di Mons. Williamson.

In questo, però, vi è qualcosa di incoerente, poiché se questo vescovo fosse davvero la causa di tutti i mali, non si dovrebbe parlare di “esclusione” inopportuna, ma di “espulsione” mancata, che sarebbe stato necessario attuare da tempo per il bene della Fraternità.

Altra incoerenza è presente quando, nelle prime righe, si parla di “clima arroventato di polemiche”, che sarebbero “sterili e preconcette” e addebitabili ai “sostenitori del vescovo inglese”. Premessa con la quale vengono introdotti quegli elementi “a carico” di Mons. Williamson che, in questo caso, ovviamente, non sarebbero né polemiche, né preconcette, ma, nell’intenzione dell’Autore, oggettivi dati di fatto, tanto incontrovertibili quanto acclarati.

Se guardiamo alle polemiche, sembra che l’Autore frequenti con una certa assiduità solo certi siti internet che si esprimono con quella foga che è tipica dei giovani infiammati dalla passione, trascurando tanti interventi ponderati, presenti nella “rete”, elaborati perfino da sacerdoti della Fraternità – necessariamente in anonimo - e diffusi in più lingue in diversi paesi del mondo cattolico. Interventi che da mesi analizzano le vicende interne della Fraternità legate ai suoi rapporti con Roma.
Per di più, egli non riesce a sottrarsi a quella stessa foga che rimprovera agli altri, arrivando perfino ad adottare il sistema delle etichettature esclusive e qualificanti, o “squalificanti” in questo caso, come quella di “Williamsoniani”.

Riconosciamo subito che oggi, per come siamo cresciuti ed educati, difficilmente riusciamo a mantenere un certo distacco e non ci lasciamo coinvolgere “umanamente”, ma proprio per questo non bisognerebbe meravigliarsi dell’accaloramento altrui, guardandolo e giudicandolo con l’accaloramento proprio.

Se guardiamo agli “elementi a carico”, stiamo ancora cercando, tra gli “innumerevoli comportamenti” di Mons. Williamson, quelli che, relativi al bene della Fraternità, avrebbero fondato l’esoterica “esclusione”.

Il primo capo d’imputazione, da supporre, a questo punto, come il più clamoroso e il più universalmente noto, consisterebbe nel reato di leso “olocausto”, reato che, come tutti sanno, non solo è previsto nelle legislazioni laiche moderne, ma, pur non facente ancora esplicitamente parte del Codice di Diritto Canonico, è parimenti previsto come esclusivo dalla comunione cattolica da tanti esponenti romani, compreso il portavoce ufficiale del Vaticano.

Sembra però che il reato imputabile sarebbe relativo al fatto che, a causa di queste “improvvide dichiarazioni del 2008”, la Fraternità “ha rischiato serissimamente di essere soppressa in tutta la Germania”.

Ci si chiede: si tratta di una leggenda metropolitana artatamente diffusa o della foga di certuni che guardano a Mons. Williamson come al “calimero piccolo e nero” della Fraternità?
Domanda non oziosa, poiché è risaputo che in quasi tutti i Priorati della Fraternità, non esclusi quelli tedeschi, anzi, le simpatie per una corretta e seria rilettura della storia recente, rilettura che gli imbonitori laici moderni amano chiamare ipocritamente “revisionismo”, con dichiarata volontà dispregiativa e accusatoria,… queste simpatie, dicevamo, si tagliano col coltello, tanto sono corpose, spesse e radicate.
Si chiuderanno i Priorati della Fraternità? Verranno “esclusi” dalla Fraternità chierici  e laici dalle posizioni “improvvide”, non appena queste saranno espresse in un’intervista alla televisione svedese?

Questo argomento, certo buono per i nemici della Fraternità e della Tradizione, non sarebbe serio e saggio che non venisse utilizzato dai fedeli cattolici tradizionali?

D’altronde, se non fossimo dominati dal “politicamente corretto” che impone che tutto si possa dire dei Giudei, tranne che sono Giudei, salterebbe all’occhio la manovra moderna, tutta anticattolica, per la sostituzione del sacrificio di Cristo col tanto propagandato “olocausto”, al fine di sostituire la vera religione del Figlio di Dio con la pseudo religione dei “poveri Giudei”.
Manovra che riscuote l’avallo e il plauso della gerarchia della neo-Chiesa conciliare e adesso, più o meno velatamente, da certi settori della Fraternità. I quali, in questa ottica, trovano comodo liquidare la macroscopica anomalia dei “poveri Giudei” come “questione storico-politica assolutamente avulsa dalla fede”.

Domanda: se non ci fosse stata la vile, demenziale e criminale persecuzione antiebraica della metà del secolo scorso, attuata dai senza Dio dell’Europa continentale, nazionalsocialisti e comunisti, nonni e padri dei moderni laici, chi parlerebbe oggi dei “poveri Giudei”, dei “fratelli maggiori” e della fantasiosa “cultura ebraico-cristiana”?

Il secondo capo di imputazione, consisterebbe nel sostegno a un sacerdote della Fraternità divenuto più tardi uno dei fondatori dell’Istituto del Buon Pastore.
In tutta evidenza: reato gravissimo di incoerenza postuma, che fa riflettere su due elementi che questa strana imputazione sembra voglia suggerire.
Primo, pur di far dispetto al Superiore, Mons. Williamson difenderebbe anche il Papa!
Secondo, basta essere difesi da Mons. Williamson per riuscire a farsi riconoscere dal Vaticano e a fondare un nuovo Istituto Ecclesia Dei.

Si potrebbe dire: potenza della suggestione! Rimanendo impregiudicati i suggestionati. Se non fosse che, seguendo questa logica, e ammettendo che Mons. Williamson abbia di questi poteri, basterebbe che tessesse l’elogio degli attuali responsabili della Fraternità, che subito Roma offrirebbe la regolarizzazione canonica in un piatto d’argento!
Vuoi vedere che la regolarizzazione canonica non è ancora arrivata solo perché Mons. Williamson non elogia la politica di Menzingen?

Il terzo capo di imputazione, consisterebbe nella predilezione di Mons. Williamson per l’altalena, tale che un giorno parlerebbe asiatico in Asia e un altro, inglese in Inghilterra.

Nella lettera settimanale n° 276 (Importante decisione), Mons. Williamson ha scritto: “I sacerdoti della FSSPX che ci vedono chiaro, per il momento potrebbero tenere un profilo basso e aspettare che tutti i nodi vengano al pettine”.
Affermazione che colpisce l’Autore, forse per la totale mancanza di istigazione alla rivolta, accusa che invece si è sentita volare dalla Germania all’Italia come cosa provata e che l’Autore in qualche modo riprende a proposito di alcuni sacerdoti della Fraternità, i quali, avendo dato retta a Mons. Williamson, oggi si troverebbero “soli, cornuti e mazziati”.

Insomma, quest’uomo dal multiforme ingegno, di stirpe inglese e dalla lingua biforcuta, sarebbe colpevole di aver indotto in errore i confratelli nel sacerdozio, notoriamente incapaci di decidere da soli e bisognosi di direttive per manifesta cecità mentale.
Questo sì che è un reato grave.
Strano però che non ci si accorga che c’è un reato ancora peggiore: quello di etichettare i sacerdoti della FSSPX che non condividono la politica di Menzingen e che per questo vengono cacciati dai Priorati, come poveri fessi che non capiscono alcunché e che soggiacciono alle lusinghe e alle suggestioni del “perfido albionese”.

Il quarto capo di imputazione, consisterebbe nella coltivazione di “astii personali, piccoli risentimenti e ripicche”, manchevolezze non nuove e, diciamo noi, non solo tipiche degli uomini di Chiesa, ma tipiche di tutti noi poveri piccoli uomini.
Capo di imputazione, però, che proprio perché riconducibile agli uomini e non solo “all’uomo”, a “quell’uomo”, dovrebbe condurre sul banco degli accusati sia l’imputato, sia il pubblico ministero, sia il giudice, di questa strampalata causa “esoterica”.
Forse questo risvolto del problema è sfuggito all’amico Marco Bongi.

Il quinto capo di imputazione, consisterebbe nella “imprudenza” di Mons. Williamson e nella sua “capacità di creare confusione laddove invece era quanto mai necessario l’ordine e il buon senso”.
Prerogativa, questa, che sarebbe una peculiarità di questo vescovo, nonostante lo stesso Autore riconosca che egli ha ragione quando dice che “il bene della Verità è più importante di quello dell'unità”.
Ma allora, come si può essere imprudenti e generatori di confusione, pensando e agendo in primis per il bene della verità?  Infatti, se è vero che “l’unità è di gran lunga più importante dei contrasti personali e delle beghe di sacrestia”, è altrettanto vero, è ancor più vero che la verità è di gran lunga più importante dell’unità.
Anzi, non può esserci alcuna vera unità se non nella verità.
Senza contare che in termini di responsabilità, l’istanza primaria dell’unità, che impone di accantonare i contrasti personali e le beghe di sacrestia, esige che venga seguita e praticata, innanzi tutto, da chi ha l’onere di mantenere l’unità, da chi occupa un posto di maggiore responsabilità, da chi ha la grazia di stato per esercitare l’autorità per il bene della congregazione che dirige.
Tranne che non si voglia sostenere che, in questo caso, l’esercizio dell’autorità implichi l’esenzione dalla responsabilità.

Per ultimo ci sembra opportuno fare una precisazione circa lo “stile comunicativo” della Fraternità che, dice l’Autore, ”probabilmente è cambiato” in meglio, favorendo una migliore comprensione delle “vere motivazioni”.

È possibile che lo stile sia cambiato, ma in questo caso si dovrebbe pensare che, dati i tempi, si sia giunti all’accantonamento della chiarezza con la quale la Fraternità ha sempre presentato il suo messaggio intransigente, la chiarezza di Mons. Lefebvre che, nelle omelie, nelle conferenze, nelle dichiarazioni e negli scritti, non risparmiava i richiami al tradimento, all’eresia, al massonismo, al modernismo, al mondialismo, all’Anticristo, rivolti ai prelati, ai cardinali e ai papi. Unicuique suum.

Ciò nonostante, resta un mistero il motivo per cui l’Autore, volendo trattare dei “comportamenti” di Mons. Williamson, tiri in ballo una terminologia che quest’ultimo non ha mai usato, stabilendo un parallelo tra certa becera polemica e la critica lucida e argomentata di Mons. Williamson nei confronti della neo-Chiesa conciliare.
Tranne che non si debba pensare che, pur di introdurre i capi di imputazione in una luce la più bieca possibile, l’Autore abbia finito col ricorrere, foss’anche inconsciamente, agli accostamenti che attengono più alle polemiche da bar che alle argomentazioni serie.
E tuttavia, questa presentazione si sposa felicemente con le pari argomentazioni che in quest’ultimo anno si sono sentite in tante cappelle della Fraternità, dove è sembrato simpatico ripetere certi luoghi comuni arrivati dritti dritti dalla Svizzera tedesca.

E ancora più misterioso è il motivo per cui egli abbia voluto ricorrere all’elogio dell’ammodernamento del linguaggio a favore del parrocchiano acculturato con le messe “avvita lampadine”, come se per 40 anni non fosse stata proprio la chiarezza e la durezza di linguaggio della Fraternità a focalizzare l’attenzione del Vaticano, dei teologi, degli storici e dei tanti fedeli che hanno abbandonato le sacrestie moderniste per le cappelle degli “scomunicati lefebvriani”.

Certo, è evidente che certa terminologia è invisa all’Autore, e, diciamo noi, a giusta ragione; perché spesso quando si preferiscono gli epiteti è perché non si hanno argomenti, ma soprattutto perché il buon semplice cattolico è prima di tutto una persona per bene ed educata. Fermo restando, però, che si abbia cura di non trasformare l’educazione in ipocrisia o in ossequio al “politicamente corretto”, tale che non si possa più dire pane al pane e vino al vino, come sembra suggerire l’Autore a proposito delle critiche che si muovono a Benedetto XVI.
«non è cattolico, e non lo sarà mai in nessuna occasione, rivolgersi al Pontefice, di cui si riconosce l'autorità, con espressioni irrispettose, irridenti, insolenti, sarcastiche, ironicamente amare e addirittura offensive» - dice l’Autore – ed ha ragione!

Ma, ancora una volta, cos’ha a che fare questo con Mons. Williamson? Perché si è sentito il bisogno di un tale accostamento?

Diciamo allora che, visto che, per una svista, l’Autore ha confuso l’argomento in oggetto con le sue personali preoccupazioni, forse è opportuno fare qualche precisazione su questa pelosa questione del modo con cui rivolgersi al Papa.

E partiamo dalla parte conclusiva della frase in questione: «Tutti costoro, se intendono proseguire lungo questa strada, debbono almeno avere il coraggio di dichiararsi apertamente "sedevacantisti", con tutto ciò che questa decisione comporta».

La frase fa un po’ sorridere, perché è davvero risibile pensare che basti dichiararsi “sedevacantisti” per avere la licenza di turpiloquio. La cosa è offensiva, non solo per i sedevacantisti, che, seppure un po’ incavolati, sono dei cattolici per bene ed  educati, ma perfino per i comuni chierici cattolici, visto che l’Autore sembra sostenere che basti dire che il Papa non è papa, basti degradarlo per poterlo insultare a piacimento.

In verità, qui siamo al cospetto di un sottile e forse inavvertito superpapismo, virus che si è in qualche modo diffuso in ambito cattolico tradizionale da quando il cardinale Ratzinger è diventato Benedetto XVI.
Virus che fa scambiare a tante persone oneste i rimproveri al Papa, per irriverenza, insolenza, sarcasmo, amara ironia e offesa.
Se il Papa sbaglia, e la Fraternità lo dice in tutte le salse e in tutti modi e con i termini e le espressioni più diverse da 40 anni, il dovere del cattolico è di dire che sbaglia.

E il cattolico, per poter dire che il Papa sbaglia, non è obbligatorio che debba prima frequentare un corso di dizione e di galateo ecclesiastici; lo dice come può e come sa, magari esprimendosi con quella foga da uomo della strada che egli è, al pari di tutti gli altri cattolici.
Se poi accade che certuni si risentano per la foga e magari per qualche intemperanza, non sarebbe più logico che si preoccupassero della gravità dell’errore rimproverato, che mette a rischio la salvezza delle anime, piuttosto che della forma con cui tale rimprovero viene espresso?
O si deve pensare che il buon cattolico debba necessariamente fare un corso di sdoppiamento della personalità, così da poter gridare quanto sbaglia un fratello, un chierico, un monsignore, e invece solamente e flebilmente sussurrare quando sbaglia il Papa?

Questo intervento di Marco Bongi, e questo stesso nostro appunto, costituiscono la prova concreta della leggerezza e della irresponsabilità con le quali è stato deciso di attuare l’esoterica “esclusione” di Mons. Williamson dalla Fraternità.
Era del tutto prevedibile e inevitabile che certi fedeli assumessero, a tutti i costi, la difesa d’ufficio dei Superiori, se non altro perché così riescono a metabolizzare meglio il boccone amaro e indigesto che sono stati costretti ad ingoiare.
Ed era parimenti prevedibile e inevitabile che certi altri fedeli reagissero respingendo questo tentativo di forzata alimentazione malsana. Cui prodest?

Certo non giova alla Fraternità.
Certo non si serve la buona causa inducendo i fedeli a “prendere partito”, come se non avessero già le loro gatte da pelare nel combattere il muro di gomma del modernismo della neo-Chiesa conciliare.
Certo che fra qualche anno, quando si raccoglieranno i cocci di questo improvvido far volare i piatti, sul terreno si troveranno pezzi della Tradizione strappati e imbrattati di sporco.
Cui prodest?

In questa ottica, però, ci preme precisare:

- che ringraziamo l’amico Marco Bongi per questo suo intervento: esso rappresenta a suo modo un angolo di visuale esistente all’interno della Fraternità, quello stesso che fa ritenere che possa essere vero che Mons. Williamson sia stato esotericamente “escluso” per “motivi disciplinari” ancora coperti dal segreto di un’inesistente istruttoria;

- e che questo nostro intervento si è reso necessario, non tanto per controbattere quanto esposto da Marco Bongi – non abbiamo nessuna voglia si iscriverci a questa o a quella fazione, noi – quanto per rappresentare l’altro angolo di visuale anch’esso presente all’interno della Fraternità, non tenuto da una supposta sparuta minoranza “williamsoniana”, ma da una vasta maggioranza che, se prima provava una certa istintiva simpatia per il vescovo inglese senza peli sulla lingua, adesso sente rinnovarsi tale simpatia per evidenti motivi di solidarietà cattolica e di onestà intellettuale.

Per finire, ci uniamo all’invito dell’amico Marco Bongi, perché tutti, in preghiera, si chieda che i quattro vescovi della Fraternità tornino a muoversi di concerto, in maniera chiaramente complementare e in totale coerenza con la volontà di Mons. Lefebvre che scelse espressamente quattro personalità diverse che potessero rappresentare le diverse anime della Fraternità, e si chieda che insieme possano continuare ad accrescere l’opera da lui iniziata per il bene delle anime, in totale ossequio alla verità.

Seguendo il comandamento del Signore, perché il nostro parlare sia solo SI SI, NO NO, e non si trasformi mai in So So, Ni Ni.





novembre 2012

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