Guida ai naviganti

Commento a un libro del Card. Ravasi


di L. P.

Il cardinale GF Ravasi ha prodotto un altro libro: “Guida ai naviganti (le risposte della fede)”-  ed.  Mondadori 2012, repertorio di note, commenti approfondimenti e delucidazioni, e che s’aggiunge agli altri suoi tantissimi fin qui pubblicati.

L’opera si caratterizza e per l’ampia presenza di citazioni che la qualificano piuttosto erudita, e per l’escussione di numerosi autori la cui più parte rappresenta il pensiero gnostico, illuministico, quantomeno, neutro e indifferente, quel pensiero che viene convocato nel così detto “Cortile dei Gentili” gestito dallo stesso prelato  e  di cui s’è avuta dimostrazione, nella parata dell’ottobre scorso ad Assisi, per una certa qual vanitas verbosa, intellettualistica.

Lo stile e la discorsività linguistica sono eleganti e compiuti, tal che il libro si legge alquanto agevolmente ma, si sa, il cardinale – Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia – è uno dei tanti prelati e teologi usciti dalla scuola del defunto card. Carlo Maria Martini e, perciò, siffatto discepolato suggerisce al lettore cautela, attenzione e – absit injuria verbis – santo sospetto perché nelle 124 pagine di questa navigazione, molte di accertata  ortodossìa, se ne potrebbero trovare altre in cui, come scrive Virgilio “latet anguis in herba” (Ecl. III,93), si annida, cioè, il serpentello della lusinga modernista e progressista martiniana.

Ed, infatti, l’autore in diverse parti osa un’esegesi di tipo liberale, illuministica di cui potremo fare l’analisi epistemologica e teologica successivamente, perché adesso preme esaminare quanto si legge a  pag. 45 ove il cardinale traccia un cambio di rotta piuttosto rischioso. Vediamo.

Nutriti, da secoli, con il latte dell’ortodossìa e rafforzati dalla nutriente chiarezza dell’antico e pur sempre attuale Catechismo di S. Pio X, abbiamo creduto fermamente ed “ingenuamente” che, nel racconto genesiano -1, 2, 3 - fosse stata rivelata e descritta la creazione del mondo quale opera diretta di Dio. “In principio creavit Deus caelum et terram. Terra autem erat inanis et vacua, et tenebrae erant super faciem abyssi; et Spiritus Dei ferebatur super aquas” ( Gen. 1, 1/2).

Non  simbolismi esplicativi ci vennero addotti quando lo  apprendemmo, né metafore che ne cangiassero il contenuto letterale e autentico, stanti le molte testimonianze dei profeti, del salmista, degli evangelisti, dei Padri della Chiesa a garanzia della veridicità della narrazione. Era, ed è ancora, quello che affermiamo quando si professa “Credo in Dio Padre Onnipotente, Creatore del Cielo e della Terra”.

A pag. 45, dicevamo, si legge che questo racconto/verità è, diversamente, “un’apparente narrazione storica, con eventi e una trama, che hanno però un valore simbolico, filosofico/teologico, quindi sapienziale ed esistenziale”. “Si tratta – aggiunge nella stessa pagina – di un’eziologia metastorica” , cioè, di un racconto che trae origine e ragion d’essere da un mito e, perciò, metastorico che, stando all’etimo del vocabolo e all’indicativo presente del predicato nominale, vorrebbe significare che il resoconto biblico della creazione è un qualcosa che sta al di sopra e al di là dei tempi e dei luoghi, un “concetto” più che un’opera  vera e propria.

Il versante su cui inchina il pensiero ravasiano è quello junghiano degli “archetipi”, di quelle fumose astrazioni di entità o principii indistinti che stanno a capo della realtà e che odorano di “ancestralità”,  ripiego sempre buono per accreditare verità esoteriche ed occulte. Scrive, infatti: “Si risale all’archetipo – non per nulla il protagonista si chiama ha ‘adam, in ebraico “l’uomo”, e hawwah (Eva), la vivente, la madre della vita – per non narrare cosa sia accaduto nel processo di ominizzazione in senso scientifico o per scoprire gli atti di un singolo individuo primordiale, ma per identificare nella sua radice iniziale lo statuto permanente di ogni creatura”.

Premesso che mal si comprende cosa voglia significare l’ultima parte dell’enunciato – identificare lo statuto permanente di ogni creatura nella sua radice iniziale – avvertiamo che con tali sottili ed elaborate perifrasi siamo in piena area darwinista – ominizzazione quale sinonimo di evoluzionismo della specie - seppur perimetrata da litoti al congiuntivo (sia accaduto) e in piena gnosi spuria la cui nota distintiva viene espressa dall’heideggeriano concetto di Nulla primigenio che, in Jung, si trasforma nell’archetipo.

Insomma, sembra ammonire l’autore, “toglietevi dalla testa, cari cattolici di fede preconciliare, che la creazione sia un “fatto” e un “atto” divino.

E se il racconto della genesi è un mito, necessariamente il suo messaggio dovrà essere simbolico. E che questo sia il pensiero autentico del cardinale è testimoniato dalla ricognizione che, in chiave meramente simbolica, l’autore fa tanto dell’Albero della conoscenza del bene e del male quanto dello stesso Paradiso terrestre o Eden.

Insomma: ciò che lo scriba biblico ha raccontato è metasemantica. Strano, perché a leggere l’episodio, veniamo a sapere, ad esempio,  che il Signore mette a disposizione alimentare di Adamo e di Eva tutte le qualità di erbe e frutti del giardino, escludendo il famoso albero. In simile contesto – dieta vegetaliana – la presenza di un albero fruttifero, tuttavia proibito, è quanto mai logica e congrua. Perché negare che sia proprio così?

La vicenda, per come è narrata nella scrittura – non più sacra, naturalmente – è, invece,  un giro verbale  lungo e  affabulante, espressivo ed allusivo di un concetto ideato per dar spiegazione a una realtà diversamente inconoscibile. Il mito, già.

Una digressione: anche nel recente “L’infanzia di Gesù” di Benedetto XVI si afferma, relativamente alla stella che guida i Magi, che la figurazione potrebbe essere simbolica ammettendo, tuttavia, che la teoria di un allineamento dei pianeti Giove/Saturno potrebbe spiegare il fenomeno. Come si vede, il tentativo di rendere credibile, con la ragione, un evento che non sarebbe arduo considerare miracoloso. Dio, infatti, a cui nulla è impossibile (Lc. 1, 37), avrebbe forse  avuto difficoltà di inventarsi, per l’occasione della nascita del Figlio, un astro al di fuori delle immutabili rotte cosmiche?  Ché forse, a Fatima, il sole non roteò vorticosamente senza con ciò turbare le leggi di Keplero? 

Si cade nella presunzione, o nel supino condizionamento alla mentalità scientista, quando la Chiesa intende spiegare tutti i fatti soprannaturali con teorie razionalistiche. Ci provò, negli anni passati, tale  Werner Keller, protestante, autore di un saggio voluminoso “La Bibbia aveva ragione” – ed. italiana Garzanti - intendendo con ciò non tanto la realtà e la verità degli eventi soprannaturali e divini raccontati dalla Bibbia, ma la congruità di questi alla riduzione razionale e scientifica.

Tornando al cardinal Ravasi: come potremmo rispondere alle sue  suadenti e snelle parole che traggono credibilità e forza dalla cultura sua, autorevole e universalmente nota? Potremmo addurre, a sostegno della nostra apologia del dogma, numerose conferme tratte dalla inerrante Sacra Scrittura, come: Es. 20, 11 – 1 Cr. 29, 11 – Ps. 18, 1/2 - Ps. 89, 12 – Ps. 95, 5 – Ps. 115, 15 – Ps. 121, 2 – Ps. 124, 8 – Ps. - 146, 6 – Is. 37, 16 – Is. 40, 28 – Is. 45, 15/26 – Dt. 4, 39 – I Re 8, 6 – Ger. 10, 12 – Bar. 3, 32 – Am. 5, 8 – Dan. 3, 57/88 -  Zc. 12, 1,  dove i santi autori non cessano di lodare e adorare il Signore “Creatore” del mondo universo.

Potremmo citare l’ispirata dottrina del Doctor Angelicus che in S.Th. I - q. XLIV a.1/2/3/4 (De processione creaturarum a Deo, et de omnium entium prima causa), e in I - q. XCI a. 1 – (utrum corpus primi hominis sit factum de limo terrae – utrum corpus humanum sit immediate a Deo productum), afferma e dimostra, col rigore logico ed inequivoco del pensiero scolastico, la creazione quale “atto” di Dio e della Sua libera  volontà, principio della storia umana.

Potremmo, ma preferiamo servirci della testimonianza stessa di Cristo a cui nessuno, men che meno un cardinale, potrà opporre obiezioni di sorta né tanto meno sminuirne la chiarezza a favore di chissà quale simbolismo.

Il discorso di Gesù è del tipo: Si Si, No No,  ove nulla è la possibilità di sfumarne la verità. Ai farisei che Lo tentavano circa la liceità del divorzio, Egli affermò: “Non legistis quia qui fecit hominem, ab initio masculum et feminam fecit eos?” (Mt. 19, 4/5). “Non avete letto che, Colui che dal principio creò l’uomo, lo fece maschio e femmina?” Il termine greco “Ktisas” – Colui che fece - rende il concetto di “fondazione, creazione” e non v’è altra alternativa semantica, così come “ap’archès”- dal principio - ci dice che non attraverso successive metamorfosi o evoluzioni di specie, né tanto meno da una precedente creatura inferiore, Il Signore formò l’uomo, ma direttamente e dall’origine.

San Tommaso Aquinate in Summa contra gentes  Libro II – cap.XV-XVI-XVII-XVII-XIX -XX-XXI, col sostegno della logica aristotelica, esamina gli aspetti della creazione affermandola come opera diretta da Dio, causata ex nihilo, incapace a crearsi da sé, priva della capacità di movimento evolutivo ed esclusa da successione e durata.  Sarebbe, pertanto,  ora che il Magistero affermasse e sostenesse questa alta verità invece di accodarsi a far eco alle teorie più o meno evoluzioniste per tema d’esser tacciata di oscurantismo.

Forse che la scienza positiva ha saputo dare risposte circa l’origine dell’uomo? Forse che l’ipotesi darwinista – o meglio, fantasia- può offrire argomenti probanti alla sua tesi? –

Duole, e ci turba, che lo stesso, grande Pontefice Pio XII abbia alluso, nella sua Humani Generis, a tale teoria quando, pur non affermandolo categoricamente, lasciò intendere che non sarebbe stato lesivo della Scrittura e della fede credere che Dio avesse infuso l’anima immortale in una creatura preesistente ed inferiore – ex jam esistenti viventi materia – .

Ma alla luce delle parole di Cristo, Dio resta, pertanto,  il Creatore del mondo nonostante la lettura simbolista che ne dà il cardinal Ravasi o un Mancuso qualsiasi. Il quale prelato, allorché passa in rassegna la creazione di Eva, gestendo destramente etimologie iraniche, sumeriche, semitiche e greche, invece di pescare qualche opportuna riflessione dai testi dei SS. Padri, va ad estrarre dal Talmud una citazione che è indubbiamente affascinante, poetica, pedagogica e che dice: “ State attenti a far piangere una donna perché Dio conta le sue lagrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai suoi piedi perché dovesse essere calpestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere amata”.

Una elegante e delicata riflessione che, in verità, sbiadisce di fronte alla profonda esegesi che Tommaso d’Aquino, riprendendola e ampliandola,  ne fece nella sua Summa Th. ove, in I. Q. XCII a. 3 (Utrum mulier debuerit formari de costa viri) così scrive:
Respondeo dicendum quod conveniens fuit mulierem formari de costa viri. Primo quidem, ad significandum quod inter virum et mulierem debet esse socialis coniunctio. Neque enim mulier debet dominari in virum (I.Tim. 2, 12): et ideo non est formata de capite. Neque debet a viro despici, tanquam serviliter subjecta: et ideo non est formata de pedibus. Secundo, propter sacramentum. Quia de latere Christi dormientis in cruce fluxerunt sacramenta, idest sanguis et aqua, quibus est Ecclesia instituta.
[Era conveniente che la donna fosse formata con la costola dell'uomo. Primo, per indicare che tra l’uomo e la donna deve esserci un vincolo di amore. D'altra parte la donna "non deve dominare sull’uomo" (I.Tim. 2, 12) , e per questo non fu formata dalla testa. Né deve essere disprezzata dall’uomo come una schiava; perciò non fu formata dai piedi. - Secondo, per una ragione mistica: perché dal costato di Cristo dormiente sulla croce dovevano scaturire i sacramenti, sangue e acqua, con i quali sarebbe stata edificata la Chiesa]

Alla poetica del Talmud Tommaso aggiunge, completando in senso cattolico, cioè universale, una considerazione di ben più alta significanza e di ben più sublime livello intellettuale: quella di disporre analogicamente la nascita della Donna biblica alla Domina/Ecclesia uscita dal sangue e dall’acqua della ferita del costato di Cristo. Questa sarebbe stata la catechesi che avrebbe rafforzato la fede nel lettore cattolico e determinato, in quello agnostico, un forte motivo di riflessione e di meditazione.

Evidentemente, il cardinale Ravasi, anche in questa sua opera si pone in dialogo privilegiato con i non credenti del suo “Cortile”, appendice fotocopia della precedente “Cattedra dei non credenti” di martiniana istituzione e dimostra, ancora, di preferire parabole o aneddoti extracristiani così come, nell’ultima edizione del “cortile”, tenutasi in ottobre scorso ad Assisi, il suo intervento si concluse con il ragguaglio di una “parabola” tibetana che molto aveva dell’evangelico “figliol prodigo”. Evidentemente l’odore del lamaismo e dell’esotismo orientale è più soave del profumo cristiano mediterraneo. Che Dio ne ricompensi l’impegno con qualche illustre conversione.

Per concludere riportiamo, a sostegno di questa ultima nostra impressione, il riferimento che l’autore fa di  uno dei più noti gnostici  personaggi musicanti “new age” che si son piccati, sulle corde d’una chitarra, d’esser maestri in Israele e diffusori di cultura e solidarietà. Parliamo d’un menestrello, famoso per le sue ballate a tema, apologeta della prostituzione cantata ed esaltata quale servizio sociale – “bocca di rosa” -, cantautore che il cardinale porta a segno di auctoritas a pag. 99. Parliamo, cioè,  del genovese Fabrizio De André di cui si dice nel libro essere stato fine intuitore della figura del Crocifisso così come testimonia la canzone “Il testamento di Tito” ove  scrive e canta “Io nel vedere quest’uomo che muore/madre, io provo dolore./ Nella pietà che non cede al rancore/, madre, ho imparato l’amore”.
Il cardinale afferma che queste idealità sensazioni sono le stesse che scrisse Giovanni in forma teologica (Giov. 3, 16 – 4, 19), ma noi diciamo non esser  lecito farlo figurare come esegeta o zelante annunciatore di Cristo.

Sul numero speciale di “Liberal” – agosto/settembre 2007 – era riportato, quale argomento monografico, “GESU’ 2007”, a commento del “Gesù di Nazareth” I vol. di Benedetto XVI, e su cui molti personaggi, di più o meno incisivo speso specifico e di più o meno visibile connotazione cattolica, intervenivano con proprie riflessioni.

In ultima pagina, la 151, figurava, appunto, il De André con una canzone “La preghiera, l’insulto, lo sputo” ove il chitarrista diceva “ non intendo cantare la gloria. . . di chi penso non fu altri che un uomo” e “morì come tutti si muore. . . non si può dire che sia servito a molto.

Frasi dove non compaiono affatto né la fede né l’intuizione della divinità di Gesù e della sua Unità al Padre e allo Spirito Santo, cascame  di mera e banale antropologìa e religiosità di tipo bancarellaro spacciate per pensiero, di insulso contenuto e completamente estranee al premere della fede, ma ricche di presunzione e di saccenterìa. Presentare costui, secondo il parere del cardinale, come  un fine intenditore di Cristo vuol dire che, allora, S. Tommaso, S. Agostino, S. Bonaventura, S. Pio da Pietrelcina non hanno capito niente di Gesù.

Un giovane preteso teologo, saputello redattore di una rubrica “La predicozza” scrisse, tempo fa, su un foglio parrocchiale, “Venite e vedrete” – Santa Marinella  -Gennaio 2011, a pag. 6,  che “anche don Andrea Gallo (bel garofano, costui!) diceva che De André  è il 5° evangelista: a leggere e meditare le sue meravigliose poesie sembra proprio così. Con poche pennellate, in quattro parole, Faber dipinge tutto il Cristianesimo nella sua essenza”. 

Poveri Matteo, Marco, Luca e Giovanni che han prodotto quei quattro lavori, sacrificando o rischiando la vita! Averlo saputo, che un chitarraiolo, neopagano, intriso di pseudoreligiosità ad uso canzonette, sarebbe stato capace di parlarci di Gesù in poche righe e in forma  ballata, si sarebbero astenuti da quella improba fatica di raccontarci vita e miracoli di Cristo. 

Povero Paolo, apostolo delle genti, a zonzo per il mondo! potevi risparmiarti di scrivere ed inviare le tue lettere a ebrei, romani, filippesi e a tanti altri. Avresti evitato Roma e Nerone, non saresti passato dalla via Ostiense, verso le “tre fontane”! Sarebbe stato sufficiente un motivetto ritmato su qualche cetra, e non avresti perso la vita per la fede! Ma la giustizia di Dio e il tempo, suo servitore, provvederanno a far quadrare i conti.

Che cosa, infine, si può dire? Che dal libro emerge una vasta erudizione ben collegata e funzionale all’espressione del pensiero e che l’autore dosa pagina per pagina con sapiente sintassi e stile, che la rotta della navigazione non è particolarmente ben disegnata, spesso in ritardo sul ruolino di marcia, spesso in senso  di bolina o talora  in panne  di bonaccia. E crediamo, soprattutto, che la sproporzione tra autori “laici” presenti in forte maggioranza rispetto ai Santi Padri e ai Dottori – San Tommaso Aquinate è citato una sola volta a pag. 41 – non deponga a favore dello scopo che l’autore si è prefisso, quello cioè di fornire, attraverso una navigazione sul pelago della vita,  le risposte della fede dacché non potranno essere un Kafka, un Borges, un Nietzsche, un Hegel padre del nichilismo, un Kierkegaard citato 6 volte, un Kant, un Cavour massone grassatore, usurpatore dei diritti della Chiesa e del famoso enunciato “Libera Chiesa in libero Stato” di proprietà di C. F. de Montalembert, in grado di dare esaurienti e definitive risposte ai grandi interrogativi dell’esistenza. Essi possono soltanto sollecitare qualche interrogativo, ma il cristiano cattolico, afferma autorevolmente Romano Amerio, non deve coltivare o avere dubbi su Colui che è Via - Verità – Vita,  come pare sia in voga oggi nella ricerca teologica predicata dal defunto cardinal Carlo Maria Martini - come ben si legge in “Siamo nella stessa barca” – ed. San Raffaele 2009 – dialogo con don Verzè - dove, a pag. 28, il prelato si compiace di citare una frase di Norberto Bobbio – quella che l’ha indotto a fondare la nefasta “Cattedra dei non credenti” – secondo il quale “quello che mi interessa è la differenza tra pensanti e non pensanti. Voglio che tutti voi siate pensanti. Poi ascolteremo le ragioni di chi  non crede e quelle di chi crede”.

Non è difficile contrastare siffatta alterigia cartesiana con il comando con cui Gesù (Mc. 16, 15/16/) ordinò di andare nel mondo a diffondere il Vangelo concludendo che “chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato” e non “chi pensa sarà salvo e chi non  pensa sarà condannato”.

Non avere o coltivar dubbi: questo è lo stile, la fede del cristiano cattolico il quale - continua sempre Amerio - può certamente incontrare difficoltà a comprendere il mistero della profondità del dogma, ma mai mettere in dubbio la Parola di Dio.

Ma che cosa avviene quando il dubbio è predicato addirittura dal Magistero?
Uno degli argomenti base della rivolta luterana fu, proprio, il diritto al dubbio e il richiamo alla coscienza. Nella dieta di Worms del 1521, il monaco apostata così rispose all’imperatore Carlo V : “Non posso e non voglio ritrattare nulla perché non è giusto né salutare andare contro coscienza.
Che cosa differenzia questa pretesa soggettiva dall’affermazione di  Giovanni Paolo II con cui difese il diritto della coscienza  col dire che: “la libertà religiosa costituisce il cuore stesso del diritto umano. Essa è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia garantita la libertà persino di cambiare religione se la coscienza lo domanda” (Messaggio per la Giornata della Pace 1999)?

E’ la teologia del dubbio, replicata dal regnante pontefice Benedetto XVI che l’ha sostenuta il 27 ottobre 2011 nell’ulteriore e blasfemo raduno interreligioso di Assisi.

Oremus pro Ecclesia ne noceant ei peccata hominum ejus.




gennaio 2013

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