IL SEGRETO DELLA CONOSCENZA

Vi sono due modi di conoscere: il segreto è unirli

di Francesco Lamendola

Pubblicato sul sito Accademia Nuova Italia







Ci sono due modi di conoscere la realtà: razionale/discorsivo e intuivo/affettivo. Il primo è proprio della matematica e della filosofia; il secondo è proprio della poesia, dell’arte e della religione.
Non vi è una superiorità intrinseca dell’uno rispetto all’altro, tanto più che non bisogna considerarli in opposizione reciproca, bensì complementari, come avviene, per esempio, nella musica, in cui sono entrambi presenti ed entrambi necessari: il fatto tecnico e razionale e l’elemento poetico e spirituale.
Vi è tuttavia una superiorità del secondo rispetto al primo quanto all’oggetto: perché è col secondo che si giunge alla contemplazione della realtà ultima, ed è il secondo che sostiene il primo, allorché si pone alla ricerca della realtà ultima. La teologia integra la filosofia e la fede integra la teologia, completando il cammino verso la conoscenza delle realtà superiori.
La scienza invece, e sia detto senza alcuna sfumatura di disprezzo, si occupa delle realtà inferiori, vale a dire delle realtà del mondo fisico; mentre la tecnica, compresa la tecnica medica, si pone un gradino ancora più in basso (sempre in senso metaforico e niente affatto dispregiativo), perché si occupa di applicare in maniera empirica le verità individuate dal metodo scientifico.





Vi sono due modi di conoscere: “il segreto è unirli” !


Da ciò si comprende quale completo capovolgimento di valori e quale stravolgimento della giusta prospettiva si verifichi in una situazione in cui la scienza, e ancor più la medicina, pretendono di decidere tutta la linea da adottare in presenza di una minaccia, vera o supposta, individuata nei confronti dell’umanità dagli scienziati, o meglio da una parte di essi (una parte stranamente caratterizzata da un plateale conflitto d’interessi, in quanto tenuta a libro paga dalle grandi case farmaceutiche) e dai tecnici (o una parte di essi), laddove le decisioni complessive riguardanti l’insieme della vita sociale dovrebbero spettare evidentemente a chi guarda alle cose dal punto di vista delle realtà superiori. Prima infatti viene il bene - sia a livello sociale che a livello individuale - considerato nell’ordine spirituale, poi quello presente nell’ordine materiale: e non viceversa, come sta accadendo in questi lunghi mesi di pretesa pandemia e di supposta emergenza sanitaria, il tutto secondo la decisione insindacabile dei “tecnici” e nel silenzio assordante dei politici, ridotti a fare da passacarte, nonostante la politica sia, in quanto scienza del bene comune, un ramo della filosofia e dunque avrebbe diritto a far pesare primariamente le proprie decisioni (in realtà sappiamo bene che le decisioni vere non le prendono né i politici, né gli scienziati, né i medici, ma il grande potere finanziario, che ormai li controlla tutti come cagnolini ammaestrati).




Per giungere alla “vera conoscenza” che ha per oggetto Dio “causa prima e finale di tutto” si deve percorrere sia la via logica e razionale, sia quella intuitiva e affettiva!

Dunque, due modi di conoscere. Questo significa che esistono due realtà, una che viene rivelata dalla ragione e un’altra che ci si offre per mezzo dell’intuizione mistica, poetica, spirituale? Niente affatto: la realtà è una, e quindi anche la verità è una; cambia la prospettiva da cui la si guarda, ma non cambia la sua essenza, che è unitaria e immutabile.
Del modo di conoscenza razionale abbiamo parlato più volte, specialmente trattando l’approccio filosofico di san Tommaso d’Aquino, che a nostro giudizio, e ovviamente non solo nostro, rappresenta un perfetto esempio di rigore intellettuale che nulla concede a ipotesi non dimostrate o a speculazioni generiche, fantasiose e puramente soggettive.
Ora ci soffermeremo brevemente sull’altro modo di conoscenza, quello intuitivo/affettivo; e, per prima cosa, diremo che non vi è alcuna contraddizione fra l’oggettività del metodo logico-matematico e l’apparente soggettività di quello poetico e spirituale. Infatti, è vero che quest’ultimo si manifesta in maniera soggettiva ai singoli individui, mentre l’altro parla un linguaggio totalmente oggettivo (due più due fa sempre quattro, e una mela è e resta sempre una mela, non un’arancia o un pomodoro); tuttavia, a ben riflettere, il linguaggio della poesia, dell’arte e della spiritualità è ancora più universale di quello della matematica e della logica, perché va dritto al cuore delle persone e si rivela con una tale chiarezza da superare d’un balzo ogni barriera di lingua, di tempo, di luogo, di cotesto storico. Un capolavoro di Piero della Francesca o una fuga di Bach parlano una lingua che è universalmente intesa da tutti, ma proprio tutti (anche se la fruizione, e quindi l’intimo godimento, sono proporzionati al grado di conoscenza specifica di quei linguaggi sotto il profilo tecnico), mentre il discorso logico-razionale incontra ostacoli nel fatto che sia delle singole persone (e specificamente i bambini), sia intere culture, possono risultare impermeabili ai suoi presupposti, e quindi insensibili alla sua forza di persuasione.

Prendiamo, a titolo d’esempio, l’incipit di uno dei più soavi e delicati racconti giovanili di Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche (Belye Noči, 1848, nella traduzione di Elsa Mastrocicco, insieme a Il giocatore, Milano, Fabbri, 1991, p. 15):
Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani, mio caro lettore. Il cielo era così stellato, così luminoso che, guardandolo, ci si chiedeva istintivamente: è mai possibile che sotto un simile cielo vivano uomini collerici e capricciosi? Anche questa, caro lettore, è una domanda da giovani, molto da giovani… Voglia Iddio farla nascere spesso nell’animo vostro…




Fëdor Dostoevskij


Benché Dostoevskij, quando scrisse questa pagina, fosse un giovane di soli ventisei anni e fosse ancora ben lontano dalla sua prodigiosa maturità artistica e filosofica, che ne avrebbe fatto il massimo scrittore russo – insieme a Tolstoj – del XIX secolo, qui già si sente, fin dal primo periodo, fin dal primo rigo, il soffio possente del genio  letterario e una prodigiosa capacità intuitiva e di penetrazione psicologica.
Le notti sono meravigliose non solo quando il cielo è particolarmente limpido e trapunto di stelle, ma quando si è giovani: questa è una scoperta straordinaria, superiore a ogni elogio: la bellezza non è solo nelle cose, ma nell’occhio che le guarda.
E l’occhio che guarda le cose con stupore, con meraviglia, come fanno i bambini e, a volte, i giovani (il protagonista, che è l’io narrante del racconto, è appunto un giovane sognatore), possiede la capacità di afferrarle in tutta la loro misteriosa essenza, di penetrare la cosa in sé, andando ben oltre il fenomeno, ossia l’apparenza. Quel bambino, quel giovane, una volta divenuti adulti non vedranno mai più delle notti così meravigliose: questo almeno è ciò che accade alla maggioranza delle persone; crescendo, subentra in esse il disincanto del mondo, e le cose riacquistano i colori opachi e le forme banali della realtà prosaica di tutti i giorni.
La seconda intuizione geniale di Dostoevskij è che esiste un legame essenziale, benché misterioso, fra la bontà e la bellezza: la bellezza si manifesta ai buoni, mentre le persone colleriche e capricciose restano insensibili ad essa. Non la vedono affatto: e, non vedendola, non ne subiscono i benefici effetti.
Ciò è particolarmente evidente nel caso della musica. Un vecchio accordatore di pianoforti ci disse una volta che le persone amanti della musica sono quasi sempre di animo buono (e non parliamo, evidentemente, di ciò che musica non è, come il rock satanico et similia).
Hans Frank, soprannominato “il boia della Polonia”, durante il processo di Norimberga confidò allo psicologo americano che vistava i prigionieri nazisti di aver compreso i propri errori e di dover pagarne il prezzo ben prima del processo, ascoltando ; una voce interiore gli aveva detto: e tu vorresti presentarti davanti all’Onnipotente macchiato di simili colpe?
Ma allora, potrebbe chiedere qualcuno, se la bellezza non è nelle cose, ma nello sguardo che le coglie, hanno ragione Cartesio, Kant, e tutti gli antimetafisici: ciò vuol dire che la realtà è quella che noi percepiamo, e nulla si può dire della realtà in sé. Se questo fosse vero, allora ne deriverebbe che la forma di conoscenza intuitiva è soggettiva, se non addirittura illusoria; uno può vedere bella una cosa che in realtà è brutta, e viceversa: solo il conoscere logico-razionale ci darebbe una vera nozione del reale.




Per cogliere la bellezza, è necessario che vi sia un’anima che si pone sulla lunghezza d’onda del bello!

Rispondiamo che la conclusione, in questo ragionamento, è maggiore della premessa. Noi non abbiamo detto che la bellezza non sia nella cosa, ma che non sia solamente in essa; per coglierla, per apprezzarla, per goderne, bisogna possedere un particolare orientamento dell’animo e una particolare sensibilità spirituale.
Le cose in se stesse, quelle animate e quelle inanimate, sono belle, perché sono perfettamente adeguate ciascuna al proprio fine: un fiore per l’impollinazione, una nuvola per la pioggia, un’alba per irradiare la luce. Ma per coglierne la bellezza, è necessario che vi sia un’anima che si pone sulla lunghezza d’onda del bello.
Ora, abbiamo detto che vi è un legame essenziale fra la bellezza e la bontà: dunque la condizione primaria per cogliere la bellezza delle cose è un animo puro, sgombro da vizi e gravi colpe, come quello dei fanciulli. Chi possiede un tale animo, non offuscato, né appesantito dalle passioni disordinate, ma libero e aperto davanti al mistero dell’essere, coglie tale bellezza e ne gode intensamente, come nel caso di San Francesco che parla agli animali, ammira il sole, la luna, il fuoco e l’acqua, e ammansisce perfino un lupo feroce (sì, cari signori razionalisti: noi prendiamo il racconto del lupo di Gubbio sul serio, cioè alla lettera, e non metaforicamente, come voi fate; del resto è provato che altri grandi santi, come Serafino di Russia con gli orsi, possedevano la capacità di ammansire le bestie feroci).

Perché i bambini sono affascinati dalle storie, dalle fiabe, da qualsiasi racconto? Perché il loro animo è sgombro dalla pesantezza dell’ego che sempre vuole e brama e teme qualcosa; è come un foglio bianco, e il bambino si cala nelle storie che gli vengono raccontate, vi s’immerge senza residui, le vive, proprio come fa quando si abbandona al gioco, e in quel momento non vive nella realtà ordinaria, ma nel tempo e nel luogo che il suo gioco richiede.
E, a proposito: qualcuno si è chiesto perché la maggior parte delle apparizioni mariane ha per protagonisti dei fanciulli, preferibilmente dei fanciulli incolti e abituati alla vita all’aria aperta, a contatto con la natura? A Lourdes, a La Salette, a Fatima, ma anche a Ghiaie di Bonate e in molti altri casi, lo schema è sempre questo: dei bambini di campagna, provenienti da famiglie rurali, vedono ciò che agli adulti rimane nascosto; da dove proviene un tale privilegio, se non dal fatto che il loro animo è puro, sgombro di malizia e pieno di stupore?




Perché i bambini sono affascinati dalle storie, dalle fiabe, da qualsiasi racconto? Perché il loro animo è sgombro dalla pesantezza dell’ego che sempre vuole e brama e teme qualcosa!


Ricapitolando. Vi sono due modi per conoscere la realtà: quello logico e discorsivo, che procede una tappa dopo l’altra, un ragionamento dopo l’altro, esaminando le obiezioni e confutandole una per una; e quello intuitivo e affettivo, che l’afferra in un solo colpo d’occhio, e che è reso possibile da una particolare disposizione dell’animo, mentre nel primo caso chiunque può impegnarsi, seguendo i criteri della logica (principio d’identità, principio di non contraddizione, ecc.) che sono validi per tutti, universali e necessari.
La sola via logica e razionale ha tuttavia un limite: non sa cogliere, di per sé, la bellezza; mentre la bellezza è una componente essenziale della realtà. Il mondo esiste perché è bello: se non fosse bello, non esisterebbe. Quasi tutti i filosofi moderni e perfino molti poeti e artisti moderni sono fortemente pessimisti perché, imbevuti di materialismo e ateismo, non sanno vedere la bellezza che c’è nel modo; e non vedendola, credono che non ci sia. Ma il problema è nel loro occhio, non nelle cose. Il loro occhio è torbido e miope, perché non sa cogliere il presupposto di ogni vera conoscenza, che è l’amore. Essi odiano il mondo perché odiano la vita; anche quando, a parole, esaltano oltre misura le magnifiche capacità dell’uomo, il suo potere di auto-determinarsi, sono divorati interiormente da una costante angoscia, da una tristezza infinita: pensano che non ci sia speranza, che la morte sia l’ultima parola di ogni cosa e quindi che la realtà sia assurda e il mondo, un luogo ostile e incomprensibile, dunque brutto per definizione.
Il caso di Leopardi è un po’ diverso: egli sapeva vedere la bellezza, ma la sua prospettiva filosofica era stata intossicata dal veleno della cultura illuminista: fra lui e la realtà si frapponeva, come accade a moltissime persone comuni, che non praticano né la filosofia, né la poesia, il diaframma opaco di un razionalismo nichilista, scettico e distruttivo.
In questo senso abbiamo detto più volte che la modernità è la malattia: gli uomini moderni sono malati perché hanno introiettato una percezione malata del mondo. Non vedono la bellezza, così come non comprendono la bontà: pensano che la bontà e la bellezza siano dei lussi inutili e che vive meglio chi se ne sbarazza, badando unicamente al proprio interesse pratico.

Concludendo. Per giungere alla vera conoscenza, si deve percorrere sia la via logica e razionale, sia quella intuitiva e affettiva. La vera conoscenza ha per oggetto Dio, causa prima e causa finale di tutto ciò che esiste.
San Tommaso d’Aquino, quando non riusciva a trovare la soluzione di un problema filosofico, scendeva in chiesa e pregava intensamente, abbracciando il tabernacolo e supplicando Dio d’illuminarlo: perfetta sintesi del giusto atteggiamento di colui che desidera conoscere. E non basta chiedere: bisogna anche avere l’animo sgombro dal vizio, perché le passioni impediscono di porsi nella giusta prospettiva e nascondono la bellezza. Quando l’anima è in grazia di Dio, si trova in un atteggiamento di apertura, trasparenza, stupore e gratitudine, e il mondo si svela in tutto il suo splendore. Il mondo è bellissimo, perché scaturito dalla somma Sapienza e dal sommo Amore, che vi hanno trasfuso la propria magnificenza. Come dice Dante: Colui che move il sole e l’altre stelle...




aprile 2021
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