Per una vera compassione


di Don Jean-Michel Gleize, FSSPX

Pubblicato sul sito francese della Fraternità San Pio X: La Porte Latine

 
La situazione dei riti di San Pio V e di Paolo VI è quella che descrive il recente Motu proprio Traditionis custodes: una coabitazione impossibile, sul piano stesso dei principii liturgici.

1. Con il recente Motu proprio Traditionis custodes del 16 luglio, Papa Francesco stabilisce che «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovani Paolo II, conformemente ai decreti del Concilio Vaticano II, sono la sola espressione della lex orandi del Rito romano» (1).

2. Da parte dei movimenti Ecclesia Dei, le diverse reazioni non si son fatte attendere. Senza dubbio, la situazione di tutti quelli che, legati alla liturgia tradizionale, non hanno voluto seguire Mons. Lefebvre e la Fraternità San Pio X in un supposto «scisma» o almeno in una altrettanto supposta «disobbedienza», rischia di diventare problematica. Questo apparirà senza dubbio - e di fatto rimane - molto penoso, agli occhi di tutti coloro la cui considerazione si ferma al bene personale dei membri del detto movimento - o almeno alle immediate conseguenze pratiche. L’esempio del Superiore del Distretto di Francia della Fraternità di San Pietro è caratteristico a questo proposito, quando vede nel Motu proprio di Papa Francesco un testo «offensivo», che ripaga male gli sforzi di «obbedienza» dispiegati fino ad ora, arrivando a dire che «la Fraternità di San Pio X è in definitiva trattata meglio di noi».

3. Per quanto appaia desolante nei suoi effetti e penalizzante per le persone, l’iniziativa del Papa non è tuttavia sorprendente. Essa è perfino logica. E ci si può chiedere se essa non fosse ineluttabile. Poiché la situazione dei due riti, quello di San Pio V e di Paolo VI, è esattamente quella che descrive il recente Motu proprio Traditionis custodes: situazione di una coabitazione impossibile, sul piano stesso dei principii liturgici. Al di là delle situazioni di fatto e dello stato infinitamente variabile, pacifico o conflittuale, che riguardano le persone, vi è fondamentalmente una opposizione formale di dottrina tra la Messa di San Pio V e il nuovo rito di Paolo VI. Poiché la liturgia è un luogo teologico (2). Il divario che oppone le due liturgie corrisponde ad un abisso che separa due concezioni della Chiesa e della fede. D’altronde, si può misurare l’estensione di questo divario vedendo con quale forza la maggior parte degli episcopati, consci della loro adesione al Vaticano II, si sono opposti all’iniziativa del Motu proprio Summorum pontificum: anche se il rito tradizionale della Chiesa non è stato considerato, da Benedetto XVI, per escludere il nuovo rito, la sua espansione è stata spesso fraintesa. E questo perché, al di là di una non-esclusione puramente giuridica, tra le due liturgie rimarrà sempre un’incompatibilità e un’esclusione dottrinale. Le buone intenzioni di un Papa conservatore, come Benedetto XVI, sono simili a quelle di un liberale: entrambi coltivano l’illusione di dare lo stesso diritto di cittadinanza alla verità e all’errore. Ma le intenzioni di un Papa d’avanguardia, com’è Francesco, sono di tutt’altra portata: nella sua concezione, la sola ed unica espressione della lex orandi può essere solo il Novus Ordo Missae, con l’esclusione della Messa tradizionale. E in questo, Francesco è molto più logico di Benedetto XVI, secondo l’adagio che è la legge del credere che sta a fondamento della legge della preghiera: lex orandi, lex credendi. Se la nuova credenza è quella del concilio Vaticano II, la nuova liturgia che le deve corrispondere può essere solo quella della nuova Messa di Paolo VI, e non quella della Messa antica, che è l’espressione di una dottrina opposta su più di un punto a quella del Vaticano II.

4. Questo significa chiaramente – tra le altre conseguenze – che la Messa tradizionale non potrebbe essere oggetto – né per un vero cattolico legato alla Tradizione, né per un vero conciliare legato al Vaticano II – di una preferenza personale o di una scelta motivata da una sensibilità teologica o estetica particolare. Non si «preferisce» la Messa tradizionale alla nuova Messa, come se la nuova Messa fosse solo meno buona o meno piacevole. Infatti, il rito tradizionale della Messa è l’espressione completa e necessaria della fede della Chiesa, in contrapposizione al nuovo rito che (nelle parole dello stesso Breve esame critico) se ne discosta in modo impressionante sia nell’insieme che nei dettagli.
Il rito tradizionale si impone all’adesione di ogni cattolico, il quale non può accontentarsi di vederlo come oggetto di una preferenza personale, per ragioni che sarebbero estrinseche alla professione della fede cattolica, e che non escluderebbero la legittimità e la bontà intrinseca del nuovo rito di Paolo VI.

5. E’ innegabile che, col Motu proprio del 7 luglio 2007, Benedetto XVI ha voluto concedere la possibilità di celebrare l’antica liturgia, e che tale concessione era senza precedenti dal 1969. Ma questo Papa, dal momento che era solo un conservatore, non è arrivato a fare del rito tradizionale l’espressione necessaria, ordinaria e comune, della legge della preghiera; l’espressione ordinaria di questa legge è rimasta quella del Novus Ordo Missae di Paolo VI. Benedetto XVI ha voluto solo che per la stessa «lex orandi» vi fossero due espressioni, di cui l’una (quella della Messa di San Pio V) fosse straordinaria, rispetto all’altra (quella della nuova Messa di Paolo VI). Dunque, Benedetto XVI ha introdotto nella liturgia della Chiesa l’impossibile dualismo di un bi-ritualismo, dualismo impossibile al livello stesso dei principii della liturgia, ed è per questo che il suo Motu proprio fu in sostanza solo l’atto di un impossibile ed illusorio liberalismo, che non poteva accontentare né la Fraternità San Pio X né il sostenitori del Vaticano II entrambi legati ai loro principii. I conservatori di diverse tendenze, e fra questi i componenti del movimento Ecclesia Dei, vi hanno visto il mezzo provvidenziale di conciliare il loro attaccamento alla liturgia di San Pio V e la loro sottomissione agli insegnamenti del concilio Vaticano II. Ma ecco che la recente iniziativa di Francesco ricorda loro che questa situazione instabile è stata resa possibile solo grazie all’iniziativa personale e in definitiva strategica di un Papa conservatore.

6. Di fronte a tutto ciò, il cattolico degno di questo nome dovrebbe provare una vera compassione: compassione vera, che non è solo rattristata dal fatto che la possibilità per questi conservatori di celebrare la liturgia di San Pio V è seriamente minacciata, ma che è molto più rattristata dalla mortale illusione in cui questi cattolici rischiano di essere intrappolati, quella di credere nella possibilità di conciliare la vecchia liturgia con l’adesione al Concilio Vaticano II - o con una supposta «obbedienza» alla gerarchia attuale. A tutti loro, è importante chiarire soprattutto che con tutta la carità pastorale che deve animarla, la Fraternità San Pio X, più che la Messa di San Pio V, non può rappresentare nello stato attuale della Chiesa un’opzione per difetto - o una preferenza opportuna e provvisoria.

7. L’iniziativa di Francesco dovrebbe quindi aprire i nostri occhi, e non solo i nostri cuori.


NOTE

1 – Articolo 1.
2 - Cfr. quanto scriveva dom Jean-Pierre Longeat poco prima della pubblicazione del Motu proprio di Benedetto XVI, «L’Unité de la liturgie romaine en question» sul giornale La Croix di lunedì 23 ottobre 2006, p. 25: «L’Ordo missae del 1969 attua in particolare la teologia della costituzione dogmatica sulla Chiesa. La Lumen gentium presenta la Chiesa sia come Corpo Mistico di Cristo sia come Popolo di Dio riunito nel nome di Cristo. [...] Voler incoraggiare nella Chiesa latina un ritorno ad un’altra enfasi teologica con l’estensione dell’Ordo 1962 significa generare un disturbo molto profondo nel popolo di Dio».
 



luglio 2021

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