DIO IN INTERIORE HOMINE ?

Se Dio sta in interiore homine, è una mia creazione?

di Francesco Lamendola

Pubblicato sul sito Accademia Nuova Italia






Molti credenti hanno una certa familiarità con il concetto che Dio, nella preghiera, nella meditazione, si rivela dentro di loro e non fuori, chissà dove: che Egli è in interiore homine, per usare l’espressione che Sant’Agostino adopera parlando della verità. Ma la Verità è la stessa cosa di Dio, è una delle facce di Dio: dunque, è corretto parlare di Dio come di Colui che si rivela all’uomo nel profondo della sua coscienza. Di tale consapevolezza, sempre Agostino la descrive come intimior intimo meo (a volte si trova anche la formula equivalente interior intimo meo) Dio è più vicino a me, è nel profondo di me, più intimo a me di qualsiasi altra cosa, perfino più di me stesso. E il grande Santo vi aggiunge anche l’espressione superior summo meo, al di sopra di me e anche al di sopra delle mia parte più elevata. Tu autem eras intimior intimo meo e superior summo meo (Confessiones, 3,6,11), per indicare il mistero che vede Dio egualmente presente nelle due opposte direzioni, entrambe verticali: l’una vertiginosamente nel profondo e l’altra vertiginosamente verso l’alto.




Se Dio sta in interiore homine, è una mia creazione?


Tutto questo è noto e molte persone vi riflettono e trovano che ciò, dal punto di vista della fede, sia piuttosto chiaro e naturale; eppure, seguendo una logica rigorosa, qualche problemino c’è, o ci potrebbe essere.
Se Dio è dentro di me, se si identifica con un mio stato di coscienza, se lo trovo nella preghiera e non nel mondo, allora non si corre il rischio di farne tutt’uno con se stessi, di identificarlo con la propria anima, insomma di ridurlo a una proiezione della propria mente?
Certo, il rischio non è nella concezione di Sant’Agostimo, il quale afferma che Dio è sia nel più profondo di me, sia al di sopra di me: e se è al di sopra, evidentemente non può ridursi ad una mia esperienza interiore e soggettiva. Ma se si toglie la seconda similitudine e ci si limita alla prima, il rischio c’è. Ma è un rischio reale, o si tratta di una semplice ambiguità del linguaggio?
Dicendo che Dio è dentro di noi, stiamo soggettivizzando il concetto di Dio o stiamo solo facendo uso di una metafora poetica, finalizzata a supplire l’insufficienza delle parole per esprimere un’esperienza che è, a rigore, indicibile, quella del contratto con Dio?
Tutte le esperienze mistiche sono intraducibili a parole: eccedono l’esperienza ordinaria e perciò non trovano le parole corrispondenti nel linguaggio ordinario. Dice Dante, cercando di descrivere l’esperienza mistica suprema, ossia la visione di Dio (Par. XXXIII, 55-57): Da quinci innanzi il mio veder fu maggio / che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, / e cede la memoria a tanto oltraggio.




Sant’Agostino


Di fatto, leggendo le opere dei mistici si ha spesso l’impressione che essi, cercando di descrivere le loro esperienze spirituali, parlino in maniera difforme dalla sana teologia, secondo la quale vi è una netta distinzione fra il Creatore e le creature; tuttavia bisogna tener conto del fattore linguistico ora menzionato, sicché non bisogna fermarsi al significato letterale delle espressioni. Quando un mistico dice d’aver trovato, e perfino contemplato, Iddio nell’intimo della propria anima, dice una cosa poeticamente vera, verissima, ma che non va presa alla lettera sul piano teologico, perché Dio non è in questo o quel luogo, né fisico né psicologico, ma in un altrove che pervade tutto e sostiene tutto: è presente nel mondo con la sovrabbondanza della sua grazia e alimenta le sorgenti più profonde dell’anima umana, però non si identifica né col mondo, nel qual caso si tratterebbe di una visione panteista, né con l’anima umana, nel qual caso sarebbe una fede immanentista e per così dire soggettivista.
Inoltre non bisogna mai scordare che un conto è fare l’esperienza di una certa cosa, e un altro è identificare quell’esperienza con la cosa stessa. Vedere lo scorrere di un fiume o sentire il profumo di un bosco non significa che il fiume e il bosco sono  una cosa sola con l’esperienza sensoriale che noi facciamo di essi: l’esperienza sensoriale è un dato che ci rivela l’esistenza di un qualcosa che noi possiamo, sì, cogliere con la vista, l’olfatto, ecc., ma non è la vista o l’olfatto, e neppure è nella vista o nell’olfatto. La vista, l’olfatto e gli altri sensi ce ne rivelano l’esistenza, ma tale esistenza è indipendente da essi. Con buona pace di George Berkeley, per il quale dire che io vedo il fiume o respiro il profumo del bosco è una cosa sola con l’esistenza del fiume e del bosco: quasi che il fiume e il bosco cessassero di esistere se io smetto di percepirli, chiudo gli occhi e schiaccio un bel pisolino; per poi ricomparire dal nulla nel momento in cui mi sveglio, riapro gli occhi e torno ad inspirare coscientemente.

Scriveva il sacerdote Ignazio Lepp (1909-1966), psicologo convertito alla fede dopo una giovinezza marxista, e fautore della psico-sintesi contrapposta alla psico-analisi freudiana, in Luci e tenebre dell’anima (titolo originale: Clartés et ténèbres de l’ame, Paris, Aubier, 1958; traduzione dal francese delle Benedettine di Rignano sull’Arno, Roma, Edizioni Paoline, 1959, pp. 305-307):
Nel capitolo consacrato all’anima malata abbiamo visto che il nevrotico è caratterizzato, fra l’altro, dalla fissazione ad uno stadio infantile del suo sviluppo affettivo: vive nel passato ed ha paura dell’avvenire.

Dal punto di vista psicologico, il gran merito del cristianesimo consiste nell’aver collocato nell’avvenire l’ideale verso il quale gli uomini devono tendere. Il paradiso terrestre è uno stato completamente superato, a cui non si fa ritorno. Il paradiso, un paradiso incomparabilmente superiore al primo, è nell’avvenire ed è verso di questi che bisogna tendere.  Senza dubbio, è stato sotto l’influsso dell’escatologia cristiana che i popoli cristiani, più di tutti gli altri, si sono impegnati nelle vie del progresso. La religione cristiana non è una religione di nostalgia, ma di speranza.

I teologi razionalisti hanno rimproverato spesso ai mistici l’immanentismo della loro fede. Effettivamente, se ci si ferma, ad esempio, ad alcune espressioni del Maestro Eckart, si potrebbe pensare che per lui Dio non si distingue quasi dall’anima o per lo meno che ne dipenda radicalmente. «Dio nasce nell’anima»; «L’anima nasce in Dio»; «Che Dio sia Dio, io ne sono una causa»; «Dio trae l’essere dall’anima»; «Dio diviene e passa», ecc.

Queste espressioni e molte altre inducono a stabilire un parallelismo stretto tra il Dio del grande mistico renano e quello di Angelo Silesio, vero panteista, che nel suo celebre poema si esprime così:
«Io so che senza di me / Dio non può viver un solo istante,
Se io dovessi sparire, Egli dovrebbe, necessariamente render l’anima».

Inoltre si potrebbero trovare espressioni altrettanto “immanentiste” anche in S. Giovanni della Croce.

Tuttavia Jung ha torto quando deduce da tutto questo che per Maestro Eckart e per gli altri mistici, Dio non è in fondo che «uno stato psicodinamico», una funzione dell’inconscio. Più semplicemente, i mistici cercano di esprimere in un linguaggio poetico l’intimità tra Dio e l’uomo. Dal punto di vista della teologia razionale, essi possono apparire non completamene ortodossi; eppure basta riflettere senza apriorismi e riferendosi agli scritti rivelati, per accorgersi che la poesia dei mistici è infinitamente più vicina alla verità di quanto non lo sia una certa teologia, che considera i rapporto tra Dio e l’uomo alla stregua di quelli che esistono tra l’orologiaio e l’orologio!...

Per essere in grado di vivere cristianamente e perché la fede vivifichi l’anima nostra, non basta sapere, al puro stato cerebrale senza alcun rapporto con la nostra condotta, che Dio esiste, che ci ha creati e che un giorno ci giudicherà. Se non ci fosse altro che questa astratta nozione, è probabile che molti sottoscriverebbero la celebre frase di Lenin: «Se Dio esistesse, sarebbe una ragione di più per combatterlo!».

Bisogna sapere che Dio è nella parte più profonda dell’anima nostra – “intimior intimo meo”, diceva S. Agostino - perché Egli ci appare essenzialmente indispensabile. Una volta fabbricato, l’orologio può far a meno dell’orologiaio, mentre l’uomo cadrebbe nel nulla non appena la mano di Dio, sia pure per un istante, non lo sostenesse più.

Dio è, per riprender la formula di S. Agostino, “intimior intimo meo” proprio perché, nello stesso tempo, “superior summo meo”, in quanto trascende infinitamente, l’anima e tutte le sue funzioni.

Sempre da un punto di vista puramente psicologico, la svalutazione e la rimozione di una funzione tanto importante come quella che la religione assolve nell’anima, ha le conseguenze più nefaste tanto per gli individui come per le collettività. Chi può dimenticare che l’ateismo propagandato dal “secolo dei lumi” ha dato origine al Terrore durante la Rivoluzione francese? Sarebbe solo per caso che, al trionfo del razionalismo del secolo XIX, sono seguiti gli orrori dei campi di sterminio nazisti, quelli della dittatura comunista e della bomba atomica?




San Tommaso d’Aquino


Dunque, non c’è alcuna contraddizione fra quel che prova il mistico, ossia che l’esperienza di Dio si fa nel più profondo della coscienza, e quel che dice il teologo, che Dio è puro spirito ovunque diffuso, il quale tuttavia non s’identifica in questo o quel luogo, neppure con l’universo nel suo insieme, e tanto meno con la coscienza individuale. Semmai si può ipotizzare che il mistico, avendo abbandonato il proprio io e quindi anche l’attaccamento alla propria coscienza, che lo fa identificare con essa – sembra un paradosso, ma è proprio così – giunge a percepire una coscienza molto più vasta, universale, nella quale non ci sono più chiare distinzioni fra l’io e il tu, fra la mia percezione e il tutto, e che in tale “coscienza espansa” o “allargata” egli riesca a fare un’esperienza di Dio che rimane preclusa a quanti si pongano in una prospettiva rigorosamente ed esclusivamente di tipo intellettuale.
Senza perciò che si tratti di un “altro” Dio: Dio è sempre perfettamente uguale a Se Stesso, sia che lo si colga con il ragionamento, sorretto dalla Rivelazione, come fanno i teologi, sia che lo si colga per via immediata e interiore, come fanno i mistici nello stato di estasi. E non è neanche detto che le due strade siano del tutto incompatibili fra loro: di fatto, sappiamo che alcuni eminenti teologi, animati da una grande fede, sanno unire le due strade e suppliscono con la contemplazione mistica alle insufficienze della ragione. Sia detto fra parentesi, San Tommaso d’Aquino apparteneva a questa rara e ricca tipologia. È chiaro tuttavia che non è sempre facile distinguere fra i due ambiti, entrambi legittimi, della ricerca di Dio: tanto che alcuni autori, come il citato Angelo Silesio (Angelusi Silesisu: Breslavia, 1624-1677) mettono in imbarazzo lo studioso, perché nel loro linguaggio il confine fra ortodossia ed eterodossia tende a farsi labile; e infatti lo stesso Lepp cade nell’errore di considerarlo un vero panteista, mentre la pur esigente Chiesa cattolica del XVII secolo giudicò perfettamente ortodossa la sua opera, pur costellata di paradossi che si prestano a un’interpretazione panteista.




Soren Kierkegaard


Piuttosto, la pagina di Lepp ci invita ad un approfondimento della relazione esistente fra cristianesimo e civiltà del progresso.
È vero che un gran merito del cristianesimo consiste nell’aver collocato nell’avvenire l’ideale verso il quale gli uomini devono tendere, e che sotto l’influsso dell’escatologia cristiana (…) i popoli cristiani, più di tutti gli altri, si sono impegnati nelle vie del progresso; il che è avvenuto perché la religione cristiana non è una religione di nostalgia, ma di speranza.
Da ciò tuttavia non deriva (se ne facciano una ragione i cosiddetti cattolici liberali, o progressisti) che il cristianesimo sia una religione progressista; semmai, progressiva. È progressiva perché delinea un effettivo e concreto progresso: sia per l’anima individuale, chiamata ad una radicale conversione, che realizza in essa una trasformazione e un immenso perfezionamento, dunque un progresso; sia sul piano della storia umana, perché, essendo questa accompagnata dalla presenza amorevole di Dio, che si manifesta nella Provvidenza, realizza essa pure un avanzamento e una progressiva spiritualizzazione, mirando a realizzare fin da ora, per quanto possibile – e cioè sempre imperfettamente e precariamente - la Città di Dio di agostiniana memoria, sostituendola alla città dell’uomo, dominata dall’amore di sé e quindi caratteristica dell’uomo vecchio, dell’uomo carnale, che giace ancora sotto la schiavitù del peccato e la signoria del diavolo.
Ancora una volta, a vedere più lontano è stato Kierkegaard, un luterano che aveva visto tutti i limiti del luteranesimo e se ne era radicalmente staccato, avvicinandosi per alcuni aspetti importanti alla visione cattolica: nel cristianesimo si realizza la ripresa, cioè si riprende il passato, ma procedendo innanzi. Cioè non si rinnega nulla del passato, non ci si vergogna di esso, ma neppure si cade nella nostalgia, che sarebbe una sterile forma di voluttà: si guarda avanti e si va avanti, sorretti dalla speranza nel Cristo.



agosto 2021
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