GIOTTO RE DEI PITTORI CRISTIANI

Sublimità e umanità di Giotto, re dei pittori cristiani

di Francesco Lamendola

Pubblicato su Accademia Nuova Italia





Quale pittore ha saputo esprimere con maggiore forza e intensità il dramma dell’uomo fra peccato e redenzione, secondo la prospettiva cristiana? A qualcuno potrà forse piacere il Cristo giallo di Paul Gauguin, dai colori sorprendenti, e a qualcun altro la Crocefissione di Georges Rouault, dove il Cristo è talmente stilizzato da parer quasi un’idea più che una Persona; né forse mancherà chi vede il vertice dell’arte cristiana nella sofferta, tormentata Pietà di Vincent Van Gogh.
Da parte nostra, nessuna di queste opere, o di altre simili, possiede la capacità di comunicare in maniera immediata e profonda l’essenza del cristianesimo, se non altro perché sono tutte così moderne, non in senso cronologico, ma ideologico. Ciascuna di esse ha la pretesa d’interpretare la figura di Gesù e di adattare il Vangelo alla mentalità dell’uomo moderno, quasi pagando il diritto di cittadinanza nella società moderna al prezzo stabilito dalla modernità stessa: nessuna vera spiritualità, o solo una spiritualità deformata e incomprensibile; niente unicità e sovrumanità di Gesù Cristo, ma solo un Cristo che potrebbe essere qualsiasi uomo; niente trascendenza, ma solo un uomo che soffre e che muore, come ce ne sono stati e ce ne sono e ce ne saranno tanti nel corso della storia, ma la cui morte non ha un potere di redenzione, perché è appunto solamente un uomo.
E poi la mentalità moderna aborre tutto ciò che sa di redenzione divina: perché mai l’uomo dovrebbe essere redento, e per giunta da uno che è sì Uomo, ma anche Dio? No: in queste opere si sente, si respira  il circolo chiuso di una mentalità che vorrebbe evadere dalla dimensione claustrofobica del dolore e della sconfitta suprema e senza senso, la morte, ma non tollera che ciò avvenga per opera di Qualcuno che non è solamente umano, pur intuendo perfettamente che l’uomo, da solo, non potrà mai, per definizione, redimersi da se stesso, né sconfiggere i propri fantasmi e i propri incubi. Gli manca per questo non solo l’umiltà necessaria, ma anche la pura e semplice cognizione del peccato.

Infatti la cosa più tipica della cosiddetta religiosità modernità, che poi non ha niente di autenticamente religioso e dà vita, al massimo, a idee e sentimenti pseudo religiosi (come è pseudo religiosa la cosiddetta arte sacra contemporanea) è la scomparsa dell’idea di peccato, la consapevolezza che l’uomo è peccatore. E senza tale consapevolezza, non può esservi alcuna idea di redenzione: da che cosa dovrebbe essere redento l’uomo, dal momento che non è peccatore? Evidentemente, solo dal male e dalla sofferenza, nonché dalla morte. Ma questo è impossibile, se si esclude dal quadro l’idea del peccato: se l’uomo è virtuoso, se è buono, se è del tutto razionale e padrone di se stesso, allora dovrebbe trovare in sé gli strumenti per costruire un mondo nel quale non vi siano più né il male, né il dolore, o in cui il dolore sia ridotto al minimo ed ecc, appunto, l’idea di liberarsi della vita quando essa reca complicazioni; ecco affermarsi l’idea della legittimità, del sacrosanto diritto all’aborto e all’eutanasia.
È tutto logico: in una vera prospettiva cristiana, il dolore non è il male assoluto, ma può anzi essere la scala che conduce fino a Dio; nella prospettiva non cristiana e anticristiana della modernità, il dolore è un non senso e va combattuto e cacciato via, come si cacciano i topi d’appartamento e tutti i visitatori indesiderati.




Il Giudizio Universale nella famosa Cappella degli Scrovegni a Padova, affrescata da Giotto nei primissimi anni del 1300.


No: per trovare un grande pittore che abbia saputo esprimere a pieno l’idea cristiana, si deve per forza risalire all’epoca in cui il cristianesimo era parte viva dell’esistenza di ogni giorno, e in cui ogni cosa, dalla nascita alla morte, anzi fin da prima della nascita e oltre la barriera della morte, era vista attraverso la luce del Vangelo. E lì, in quei secoli nei quali il cristianesimo ha costituito la sorgente ispiratrice della vita pubblica e privata, del lavoro e del riposo, del tempo sacro e di quello profano, del bene e del male, della pace e della guerra, della giustizia e del sapere; negli stessi anni nei quali architetti e capimastri, sovente anonimi, innalzavano le meravigliose e possenti cattedrali, non per la gloria di sé, ma di Dio; e nei quali Dante Alighieri componeva l’immortale poema a cui han posto mano e cielo e terra, la Divina Commedia, il più grande pittore cristiano di tutti i tempi, Giotto, affrescava le pareti delle chiese con le scene della storia sacra e compendiava con la forma e il colore l’intero mistero dell’umanità peccatrice redenta dal sangue di Gesù Cristo. Scene che il popolo ignorante e analfabeta poteva ammirare e comprendere quanto un libro aperto, e sentirsene toccato il cuore con una forza di persuasione che possedevano solo i più bravi frati predicatori – e ce n’erano tanti, allora -, allorché, preparando i fedeli al mistero della santa Pasqua, nelle chiese affollatissime facevano versare vere lacrime di commozione e pentimento anche ai cuori più induriti e agli animi più fieri e ribelli.
Altro che intellettuale organico di gramsciana memoria: se mai c’è stato un artista capace di parlare con eguale intensità ai dotti e agl’indotti, e di far vibrare le corde più profonde dell’anima, facendosi capire da tutti grazie a modi espressivi che uniscono la tradizione colta allo stile più autenticamente popolare, quello è Giotto. E il vertice della sua arte è raccolto nel breve spazio di un piccolo edificio sacro di Padova, la Cappella degli Scrovegni, il cui interno è interamente affrescato, dalla controfacciata all’arco trionfale e dallo zoccolo delle pareti al soffitto, con una serie di scene che abbracciano tutto il mistero della storia sacra secondo la concezione cristiana, sino al Giudizio finale, con una densità spirituale e una compattezza spirituale tali da mozzare il respiro.




 Interno della Cappella degli Scrovegni a Padova


Chi entra in quel luogo e posa lo sguardo su quella incredibile, meravigliosa superficie affrescata dal più grande maestro cristiano di tutti i tempi, si sente toccato sino in fondo all’anima dalla vibrante umanità e al tempo stesso dalla rarefatta spiritualità delle immagini, delle figure, dei gesti, dei volti e degli stessi paesaggi. Sì, perché anche il paesaggio, sebbene ridotto a un’essenzialità che sa quasi di pittura metafisica ante litteram (si osservi, per esempio, lo sfondo aspro e brullo del Sogno di Gioacchino), partecipa al racconto, è parte essenziale di esso: a  testimoniare che la natura tutta, l’intero creato, e non solo gli esseri umani, è coinvolto nel dramma umano del peccato e nel mistero ineffabile della divina redenzione, secondo la celebre metafora di san Paolo nella Lettera ai Romani (8,19-23):

19 La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22 Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23 essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.

Si osservi l’intensità straordinaria dei volti di Gioacchino e Anna al momento del loro incontro e del loro abbraccio, mentre si baciano con tenerezza infinita, presso la Porta Aurea di Gerusalemme, impareggiabile monumento alla dolcezza e all’indissolubilità dell’amore coniugale; si osservi l’andare ieratico, inarrestabile, di Maria sul dorso dell’asino (sottolineato dal profilo tagliente dei colli sullo sfondo), il Bimbo in braccio e san Giuseppe davanti, che volge lo sguardo verso di loro con sollecitudine squisita. E, ancora, il volto di Cristo e quello di Giuda Iscariota nel momento in cui quest’ultimo abbraccia il Maestro e protende la bocca a dargli il bacio del supremo tradimento; si osservi il dolore inesprimibile degli Angeli che circondano la Croce mentre Cristo sta spirando;  e ancora, i due volti vicinissimi della Madonna senza più lacrime e di Cristo morto, nell’istante più commovente che li vede per l’ultima volta l’una accanto all’Altro, quello della Deposizione dalla croce; e la solenne, maestosa e al tempo stesso leggera figura biancovestita di Gesù che ha sconfitto la morte e che, emergendo dal sepolcro ormai vuoto, dice a Maria Maddalena, in ginocchio ai suoi piedi: Noli me tangere.




Il diavolo del Giudizio Universale di Giotto nella famosa Cappella degli Scrovegni


Così parla di quel ciclo pittorico straordinario lo scrittore, critico d’arte ed eminente intellettuale cattolico Piero Bargellini (1897-1980), coraggioso e amato sindaco di Firenze nell’ora tragica della alluvione del 1966, nel volume L’arte gotica (da: Belvedere. Panorama storico dell’arte, Firenze, Vallecchi, 1960, pp. 186-194):

Nel fermare, con plastica evidenza e con sentimento drammatico, fatti ed atti della “Storia di San Francesco”, nelle città dove risuonavano vivacemente le cronache di quegli avvenimenti non ancora macerate dalla devozione, il pittore si trovava in una posizione di raccorciata prospettiva. I fatti quasi incombevano, con massiccia evidenza, nella fantasia del popolo e quindi dell’artista, che ne fermava la visione, senza carezzevoli sfumature tonali.

Per questo i colori di Giotto, ad Assisi, hanno ancora la violenza e schiettezza del linguaggio popolaresco, privo di raffinatezze cromatiche, essenziale, per quanto non convenzionale.

Nell’evocazione pittorica, gli episodi della cronaca francescana venivano sbalzati con risentita colorazione, in una prospettiva, che traeva dal fondo le figurazioni in rilievo.

Un colore sicuro e franco modellava i volumi, con ombreggiature ancora urtanti e un cangiantismo quasi elementare, senza preziosismi d’impasti.

Ci voleva un altro tuffo nel cromatismo cavalliniano, a Roma, dove Giotto venne richiamato, in occasione del Giubileo, per far di Giotto un più attento coloritore, dopo una breve sosta a Firenze, negli affreschi eseguiti a Padova,

«Dipinse a Padova, – scrisse il Ghiberti – pei frati minori, dottissimamente». Ma di quegli affreschi, nella Sala capitolare del Santo, non restarono che poche tracce.

Invece è rimasta intera l’unica opera in ottimo stato di conservazione, né attaccata dall’umido, né guastata da restauri: la decorazione pittorica della Cappella Scrovegni, dove il pittore entrò a pareti fresche e nude nel 1304 e ne uscì nel 1306 lasciandovi l’impronta più luminosa del suo genio.

La Cappella, che Enrico degli Scrovegni dedicò alla Vergine, come si vede nell’offerta che lo stesso Giotto raffigurò, era piccola e raccolta: un vano rettangolare, chiuso da volte a botte. Sul fondo, l’arco trionfale e la breve abside poligonale. La decorazione pittorica doveva rivestirla internamente, non lasciando neppure un palmo di muro scoperto: dallo zoccolo, dove vennero figurati Vizi e “Virtù”, alla volta, coi medaglioni dei Profeti.

Ma si sbaglia parlando di decorazione. Si dovrebbe dire istoriazione. La sequenza dei quadri, appena divisi da esigue cornicette cosmatesche, si svolgeva continua, dalla “Storia della Vergine” al “Giudizio finale”, dalle varie scene del dramma sacro, desunti dai Vangeli apocrifi e canonici, col prologo idillico di Sant’Anna e san Gioacchino e il tragico epilogo del Giudizio finale.

Qui Giotto non è più dinanzi alla cronaca francescana, ma dentro la storia della redenzione, impegnato non più nel racconto d’una vita, ma nel poema umano e divino della salvezza universale.

Perciò l’evocazione si fa più profonda, per quanto non remota, sullo sfondo celestiale, che rende i colori palpitanti e leggeri.

La prospettiva degli sguardi ha sconfinatezza spirituale; il sentimento religioso intensifica le espressioni, la mimesi s’amplifica e il rilievo si fa solenne, nella schiarita dei colori, che comunicano alle masse un senso di levità, di freschezza e di poesia.

Tutte le note d’umanità sono taccate con sublime delicatezza, al livello d’un lirismo, che ha soltanto riscontro in quello dantesco. Dalla tenera e pudica affettuosità senile di “Sant’Anna e San Gioacchino”, alla consapevole certezza della “Vergine annunziata”; dalla materna apprensione della “Natività”, tra il festoso coro degli Angeli e la lieta sorpresa dei pastori, alla fatale, quasi altera sicurezza della “Fuga in Egitto”; dalla contenuta drammaticità del “Bacio di Giuda”, all’esplosione di dolore della “Crocifissione”; dalla dignitosa passione del “Cristo deriso”, all’irrefrenabile pianto della “Deposizione”, ogni scena della sacra rappresentazione ha il suggello d’un sentimento, espresso con chiarezza meravigliosa ed efficacia esaltante.




Il bacio di Giuda di Giotto


Giotto è stato il più grande pittore cristiano d’ogni tempo non solo perché ha saputo esprimere con la massima concisione ed efficacia il mistero della Redenzione, ma anche perché ha saputo unire la profondità di pensiero dell’arte colta con l’apparente semplicità di mezzi dell’arte popolare: in altre parole, ha sintetizzato la misteriosa, ineffabile unione dell’umano e del divino nella storia della salvezza. Che non è solo la storia dell’Uomo-Dio, venuto sulla terra a rendere testimonianza alla Verità (cfr. Gv 18,37), ma anche la storia della chiamata di Dio agli uomini di buona volontà, la loro vocazione a santificarsi, facendo la volontà del Padre celeste, come ha fatto Gesù: Come tu li hai mandati nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso (Gv 17,18-19).








agosto 2021

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