“Tentazione di tornare indietro”?
La risposta di Chesterton


di Cristiana de Magistris



Quando, nel 1921, Chesterton durante il suo viaggio negli Stati Uniti fu invitato dal cardinal Gibbons a casa sua, provò la sensazione di essere venuto a contatto con “l’ultimo anello di una catena viva” che si ricollegava a Pietro pescatore. Egli, per quanto inconsapevolmente, fece l’esperienza della tradizione della Chiesa. Quella tradizione che egli, dopo il suo ingresso ufficiale nella Chiesa Cattolica, considerò sempre il baluardo del Cattolicesimo contro il divenire del mondo.

Ma l’idea di tradizione data molto prima nel pensiero di Chesterton. L’autorità che il passato ha sul presente, che i morti hanno sui vivi ritorna come una costante melodia nei suoi scritti, anche nei suoi romanzi. È con la ragione prima che con la fede che Chesterton aveva scoperto il valore della tradizione, benché non ancora intesa nel senso ecclesiale del termine. «Il vero soldato combatte non perché egli odia ciò che è di fronte a lui, ma perché ama ciò che è dietro di lui», aveva scritto nel 1911. L’uomo non può prescindere da ciò che lo ha preceduto.
In Ciò che non va nel mondo asseriva: «Per qualche strana ragione l’uomo pianta sempre i propri alberi da frutto in un cimitero. L’uomo può trovare la vita soltanto in mezzo ai morti. L’uomo … può creare un futuro lussureggiante e ciclopico soltanto fintanto che pensa al passato».

È tuttavia in Ortodossia, il suo capolavoro scritto nel 1908, che Chesterton dà un’esatta definizione di ciò che egli considera “tradizione”. È la definizione tipica del genio del paradosso che non lesina il suo acuto humour per dipingere la linea di demarcazione che separa, anzi che unisce, i vivi con i morti.
«La tradizione – scrive – può essere definita come un’estensione del diritto politico. Tradizione significa accordare il diritto di voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri antenati. È la democrazia dei morti. La tradizione rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che semplicemente si trovano a passare di lì. La democrazia respinge l’idea che essere esclusi o meno dipenda dalla casualità della nascita; la tradizione, a sua volta, rifiuta l’idea che l’essere esclusi derivi dalla casualità della morte. La democrazia ci dice di non ignorare l’opinione di un brav’uomo anche se è il nostro stalliere; la tradizione ci dice di non ignorare l’opinione di un brav’uomo anche se è nostro padre. Io, in ogni caso, non posso separare i due concetti di democrazia e tradizione: mi sembra evidente che siano la stessa idea. Avremo i morti nei nostri consigli. Gli antichi greci votavano con le pietre; loro voteranno con le pietre tombali. Tutto ciò è assolutamente regolare e ufficiale: la maggior parte delle tombe, come la maggior parte delle schede elettorali, sono segnate con una croce».

Chesterton, al tempo in cui scriveva queste parole, non era ancora ufficialmente cattolico. Ma avvertiva con prepotenza l’affacciarsi sulla sua anima della tradizione della Chiesa.
Ancora in Ortodossia scrive: «La Chiesa Cattolica non scelse mai le strade battute, né accettò i luoghi comuni; non fu mai rispettabile. Sarebbe stato facile accettare la potenza terrena degli ariani; sarebbe stato facile, nel calvinistico diciassettesimo secolo, cadere nel pozzo senza fondo della predestinazione. È facile essere pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che un’epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la testa; è sempre facile essere modernisti, come è facile essere snob. Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell’errore e dell’eccesso, che, da una moda all’altra, da una setta all’altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del Cristianesimo – questo sarebbe stato semplice. È sempre semplice cadere; c’è un’infinità di angoli in cui si cade, ce n’è uno soltanto a cui ci si appoggia. […]. Ma averli evitati tutti è l’avventura che conturba; e nella mia visione il carro celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le stolide eresie si contorcono prostrate, e l’augusta verità oscilla ma resta in piedi».

Il “carro celeste” è la Chiesa Cattolica: essa è quell’unico “angolo” a cui ci si appoggia senza cadere. Chesterton è ammirato dalla sua ortodossia con la quale ha evitato tutte le multiformi deviazioni che hanno attraversato i secoli.
Nel romanzo La sfera e la croce scrive: «Il cristianesimo è sempre fuori moda perché è sano e tutte le mode sono insanità… La Chiesa pare sempre alla retroguardia del tempo, mentre è all’avanguardia: essa aspetta che l’ultima follia abbia visto il suo ultimo tramonto. Essa tiene le chiavi di una virtù permanente».
E ne spiega le ragioni. «La Chiesa – egli dice – non può permettersi di deflettere su certe cose, nemmeno di un capello, se deve continuare il suo grande e rischioso esperimento di irregolare equilibrio. Una volta lasciato che un’idea perda di potenza, un’altra diventerà troppo potente. Il pastore cristiano non deve guidare un gregge di pecore, ma una mandria di bufali, e di tigri, di ideali terribili e di dottrine divoranti, ognuna abbastanza forte per trasformarsi in una falsa religione e devastare il mondo. Non dimentichiamo che la Chiesa si affermò specificatamente per le sue idee pericolose; fu una domatrice di leoni».

Divenuto ufficialmente cattolico, Chesterton amò profondamente la Chiesa Cattolica soprattutto in ciò con cui Essa più dispiaceva al mondo: la sua santa intransigenza, il suo benevolo rigore, la sua misericordiosa intolleranza. Ecco perché la penna dello scrittore inglese ebbe parole sempre particolarmente taglienti contro ogni deviazione progressista.
Il progresso, quello degno di tale nome, – sosteneva – non deve «essere un continuo parricidio», ma una continua riscoperta di ciò che i nostri padri hanno costruito e difeso nei secoli.
Ancora in Ortodossia, coglieva la differenza che esiste fra l’onesta e doverosa ricerca della verità ed una pseudo-verità derivante da un cieco e inconcludente progressismo:
«I dogmatisti cristiani – scrive – cercavano di costruire il regno della santità, e cercavano, anzitutto, di definire il preciso concetto di santità. Ma i nostri teorici dell’educazione tentano di istituire una libertà religiosa, senza provarsi a stabilire che cosa sia la religione o che cosa sia la libertà. Se i vecchi preti imponevano una opinione alla gente, almeno prima si preoccupavano di renderla lucida. Solo le moderne folle… possono permettersi di perseguitare una dottrina, senza neppure definirla. Per queste ragioni, e per molte altre, sono giunto a credere alla necessità di tornare ai fondamenti».

E lo fece con rara coerenza di vita oltre che con una rigorosa onestà intellettuale.
In Ciò che non va nel mondo il “neo-ipocrita” è colui che si oppone al dogma ed all’ortodossia: «La mente umana conosce due cose, e solo due: il dogma e il pregiudizio. Il Medioevo fu un’età razionale, un’epoca di dottrina. La nostra epoca, al massimo, è un’epoca poetica, un’età di pregiudizio».

Ecco perché Chesterton invitava di continuo a vigilare sulle suggestioni della mentalità moderna, come espresse chiaramente nell’opera L’uomo comune: «Il problema maggiore di quella che si autodefinisce mentalità moderna sono i binari, la nostra abitudine a essere soddisfatti di stare nei binari perché ci viene detto che sono binari di cambiamento».
Ma si tratta di una doppia insidia, contenuta e nei binari e nella pretesa di cambiamento. Usando ancora l’immagine dei binari, Chesterton scrisse: «[…] se cominciassimo seriamente a pensare all’idea di uscire dai binari, scopriremmo che ciò che vale per il treno vale anche per la verità. Scopriremmo che è effettivamente più difficile uscire dai binari quando il treno procede velocemente che quando avanza lentamente. Scopriremmo che la rapidità è rigidità… e alla fine nessuno farà il salto verso la vera libertà intellettuale, proprio come nessuno salterebbe giù da un treno in corsa … questo mi pare il segno distintivo di ciò che nel moderno chiamiamo pensiero progressista».
L’uomo moderno, intrappolato su un treno che corre a velocità vertiginosa verso una meta ignota, non ha il coraggio di uscire dai binari del pensiero comune: sognando un’illusoria libertà, egli rimane in realtà schiavo del pensiero dominante, che gli propone, di giorno in giorno, illusorie e mutevoli chimere.

L’unica vera difesa a questo male che pervade la modernità sta nell’immutabile tradizione della Chiesa Cattolica, che per la sua origine divina – dichiara Chesterton – «non può muoversi coi tempi». E del resto, aggiunge lo scrittore inglese, «non abbiamo bisogno, come dicono i giornali, di una Chiesa che si muova col mondo. Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo».

L’idea che Chesterton ha della tradizione è cosmica e sovratemporale. Essa avvolge l’universo e raggiunge ciascuna anima, per quanto inconsapevole, in ogni tempo e in ogni luogo. Nessuno può sfuggire alla sua luce e all’incanto sempre antico e sempre nuovo che il proprio passato esercita su ogni uomo. Perché «la tradizione non significa che i vivi sono morti, ma che i morti sono vivi».

La provocazione di Chesterton sull’immortale «traditio Ecclesiæ» è tremendamente attuale e interroga la coscienza di tutti i membri della Chiesa. Perfino di quelli che vivono a Roma, dopo che il Reno si è riversato nel Tevere.





ottobre 2021

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