Traditionis Custodes,
la coerenza rivoluzionaria


di Don François-Marie Chautard, FSSPX



Articolo pubblicato su Le Porte Latine
e ripreso dal bollettino Le Chardonnet, n° 370, ottobre 2021








Di che si tratta?

Pubblicato il 16 luglio 2021, il motu proprio Traditionis Custodes ha prodotto l’effetto di un terremoto nel piccolo mondo della Tradizione.
In appena due pagine, il Papa ha ridotto quasi a niente la libertà condizionata concessa alla Messa tradizionale da Benedetto XVI con il motu proprio Summorum Pontifucum del 7 luglio 2007.

Secondo lo schema utilizzato da Benedetto XVI in quella occasione, Francesco ha accompagnato il suo motu proprio con una lettera indirizzata ai vescovi, nella quale spiega la sua decisione.

Una nuova libertà religiosa; il diritto di morire… lentamente

In poche righe, il Papa del dialogo e della sinodalità non lascia alcuna scelta ai fedeli, ai sacerdoti e agli stessi vescovi.
Riguardo ai fedeli, il documento precisa che potranno usufruire della Messa tradizionale alla seguente condizione: «…tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici» (Art. 3, §1).
Sempre lo stesso grano d’incenso.

Il sacerdote responsabile di questi gruppi considererà, non se possono essere estesi, ma piuttosto se possono essere soppressi (§ 5). Peggio, il vescovo «avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi» (§ 6).
Queste comunità hanno un solo diritto: spegnersi lentamente, inesorabilmente, definitivamente.

Sempre lo stesso grano d’incenso

Per i sacerdoti, il motu proprio precisa che coloro che « già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà» (Art. 5).
I giovani sacerdoti non avranno la stessa facoltà… essi dovranno fare domanda ai loro vescovi, i quali, per decidere, dovranno consultare la Santa Sede.

Va notato che l’esigenza dottrinale menzionata per i fedeli non lo è per i sacerdoti. Come se, negli ambienti Ecclesia Dei, il Papa temesse la libertà di parola dei laici più di quella dei sacerdoti, i quali sono più facilmente messi a tacere dall’apparato ecclesiastico.

Circa i vescovi, malgrado un richiamo alla loro autorità (art. 1), è stato loro sottratto il potere di erigere parrocchie personali per tali gruppi tradizionali, nonostante si tratti di un potere episcopale. Né sono abilitati a giudicare da soli se un sacerdote della loro diocesi è adatto a celebrare il rito antico.

Il motivo invocato

In appoggio a queste pesanti restrizioni, il Papa si appella essenzialmente all’unità della Chiesa, messa in pericolo dalla deriva tradizionalista.

Secondo Francesco, esiste una mentalità separatista dei fedeli e dei sacerdoti legati alla liturgia tradizionale. Si svilupperebbe sempre più un rifiuto del concilio Vaticano II, delle sue riforme e della vita ecclesiale che ne sono derivate. Tale che se il successore di Pietro non vi mettesse fine, tale tendenza dialettica in seno alla Chiesa finirebbe con l’aggravarsi.

Il settarismo del liberale

Come hanno osservato diversi commentatori, è curioso vedere un papa che, da un lato, perora la pluralità delle religioni e, dall’altro, si scaglia contro una piccola parte di cattolici attaccati non al culto della Pachamama, ma a una liturgia celebrata da alcuni santi che lui stesso ha canonizzato.

Tuttavia, non si deve essere troppo frettolosi a liquidare questo motivo dichiarato. Piuttosto, è importante cogliere e comprendere questo argomento dell’unità ecclesiale come l’intenzione più profonda del Papa, anche se si è tentati di attribuirgli altre motivazioni, parimenti fondate.

Nell’Impero romano, i cristiani furono accusati di mettere in questione l’unità imperiale, perché si rifiutavano di sacrificare agli dei dell’Impero. All’epoca, l’argomento poteva sorprendere visto che in seno a tutto l’Impero vi erano dei culti diversi, strani ed anche opposti.

In realtà, al di là di questa diversità di culti, per quanto variegata, regnava una vera unità, quella della legittimità di qualsiasi culto, qualunque esso fosse. Qualsiasi religione poteva essere praticata nell’Impero, purché non mettesse in discussione l’esistenza stessa e la legittimità degli altri culti.

Ora, i cristiani ruppero tale unità; essi rifiutarono non solo gli dei delle città in cui vivevano e la divinizzazione degli imperatori, ma persino l’idea stessa di un dio e di una religione diversa dal loro Cristo Gesù e dal cristianesimo. Questo stava minando il fondamento religioso dell’Impero; e la religione dell’Impero, molto logicamente, non poteva accettarlo. L’Impero doveva convertirsi al cristianesimo o il cristianesimo doveva scomparire.

In Traditionis Custodes vi è una logica simile. Come ha sottolineato Louis Veuillot: «non vi è settario maggiore di un liberale». Un liberale, un modernista, può accettare tutte le religioni, tutte le più strane deviazioni, ma a condizione che si mantenga sempre un’unità, un consenso: la legittimità del pluralismo religioso. Se quest’ultimo è contestato, il liberale si oppone al suo irriducibile nemico e pronuncia il famoso principio: nessuna libertà per i nemici della libertà.

È qui che la dichiarazione del 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi si unisce a Traditionis Custodes. L’esclusivismo liturgico si oppone al pluralismo. Questi «tradizionalisti» che sono così ingrati nell’accettare il bi-ritualismo e lo spirito del Vaticano II rompono l’unità del consenso. Il pluralismo non ha quindi altra scelta che combattere fino alla morte contro ogni forma di esclusivismo.

La rivoluzione non è mai terminata

Questa unità, onnipresente nella lettera del Papa, è quella dell’«ordine» rivoluzionario.
Gli «ecclesiastici» hanno dato dei segni di benevolenza: hanno giustificato l’operazione di Assisi, parlano di «san» Giovanni Paolo II, vivono sotto il  gioco del nuovo Codice di Diritto Canonico, giustificano la libertà religiosa, tacciono sugli errori contenuti nella lettera del concilio Vaticano II e sdoganano quest’ultima in nome dell’ermeneutica della continuità, cara a Benedetto XVI. Non fa niente. Agli occhi di Francesco tutto questo sembra niente. Ed è coerente. Quali che siano le promesse fatte alla Rivoluzione, questa non è mai soddisfatta.
Coloro che pensano di poter collaborare con essa sono purtroppo spinti ad accettare ciò che erano restii a professare, ciò che rifiutavano, ad agire in opposizione ai loro principi iniziali. Nonostante questo, la rivoluzione vuole ancora di più. Nel mondo come nella Chiesa, essa schiaccia coloro che accettano le sue regole. Come ricordava Clemenceau, «la rivoluzione è un blocco da cui nulla può essere distratto». Ogni eccezione, ogni procrastinazione è solo una lentezza misurata, una parentesi destinata ad essere chiusa.

Rompere il cerchio

La sola soluzione è infine suggerita dal Papa stesso.

Benedetto XVI aveva immaginato una riforma della riforma di tipo hegeliano. Il rito tradizionale (la tesi) doveva incontrare il rito moderno (l’antitesi) e dalla reciproca fecondazione doveva nascere un rito riformato (la sintesi).

Francesco è più discepolo di Parmenide e più attaccato al principio di contraddizione. Questi due riti sono opposti e l’unico autentico oggi è quello di Papa Paolo VI. Così ha scritto che vi è «una sola espressione della lex orandi del rito romano». Non si può essere legati ad entrambi i riti allo stesso tempo.

Noi, allora, saremmo tentati di dire a tutti questi sacerdoti e fedeli, legittimamente legati alla Sede di Pietro e alla Messa tradizionale, e divisi tra queste due fedeltà:

Il Papa stesso insegna l’antinomia di questi riti. Accogliete e ammettete questo principio di rottura dato dal Papa e traetene le conseguenze: o voi accettate la rivoluzione nella Chiesa insieme con la Messa e lo spirito che l’accompagnano; o voi rimanete fedeli alla Messa tradizionale e allo spirito di questa Messa e a tutta la Tradizione della Chiesa, in opposizione a quello spirito scismatico che vorrebbe rompere questa Tradizione multisecolare.

Per una vera fedeltà alla Sede di Pietro, rimanete fedeli alla Tradizione e alla Messa di San Gregorio e di San Pio V.

Così parlava Mons. Lefebvre nell’omelia delle consacrazioni del 1988:
«Noi ci troviamo di fronte ad uno stato di necessità. … Noi non possiamo, malgrado ogni desiderio che abbiamo di essere in comunione con Voi. Dato questo spirito che regna oggi a Roma e che Voi volete comunicarci, preferiamo continuare nella Tradizione, conservare la Tradizione, in attesa che questa Tradizione ritrovi il suo posto, in attesa che questa Tradizione ritrovi il suo posto nelle autorità romane, nello spirito delle autorità romane»





ottobre 2021

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