La dittatura del “progretariato”

di Roberto Pecchioli



Pubblicato il 16 novembre 2021 sul sito
Ricognizioni


 







Abbiamo l’abitudine di conversare amabilmente, al bar o in piazza, con un colto professore dal ferrigno passato di militante di estrema sinistra. Uniti dalla fede calcistica e divisi su tutto il resto, amiamo punzecchiarci e discutere di massimi (e minimi) sistemi. Parlando con tristezza della morte sul lavoro – l’ennesima – di un operaio nella nostra città, abbiamo notato una certa indifferenza dissimulata dalla cortesia.
Lì vicino, uno degli sfruttati del capitalismo assoluto – un ragazzo straniero – caricava il borsone di una piattaforma di consegna di cibo spazzatura in sella a una vecchia bicicletta: sguardo distratto del professore.
Come provocazione, abbiamo allora commentato il recente “coming out” di un ex ministro sulla sua omosessualità, utilizzando volutamente il termine invertito. Repentino cambio di umore e di tono, dito indice alzato in segno di riprovazione: siamo stati investiti dalle rampogne per aver usato un linguaggio che “non rispetta l’orientamento sessuale”.

Il nostro amico ha completato una conversione comune a molti: è passato dalla dittatura del proletariato alla dittatura del “progretariato”. Inventiamo il neologismo per descrivere il transito di molti da comunisti a progressisti.
Gran parte della sinistra, senza abbandonare l’albagia della superiorità morale e il sovrano disprezzo per le idee altrui, si è ridefinita in senso individualista, liberal libertario e perfino mercatista.
Marx ed Engels interpretavano la storia come lotta eterna tra padroni sfruttatori e servi sfruttati, a cui avrebbe posto fine la dittatura del proletariato finalmente liberato dalle sue catene.
Archiviata la lotta di classe per manifesta inferiorità nei confronti dell’ex nemico vittorioso, il neo marxismo culturale, da buon serpente ha cambiato pelle per l’influsso di varie correnti di pensiero post moderno e ha capovolto i suoi fondamenti teorici, sostituendo la lotta di classe con la guerra tra identità nemiche, nuovi motori della storia. Sfruttatori e sfruttati, dominatori e dominati non sono più identificati rispetto alla posizione economica ma in base all’identità etnica, di genere e all’“orientamento sessuale”.

Solo pochi comunisti all’antica restano fedeli alle vecchie convinzioni: uno è Marco Rizzo, che considera i nuovi diritti civili individuali un’arma di distrazione delle masse a favore dei ceti dominanti. Ha ragione perfino quando ricorda che il problema non sono i diritti dei gay, ma la distanza incolmabile tra il gay povero e il gay ricco.

Ciò che non cambia, nell’immaginario e nella concreta prassi progressista, è la volontà di ridurre al silenzio il dissenziente, rifiutando di ascoltarne le ragioni, screditate e demonizzate pregiudizialmente secondo un codice morale di nuovo conio, diffuso e imposto da loro stessi. Un’altra dittatura, quella del “progretariato”.
Ne ha parlato con preoccupazione un intellettuale di sinistra che non ha portato il cervello all’ammasso e per questo sopporta attacchi velenosi, Luca Ricolfi. In uno splendido intervento su “Repubblica” – oggetto di dure rampogne da parte di “duri e puri” alla Gad Lerner – ha parlato di questa singolare mutazione.

Una delle caratteristiche è la discriminazione nei confronti dei non allineati: l’album di famiglia non lascia scampo. “Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante. Non solo: nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all’ortodossia politica dominante”.
In Texas è nata l’Università di Austin, il cui obiettivo è sbarrare la strada a tali derive, ripristinando un insegnamento libero, alieno da ogni imposizione. Nel nuovo ateneo non sarà permessa la censura mascherata da argomenti deliranti del tipo mi offendi / mi opprimi / sei maschilista / sei razzista e simili. L’iniziativa si propone di generare conoscenza attraverso la libera espressione. Sembrerebbe un’ovvietà: non è quella la missione dell’istituzione universitaria?

Il fatto è che la dittatura del “progretariato” è figlia della cultura della cancellazione, il fenomeno che vuol farla finita con tutto ciò che sostiene la nostra civiltà e convivenza: libertà di espressione, di insegnamento e di parola, rispetto del passato e del pensiero critico. Perfino la presunzione di innocenza frutto del diritto romano è attaccata dal femminismo radicale per gli atti definiti “violenza di genere”; la libertà individuale è ristretta da prescrizioni sempre più stringenti.

Per Ricolfi sta avanzando dall’America una variante ideologica neoprogressista, la cultura delle mille identità contrapposte, “un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo). Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam essere islamico; per palare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di appropriazione culturale”.

La conseguenza è che non contano più “il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza, ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati. Se sono maschi bianchi eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l’ideologia dominante. Perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i discendenti dell’uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati”.

L’ideale dell’uguaglianza – bandiera secolare delle sinistre – è sostituita dall’idea folle che contino le differenze di razza, etnia, genere. La società, quindi, non deve più “promuovere la conoscenza e ricercare la verità, ma combattere le ingiustizie sociali, riequilibrando le diseguaglianze con azioni positive che privilegiano determinate minoranze e penalizzano maggioranza e minoranze non protette, prescindendo dai meriti e dalle capacità di ogni individuo.”

L’esito paradossale della dittatura del “progretariato” è l’instaurazione di una pseudo eguaglianza – da cui sono esclusi i diritti sociali – attraverso discriminazioni di segno contrario a quelle che afferma di combattere. Razzismo rovesciato: la più reazionaria e aggressiva fra le ideologie contemporanee.

Come sempre, per combattere un male, occorre risalire alla sua radice. L’origine remota di questa cultura – che in America chiamano “risvegliata” – woke – sta nelle paure e nelle ossessioni successive alla seconda guerra mondiale e alla guerra fredda.
Le idee “forti” avevano generato conflitti terribili: meglio il disincanto, il politeismo dei valori alla Max Weber. I sistemi morali e le appartenenze comunitarie vennero espulse o ristrette nella sfera privata. Lo Stato si incaricava di proteggere i diritti individuali limitandosi ad accompagnare lo sviluppo economico ed evitare la collisione delle opposte credenze.
Nasceva il mondo liquido, si diffondeva la convinzione che i valori essenziali dovessero restare fuori dalla sfera politica. Lo affermavano personalità diversissime tra loro, sociologici e giuristi come John Rawls, economisti ultra liberisti alla Milton Friedman, scrittori come Albert Camus. Lo strutturalismo francese e la filosofia postmoderna promuovevano l’idea di mondi deboli o liquidi.

Destra e sinistra di sistema raggiunsero un tacito accordo: agli uni la rivendicazione della libertà di mercato e della prosperità economica, agli altri il potere intellettuale e culturale, che alla fine condiziona l’intera società e la stessa economia, come sapeva bene Antonio Gramsci.
Da decenni si diffondono le ideologie del mondo liquido, ossia cangiante, senza bussola e ancoraggio, e le nuove coppie oppositive, i binomi che definiscono come prima, ma al contrario, l’asse del bene e del male. L’aporia, il nonsenso irrisolto del relativismo è che l’uomo resta un essere morale, nel contempo ansioso di assoluto e di potere. Dunque, il relativismo iniziale si volge inevitabilmente nel suo contrario per diventare paradigma obbligato, ideologia, senso comune.

In tempi di benessere – pur declinante – uomo/donna, bianchi/resto delle razze, eterosessuali/LGBTQI+, passato/presente, sono antagonismi più facili da far penetrare nell’immaginario delle masse rispetto alla polarità marxista padrone-operaio. Ebbe la vista lunga la Scuola di Francoforte, la prima a capire che i ceti subalterni hanno sentimenti “conservatori” in quanto orientati a consolidare la loro condizione socio economica.

Per cambiare il mondo, bisognava puntare su altri gruppi sociali, i ceti urbani semicolti, gli insegnanti, i dirigenti cosmopoliti, gli esercenti professioni intellettuali, le minoranze sessuali, etniche, gli stranieri richiamati dal benessere. In fretta tornò in auge in salsa progressista il tic comune dei comunisti e dei totalitaristi: la mancanza di rispetto per le opinioni altrui. Il relativismo di chi si è liberato di ogni convinzione, fede, appartenenza comune, si trasforma in odio della verità, negazione programmatica.

Il “progretariato” finisce per prestare fede a autentici spropositi: non si nasce uomini o donne, lo si diventa; i sessi non sono due, ma decine; gli “orientamenti sessuali” sono mutevoli ed equivalenti; la maternità non è assegnata alla donna dalla natura – declassata a “biologia”- bensì dal dominio del patriarcato eterosessuale; non esiste il latte materno, ma il “latte umano”; la madre, “genitore uno”, è declassata a “genitore alla nascita”; il clima cambia esclusivamente per colpa dell’uomo (bianco occidentale); il maschio è strutturalmente violento contro la femmina e così via.

La più recente acquisizione del progressismo è la cosiddetta “teoria critica della razza” (CRT, critical race theory, nell’acronimo anglofono), un’altra creazione uscita dalla cornucopia delle università americane. La CRT negli ultimi dieci anni è diventata negli Usa la nuova ortodossia istituzionale. L’idea centrale è che il razzismo non è il prodotto di pregiudizi o convinzioni individuali, ma un concetto incorporato nei sistemi legali e nelle politiche. La razza non è una caratteristica naturale biologicamente fondata di gruppi di esseri umani fisicamente distinti, ma una categoria socialmente costruita (inventata culturalmente) che viene utilizzata per opprimere e sfruttare le persone di colore. I teorici critici della razza sostengono che la legge e le istituzioni legali negli Stati Uniti sono intrinsecamente razziste nella misura in cui funzionano per creare e mantenere disuguaglianze sociali, economiche e politiche tra bianchi e non bianchi, in particolare afroamericani.

In quest’ottica, chi scrive è un privilegiato oppressore nonostante non sia né ricco né potente, in quanto maschio bianco eterosessuale. La differenza rispetto al marxismo è che dominatori e dominati non sono più identificati rispetto alla posizione economica ma dall’identità etnica e di genere. Alla base della piramide ci sono, a vari livelli di vittimismo, i “buoni”: afroamericani, donne, Lgbt e minoranze in generale, quasi tutta l’umanità divisa in segmenti identitari opposti, tranne uno, quello degli oppressori, i maschi bianchi eterosessuali, i cattivi.

Le minoranze etniche e sessuali, le persone Lgbt e le donne femministe sono categorie orientate a sinistra. I cattivi stanno dall’altra parte. Fin troppo ovvio da che lato posizionarsi, nella lotta tra il Bene e il Male.
Appiccicare etichette è assai conveniente: mette sotto accusa gli avversari perché malvagi e consente ai Buoni, l’arcobaleno progressista, risvegliato e “razzializzato”, di diventare vittime da risarcire indefinitamente e insieme neo vendicatori, giustizieri senza tempo e senza limiti. Da oppressi e vittime presunte a veri oppressori: la dittatura del progretariato.

L’ultimissima scoperta è il concetto di razzializzazione, ovvero, “il processo attraverso cui un gruppo dominante attribuisce caratteristiche razziali, disumanizzanti e inferiorizzanti, a un gruppo dominato, attraverso forme di violenza diretta e/o istituzionale che producono una condizione di sfruttamento ed esclusione materiale e simbolica. La parola razzializzata/o ci consente di vedere come la razza, che non esiste biologicamente, serva a mantenere rapporti di potere.” (da razzismobruttastoria.net).
Bingo! Le razze non esistono “biologicamente” – le differenze tra le varie etnie umane sono evidentemente accidenti del destino – ma tutto gira intorno alla razza, l’isola che non c’è. Il razzismo è una brutta storia, ma anche le menzogne.

Un altro settore della dittatura del “progretariato” riguarda il genere: per evitare di offendere – la nostra è l’era della suscettibilità organizzata – dovremmo chiedere a chiunque, prima di esprimerci, se preferisce che gli/le/l* rivolgiamo la parola al maschile, al femminile o al neutro (!!!). È di gran moda l’asterisco finale nella comunicazione scritta (car* collegh*): meraviglie del linguaggio inclusivo, Babele di neologismi e codici da utilizzare per non incorrere nei reati di sessismo, razzismo, discriminazione.
Non si può più dire “donne con le mestruazioni”: meglio “persone con le mestruazioni”. Amleto, pallido principe danese, è interpretato da attori neri; nell’opera omonima Carmen non viene più uccisa da Don Josè: imperdonabile apologia del femminicidio.

Sarebbe tutto ridicolo se non fosse terribilmente serio, il meccanismo folle di chi ha deciso di cambiare le parole, i pensieri, gli uomini, naturalmente senza contraddittorio. Ogni eccezione rimossa, se non ci decidiamo a reagire.




novembre 2021
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