Dilecta mea
sulla Messa tradizionale
di Mons. Carlo Maria Viganò
Voi
che vi permettete di proibire la Santa Messa apostolica, l’avete mai
celebrata? Voi che dall’alto delle vostre cattedre di liturgia
sentenziate piccati sulla “vecchia Messa”, avete mai meditato le sue
preghiere, i suoi riti, i suoi gesti antichi e sacri? Me lo sono
chiesto più volte, in questi ultimi anni: perché io
stesso, che pure questa Messa ho conosciuto sin da piccolo; che quando
ancora portavo i calzoni corti avevo imparato a servirla e a rispondere
al celebrante, l’avevo quasi dimenticata e perduta.
Introibo ad altare Dei.
In ginocchio sui gelidi gradini dell’altare, prima di andare a scuola,
in inverno. A sudare sotto la veste di chierichetto, nella canicola di
certe giornate estive. L’avevo dimenticata, quella Messa, che pure fu
quella della mia Ordinazione, il 24 marzo 1968: un’epoca in cui si
percepivano già le avvisaglie di quella rivoluzione che di
lì a breve avrebbe privato la Chiesa del suo tesoro più
prezioso per imporre un rito contraffatto.
Ebbene, quella Messa che la riforma conciliare ha cancellato e proibito
nei miei primi anni di Sacerdozio, rimaneva come un remoto ricordo,
come il sorriso di una persona cara lontana, lo sguardo di un parente
scomparso, il suono di una domenica con le sue campane, le sue voci
amiche. Ma era qualcosa che riguardava la nostalgia, la giovinezza,
l’entusiasmo di un’epoca in cui gli impegni ecclesiastici erano ancora
di là da venire, in cui tutti volevamo credere che il mondo
potesse risollevarsi dal dopoguerra e dalla minaccia del Comunismo con
un rinnovato slancio spirituale.
Volevamo pensare che il benessere economico potesse in qualche modo
accompagnarsi ad una rinascita morale e religiosa del Paese. Nonostante
il Sessantotto, le occupazioni, il terrorismo, le Brigate Rosse, la
crisi del Medioriente. Così, tra i mille impegni ecclesiastici e
diplomatici, si era cristallizzato nella mia memoria il ricordo di
qualcosa che in realtà rimaneva irrisolto, messo
“momentaneamente” da parte per decenni. Qualcosa che pazientemente
attendeva, con l’indulgenza che solo Dio usa nei nostri riguardi.
La mia decisione di denunciare gli scandali dei Prelati americani e
della Curia Romana fu l’occasione che mi riportò a considerare,
sotto un’altra luce, non solo il mio ruolo di Arcivescovo e di Nunzio
Apostolico, ma anche l’anima di quel Sacerdozio che il servizio in
Vaticano prima e da ultimo negli Stati Uniti avevano in qualche modo
lasciato incompleto: più per il mio essere sacerdote che non per il Ministero.
E quello che sino ad allora non avevo ancora compreso, mi fu chiaro per
una circostanza apparentemente inaspettata, quando la mia sicurezza
personale sembrò in pericolo e mi trovai, mio malgrado, a dover
vivere quasi nella clandestinità, lontano dai palazzi della
Curia. Fu allora che quella benedetta segregazione, che oggi considero
come una sorta di scelta monastica, mi portò a riscoprire la
Santa Messa tridentina.
Ricordo bene il giorno in cui al posto della casula indossai i
paramenti tradizionali, con il cappino ambrosiano e il manipolo:
ricordo il timore che provai nel pronunciare, dopo quasi cinquant’anni,
quelle preghiere del Messale che riaffiorarono alla bocca come se le
avessi recitate fino a poco prima.
Confitemini Domino, quoniam bonus, al posto del Salmo Judica me, Deus
del rito romano. Munda cor meum ac labia mea. Quelle parole non erano
più quelle del chierichetto o del giovane seminarista, ma le
parole del celebrante, di me che nuovamente, oserei dire per la prima volta,
celebravo dinanzi alla Santissima Trinità. Perché
è pur vero che il Sacerdote è una persona che vive
essenzialmente per gli altri – per Dio e per il prossimo – ma è
altrettanto vero che se egli non ha la consapevolezza della propria
identità e non coltiva la propria santità, il suo
apostolato è sterile come il cembalo che tintinna.
So bene che queste riflessioni possono lasciare impassibile, se non
addirittura suscitare compatimento, in chi non ha mai avuto la grazia
di celebrare la Messa di sempre. Ma accade la stessa cosa, immagino,
per chi non si è mai innamorato e non comprende l’entusiasmo e
il casto trasporto dell’amato verso l’amata, per chi non conosce la
gioia del perdersi nei suoi occhi.
Il grigio liturgista romano, il Prelato con il suo clergyman sartoriale e la croce pettorale nel taschino, il consultore di Congregazione con l’ultima copia di Concilium o di Civiltà Cattolica
in bella vista, guardano la Messa di San Pio V con gli occhi
dell’entomologo (la scienza che studia gli insetti), scrutando quella
pericope come un naturalista osserva le venature di una foglia o le ali
di una farfalla. Anzi, talvolta mi chiedo se non lo facciano con
l’asetticità del patologo che incide col bisturi un corpo
vivente. Ma se un sacerdote con un minimo di vita interiore si accosta
alla Messa antica, a prescindere dal fatto di averla mai conosciuta o
di scoprirla per la prima volta, rimane profondamente scosso dalla
composta maestà del rito, come se uscisse dal tempo ed entrasse
nell’eternità di Dio.
Quello che vorrei far comprendere ai miei Confratelli nell’Episcopato e
nel Sacerdozio è che quella Messa è intrinsecamente
divina, perché vi si percepisce il sacro in un modo viscerale:
si è letteralmente rapiti in cielo, al cospetto della Santissima
Trinità e della Corte celeste, lontano dallo strepito del mondo.
È un canto d’amore, in cui la ripetizione dei segni, delle
riverenze, delle parole sacre non ha nulla di inutile, proprio come la
madre non si stanca mai di baciare il suo figlio, la sposa di ripetere
«Ti amo» allo sposo. Vi si dimentica tutto, perché
tutto ciò che in essa si dice e si canta è eterno, tutti
i gesti che vi si compiono sono perenni, al di fuori della storia,
eppure immersi in un continuum che unisce il Cenacolo, il Calvario e
l’altare sul quale si celebra.
Il celebrante non si rivolge all’assemblea, con la preoccupazione di essere comprensibile o di rendersi simpatico o di apparire à la page,
ma a Dio: e dinanzi a Dio vi è solo il senso di infinita
gratitudine per il privilegio di poter portare con sé le
preghiere del popolo cristiano, le gioie e i dolori di tante anime, i
peccati e le mancanze di chi implora perdono e misericordia, la
riconoscenza per le grazie ricevute, i suffragi per i nostri cari
defunti. Si è soli, e allo stesso tempo ci si sente intimamente
uniti ad una sterminata schiera di anime che attraversa il tempo e lo
spazio.
Quando celebro la Messa apostolica, penso che su quel medesimo altare,
consacrato con le reliquie dei Martiri, hanno celebrato tanti Santi e
migliaia di sacerdoti, usando le mie stesse parole, ripetendo gli
stessi gesti, compiendo gli stessi inchini e le medesime genuflessioni,
indossando gli stessi paramenti. Ma soprattutto, comunicandosi allo
stesso Corpo e Sangue di Nostro Signore, al Quale tutti siamo stati
assimilati nell’offerta del Santo Sacrificio.
Quando celebro la Messa di sempre, mi rendo conto nel modo più
sublime e completo del vero significato di ciò che la dottrina
ci insegna. L’agire in persona Christi
non è una ripetizione meccanica di una formula, ma la
consapevolezza che la mia bocca profferisce le stesse parole che il
Salvatore ha pronunciato sul pane e sul vino nel Cenacolo; che mentre
elevo al Padre l’Ostia e il Calice ripeto l’immolazione che Cristo fece
di Sé sulla Croce; che nel comunicarmi consumo la Vittima
sacrificale e mi nutro di Dio, e non sto partecipando a un festino. E
con me c’è tutta la Chiesa: quella trionfante che si degna di
unirsi alla mia preghiera implorante, quella sofferente che la attende
per abbreviare il soggiorno delle anime in Purgatorio, quella militante
che se ne rafforza nella quotidiana battaglia spirituale. Ma se
davvero, come professiamo con fede, la nostra bocca è la bocca
di Cristo, se davvero le nostre parole nella Consacrazione sono quelle
di Cristo, se le mani con cui tocchiamo l’Ostia santa e il Calice sono
le mani di Cristo, quale rispetto dovremo avere per il nostro corpo,
conservandolo puro e incontaminato? Quale migliore sprone per rimanere
nella Grazia di Dio? Mundamini, qui fertis vasa Domini. E con le parole del Messale: Aufer a nobis, quæsumus, Domine, iniquitates nostras: ut ad sancta sanctorum puris mereamur mentibus introire.
Il teologo mi dirà che questa è dottrina
comune, e che la Messa è esattamente questo, a prescindere dal
rito. Non lo nego, razionalmente. Ma mentre la celebrazione della Messa
tridentina è un costante richiamo ad una continuità
ininterrotta dell’opera della Redenzione costellata di Santi e Beati,
altrettanto non mi pare avvenga con il rito riformato. Se guardo alla
tavola versus populum,
vi vedo l’altare luterano o la mensa protestante; se leggo le parole
dell’Istituzione in forma di narrazione dell’Ultima Cena, vi sento le
modifiche del Common Book of Prayer di
Cranmer, e il servizio di Calvino; se scorro il calendario riformato vi
trovo espunti gli stessi Santi che cancellarono gli eretici della
Pseudoriforma.
E così per i canti, che farebbero inorridire un Cattolico
inglese o tedesco: sentire sotto le volte di una chiesa i corali di chi
martirizzava i nostri sacerdoti e calpestava il Santissimo Sacramento
in spregio alla “superstizione papista” dovrebbe far comprendere
l’abisso tra la Messa cattolica e la sua contraffazione conciliare.
Senza parlare della lingua: i primi ad abolire il latino furono proprio
gli eretici, in nome di una maggior comprensione dei riti per il
popolo; un popolo che essi ingannavano, impugnando la Verità
rivelata e propagando l’errore. Tutto è profano, nel Novus Ordo.
Tutto è momentaneo, tutto accidentale, tutto contingente,
variabile, mutevole. Non c’è nulla di eterno, perché
l’eternità è immutabile, come immutabile la Fede. Come
immutabile è Dio.
Vi è un altro aspetto della Santa Messa tradizionale che mi
preme sottolineare, e che ci unisce ai Santi e ai Martiri del passato.
Sin dai tempi delle catacombe e fino alle ultime persecuzioni, ovunque
un sacerdote celebri il Santo Sacrificio, fosse anche in una soffitta o
in una cantina, nella boscaglia, in un granaio o persino in un furgone,
egli è misticamente in comunione con quella schiera di eroici
testimoni della Fede, e su quell’altare improvvisato si posa lo sguardo
della Santissima Trinità, dinanzi ad esso genuflettono adoranti
tutte le schiere angeliche, ad esso guardano le anime purganti. Anche
in questo, soprattutto in questo, ognuno di noi comprende come la
Tradizione crei un legame indissolubile attraverso i secoli non solo
nella gelosa custodia di quel tesoro, ma nell’affrontare le prove che
essa comporta, fosse anche la morte. Dinanzi a questo pensiero,
l’arroganza del tiranno presente, con i suoi deliranti decreti, ci deve
rafforzare nella fedeltà a Cristo e farci sentire parte
integrante della Chiesa di tutti i tempi, perché non si
conquista la palma della vittoria se non si è pronti a
combattere il bonum certamen.
Vorrei che i miei Confratelli osassero l’inosabile: vorrei che si
accostassero alla Santa Messa tridentina non per compiacersi del pizzo
di un camice o del ricamo di una pianeta, o per una mera convinzione
razionale sulla sua legittimità canonica o sul fatto che essa
non sia mai stata abolita; ma con il timore reverenziale con cui
Mosè si avvicinò al roveto ardente: sapendo che ciascuno
di noi, al ridiscendere dall’altare dopo l’ultimo Vangelo, in qualche
modo è interiormente trasfigurato perché vi ha incontrato
il Santo dei Santi. È solo lì, su quel mistico Sinai, che
possiamo comprendere l’essenza stessa del nostro Sacerdozio, che
è donazione di sé a Dio, anzitutto; oblazione di tutto se
stesso assieme a Cristo Vittima, per la maggior gloria di Dio e la
salvezza delle anime; sacrificio spirituale che dalla Messa trae forza
e vigore; rinuncia di sé, per lasciar posto al Sommo Sacerdote;
segno di vera umiltà, nell’annichilimento della propria
volontà e nell’abbandono alla volontà del Padre,
sull’esempio del Signore; gesto di autentica “comunione” con i Santi,
nella condivisione della medesima professione di Fede e dello stesso
rito. E vorrei che questa “esperienza” la facessero non solo quanti da
decenni celebrano il Novus Ordo,
ma soprattutto i giovani sacerdoti e quanti svolgono il proprio
Ministero in prima linea: la Messa di San Pio V è per spiriti
indomiti, per anime generose ed eroiche, per cuori ardenti di
Carità per Dio e per il prossimo.
Lo so bene: la vita dei sacerdoti di oggi è fatta di mille
prove, di stress, di sensazione di essere soli a combattere contro il
mondo, nel disinteresse e nell’ostracismo dei Superiori, di un lento
logorio che distrae dal raccoglimento, dalla vita interiore, dalla
crescita spirituale. E so benissimo che questa sensazione di assedio,
di trovarsi come un marinaio solo a dover governare una nave in
tempesta, non è appannaggio dei tradizionalisti né dei
progressisti, ma è destino comune di tutti coloro che hanno
offerto la propria vita al Signore e alla Chiesa, ognuno con le proprie
miserie, con i problemi economici, le incomprensioni con il Vescovo, le
critiche dei confratelli, le richieste dei fedeli. E quelle ore di
solitudine, in cui la presenza di Dio e la compagnia della Vergine
sembrano svanire, come nella notte oscura di San Giovanni della Croce. Quare me repulisti? Et quare tristis incedo, dum affligit me inimicus? Quando il demonio serpeggia maligno tra internet e la televisione, quærens quem devoret,
approfittando a tradimento della nostra stanchezza. In quei casi, che
tutti noi affrontiamo come Nostro Signore nel Getsemani, è il
nostro Sacerdozio che Satana vuole colpire, presentandosi suadente come
Salomé dinanzi a Erode, chiedendoci in dono la testa del
Battista. Ab homine iniquo, et doloso erue me.
Nella prova, siamo tutti uguali: perché la vittoria che il
Nemico vuole riportare non è solo sulla nostra povera anima di
battezzati, ma su Cristo Sacerdote, del quale portiamo l’Unzione.
Per questo, oggi più che mai, la Santa Messa tridentina è
l’unica ancora di salvezza del Sacerdozio cattolico, perché in
essa il sacerdote rinasce, tutti i giorni, in quel tempo privilegiato
di intima unione con la Trinità beata, e da essa trae le grazie
indispensabili per non cadere nel peccato, per progredire sulla via
della santità, per ritrovare il sano equilibrio con il quale
affrontare il Ministero. Credere che tutto ciò possa liquidarsi
come una mera questione cerimoniale o estetica, significa non aver
capito nulla della propria Vocazione. Perché la Santa Messa “di
sempre” – e lo è davvero, come da sempre è avversata
dall’Avversario – non è un’amante compiacente che si offre a
chiunque, ma una sposa gelosa e casta, come geloso è il Signore.
Volete piacere a Dio o a chi vi tiene lontani da Lui? La domanda, in
fondo, è sempre questa: la scelta tra il soave giogo di Cristo e
le catene della schiavitù dell’avversario. La risposta vi
apparirà chiara e limpida nel momento in cui anche voi,
stupendovi di questo incommensurabile tesoro che vi è stato
tenuto nascosto, scoprirete cosa significhi celebrare il Santo
Sacrificio non come patetici “presidenti dell’assemblea”, ma come
«ministri di Cristo e dispensatori dei Misteri di Dio»
(ICor 4, 1).
Prendete in mano il Messale, chiedete aiuto a un sacerdote amico, e salite sul monte della Trasfigurazione: Emitte lucem tuam et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua. Come Pietro, Giacomo e Giovanni esclamerete: Domine, bonum est nos hic esse,
«Signore, è bello per noi restare qui» (Mt 17, 4).
O, con le parole del Salmista che il celebrante ripete all’Offertorio: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ.
Quando l’avrete scoperto, nessuno potrà più togliervi
ciò per cui il Signore non vi chiama più servi, ma amici
(Gv 15, 15). Nessuno potrà mai convincervi a rinunziarvi,
costringendovi ad accontentarvi della sua adulterazione partorita da
menti ribelli.
Eratis enim aliquando tenebræ: nunc enim lux in Domino. Ut filii lucis ambulate.
«Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore.
Comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5, 8). Propter quod dicit: Surge qui dormis, et exsurge a mortuis, et illuminabit te Christus.
«Perciò sta scritto: Risvegliati, o tu che dormi, risorgi
dai morti, e Cristo risplenderà su di te» (Ef 5, 14).
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo
2 gennaio 2022
Sanctissimi Nominis JESU
gennaio 2022
|