Il vero volto del cardinale Agostino Bea, “ecumenista” anche prima del Concilio Vaticano II

Parte Prima

Il “Bea preconciliare sconosciuto”
e rivelato dalla Marotta


Articolo di Don Curzio Nitoglia



Il Card. Augustin Bea riceve dei notabili ebrei



Nel 2019 è uscito un libro molto interessante (Gli anni della pazienza. Bea, l’ecumenismo e il Sant’Uffizio di Pio XII, Bologna, il Mulino, 2019).
Questo voluminoso studio è stato scritto da una giovane ricercatrice in Storia contemporanea, Saretta Marotta, che cerca di risolvere (e ci riesce, almeno parzialmente) il cosiddetto “enigma Bea”.
Il porporato, infatti, è una sorta di “Giano bifronte”: conservatore prima del Concilio e progressista durante e dopo l’Assise.

L’Autrice – alla luce della desecretazione di alcuni archivi privati contenenti molti documenti del cardinal Agostino Bea, che non erano accessibili sino alla data della pubblicazione del libro – riesce a far luce su alcuni aspetti della personalità del Bea che erano rimasti nell’ombra.

Il lavoro della Marotta ricostruisce l’attività svolta da Bea nel decennio precedente il Concilio Vaticano II, ossia dal 1949 al 1959 (anno in cui Giovanni XXIII annunciò la sua idea di convocare un Concilio ecumenico).

Integrerò, successivamente, quel che scrive la Marotta con quanto ha scritto monsignor Francesco Spadafora su Bea a partire dal 1937/1948 per arrivare al Concilio (cfr. F. Spadafora, La “Nuova Esegesi”. Il trionfo del modernismo sull’Esegesi Cattolica, Sion, Editore Les Amis de saint François de Sales, 1996).

Appare chiaro, dalla lettura dei documenti riportati nel libro della Marotta, il quadro di un Bea preconciliare poco conosciuto. Infatti, egli sino al 1962 pubblicamente appariva come un “conservatore”, un esegeta serio e di formazione tradizionale, consultore di varie Congregazioni romane tra cui anche il Sant’Uffizio e, infine, egli era stato il confidente, in quanto confessore personale, di Pio XII dal 1945 al 1958.

Il quadro che appare dal libro della dottoressa Saretta Marotta, invece, ci fa scorgere anche un altro Bea, pur sempre preconciliare, ma molto originale e ben diverso da quel che appariva allora in pubblico; infatti, egli già almeno sin dal 1949 aveva avviato un dialogo – inizialmente molto prudente – con alcuni ambienti del mondo acattolico in vista di un certo ecumenismo, che sembrava allora (almeno esteriormente e pubblicamente) ancora compatibile con la visione tradizionale del ritorno dei dissidenti all’unità con la Chiesa romana.

Certamente il Bea moderatamente ecumenico dal 1949 al 1959 è molto diverso dal Bea super/ecumenista che abbiamo conosciuto pubblicamente dal 1959 al 1968, anno della sua dipartita.

La Marotta chiama il periodo preconciliare del Bea moderatamente ecumenico “gli anni della pazienza”, in cui egli maturò i contatti e la capacità, sempre più sicura e spiccata in ambito ecumenico, lavorando alacremente ma con molta circospezione: “prudente come un serpente” a quello che poi avrebbe messo in atto dopo la morte di Pio XII.

Occorre precisare che l’Autrice si limita all’ambito dell’ecumenismo tra Cristiani, quindi con gli Ortodossi e i Luterani, senza entrare nel merito del dialogo con gli ambienti a/cristiani e soprattutto con il Giudaismo postbiblico, nominato in questo libro solo di passaggio.

Inoltre, la Marotta non affronta il tema delle deviazioni esegetiche, che erano iniziate tra i gesuiti del Biblicum già a partire dal 1937, ma che, invece, è stato studiato a fondo da monsignor Francesco Spadafora (cfr. F. Spadafora, La “Nuova Esegesi”. Il trionfo del modernismo sull’Esegesi Cattolica, Sion, Editore Les Amis de saint François de Sales, 1996).

Il dilemma che il libro risolve, almeno in parte, è quello di un “vecchio Bea” (oramai settantanovenne) che con il cambio di pontificato da Pacelli a Roncalli, nel 1958, passa da una posizione di conservatorismo pubblico, a essere un “nuovo Bea” apertamente progressista, il quale viene nominato (nel 1960) da Giovanni XXIII capo del Segretariato per l’unità dei Cristiani, il quale fu la punta di diamante della rivoluzione teologica e soprattutto pan/ecumenista operata dal Concilio Vaticano II.

Infatti, Bea si rivelò in pochissimo tempo uno dei protagonisti principali e più autorevoli dell’«aggiornamento» conciliare e non solo in ambito ecumenico, come vedremo in séguito.

Quando Giovanni XXIII nominò il gesuita tedesco Bea a capo del Segretariato per l’unità dei Cristiani, il padre domenicano francese Yves Congar, restò sbalordito da quella scelta, reputando Bea, poco adatto – sia per l’età sia per la sua formazione ritenuta troppo tradizionale – a portare avanti l’opera dell’«aggiornamento» che ci si aspettava dal Concilio, da Roncalli e dal “Segretariato”; insomma, la scelta di Giovanni XXIII apparve a Congar perlomeno singolare e non adeguata, ma i fatti non gli avrebbero dato ragione.

Non sembra, dunque, che vi sia stata un’improvvisa conversione di Bea, caduto da cavallo sulla via di Damasco, nel 1958/59. Infatti, ciò che si evince dalla lettura dei documenti citati nel corso del libro della dottoressa Marotta, ci mostra un Bea che segretamente, occultamente e molto prudentemente aveva iniziato a lavorare per l’«aggiornamento» in ambito ecumenico almeno sin dal 1949.

Il gesuita tedesco, Augustin Bea (1881 – 1968), è considerato comunemente il portavoce e il fautore principale assieme a Giovanni XXIII e poi a Paolo VI della svolta ecumenista (non solo filo/luterana ma soprattutto filo/giudaica) durante il Concilio Vaticano II.

Tuttavia, in molti si son chiesti come sia potuto diventare la figura chiave dell’aggiornamento ecumenista, proprio lui che era stato – sino al 1958 – a Roma per circa trentacinque anni, dal 1924 sino al 1949, professore (dal 1924) e poi rettore (1930/49) del Pontificio Istituto Biblico, avendo contribuito – grazie anche alla prestigiosa carica che ricopriva – alla elaborazione materiale di alcuni pronunciamenti magisteriali di Pio XI e Pio XII.

Ora, come vedremo nelle prossime puntate, la Pontificia Commissione Biblica iniziò a non condannare più gli errori sin dal 1937, mentre a partire dal 1949, con la nomina del cardinal Tisserant a suo Segretario, iniziò a prendere posizioni sempre più filomoderniste in materia biblica per varcare il Rubicone negli anni Cinquanta.

Padre Bea fu professore al Pontificio Istituto Biblico (che lavorava in tandem con la Pontificia Commissione Biblica) dal 1924, ne divenne Rettore nel 1930 e rimase tale sino al 1948/49. Quindi, è difficile non ritenere che egli sia stato totalmente ignaro di quello che si faceva (o meglio, non si faceva più) alla Pontificia Commissione sin dal 1937.

Il 14 dicembre del 1959 Giovanni XXIII lo nominò cardinale, nel 1960 presidente del Segretariato per l’unità dei Cristiani.

Innegabilmente, nella vita di Bea c’è una certa rottura, ma sembrerebbe solo apparente o pubblica. Alcuni autori sostengono che egli sia cambiato realmente e sia passato da posizioni tradizionali/pacelliane a posizioni progressiste/roncalliane. Altri autori, invece, affermano che egli fosse sempre stato tendenzialmente progressista, ma che la situazione ecclesiale sino a Pio XII non gli consentisse di manifestare pubblicamente questa sua tendenza occulta e solo prudentemente esercitata.

Il «caso Lercaro» analogo al «caso» o all’«enigma Bea»

Il caso Bea non può non far pensare un altro cardinale, Giacomo Lercaro, che fece una svolta analoga a quella di Bea, la quale lasciò sorprese non poche persone.

Infatti, Lercaro, che era nato a Quinto al Mare (in provincia di Genova) il 28 ottobre del 1891 e morì il 18 ottobre 1976 a Ponticella (in provincia di Bologna), fu arcivescovo prima di Ravenna dal 1947 al 1952 e poi di Bologna dal 1952 al 1968, passando perciò da Pio XII a Giovanni XXIII e infine a Paolo VI. Anche lui era stato (durante il pontificato di Pio XII) un “pacelliano” di ferro, fermo anticomunista ma poi aveva svoltato radicalmente a sinistra tanto da essere rimosso dalla sua diocesi da Paolo VI che lo reputava esageratamente progressista e antiatlantico e, quindi, pericoloso per la stabilità degli equilibri politici non solo in Italia ma nel mondo.

Alcuni vogliono vedere in Lercaro e Bea degli “infiltrati” nella Chiesa per distruggerla, altri fanno appello al libero arbitrio umano che lascia libero l’uomo di cambiar strada. Potrebbe anche essere vera l’ipotesi che racchiude tutte e due queste piste; infatti, essi avrebbero potuto aver iniziato bene, ma poi sarebbero stati indotti da varie “circostanze” (che studieremo nel corso di questi articoli) a mutar consiglio anche se non in meglio … comunque siamo nel campo delle congetture. Nel corso degli articoli mi manterrò a quel che risulta da fatti e documenti, che sono stati messi in luce da storici seri e molto preparati, anche se di parte (la Marotta di “sinistra” e Spadafora di “destra”).

Lercaro fu ordinato sacerdote nel 1914 e poi fu consacrato vescovo dal cardinale Giuseppe Siri il 19 marzo 1947 e fu inviato da Pio XII a reggere la diocesi di Ravenna. Il 19 aprile 1952 fu trasferito alla sede di Bologna. Il 12 gennaio Pio XII lo creò cardinale.

Dopo la svolta roncalliana, già nel giugno del 1963, durante il Conclave dal quale uscì eletto papa Paolo VI, egli fu il candidato, molto votato, dell’ala progressista dei cardinali, avendo compiuto la sua “inversione a U” durante il pontificato di Roncalli. Egli fece poi confluire i circa venti voti che aveva raccolto su Montini.

Gli storici spiegano che i cardinali tradizionalisti avrebbero preferito l’apertamente progressista Lercaro al moderatamente modernista Montini, poiché l’errore nascosto fa più danni di quello palese (come succede oggi con Ratzinger e Bergoglio).

Lercaro fu un esperto liturgista sin da giovane sacerdote e divenne uno dei principali artefici della riforma liturgica già a partire dalla elaborazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia (“Sacrosanctum Concilium”), richiamandosi però sempre alla prudenza nell’applicazione della riforma liturgica per non destare reazioni da parte tradizionalista.





gennaio 2022
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