EMINENTISSIMI CARDINALI,

NON RIUNITEVI IN CONCLAVE:

ELEGGERESTE UN ANTIPAPA


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PREMESSA

Anche queste considerazioni sul prossimo Conclave, come già le precedenti sulla Rinuncia di Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI (Perché Papa Ratzinger-Benedetto XVI dovrebbe
ritirare la sua Rinuncia: non è ancora il tempo di un nuovo Papa perché sarebbe quello di un antipapa
), hanno la necessità di essere precedute dagli stessi concetti, che delineano il problema in quella che è soltanto un’ipotesi di lavoro, un delineamento il più possibile rigoroso di una tesi scientifica la cui coerenza con la dottrina petrina è e vuole restare l’unica sua ragion
d’essere.
Mentre quelle considerazioni vertevano sulla difesa in sé della Vicarietà come munus incancellabile, le presenti metteranno maggiormente in luce la pericolosità che si corre, riducendolo a termine, di dare spazio al conciliarismo, la qual cosa causerebbe un’inclinazione ulteriore a interpretare il dogma petrino in un’ermeneutica larga, progressista, sostanzialmente
antidogmatica e comunque ipodogmatica, come segnalo nel mio recente Il domani – terribile o radioso? – del dogma, ermeneutica contro la quale la Chiesa non può che mantenere a propria difesa un muro alto come il cielo.

1. PIETRO E IL PRIMO TENTATIVO DI SCENDERE DALLA CROCE


Sull’Appia antica, all’incirca all’incrocio con la via Ardeatina, ai tempi della prima persecuzione di Nerone, gli Atti di Pietro, pur apocrifi, narrano comunque di un Pietro fuggiasco, che, impaurito, terrorizzato dalla ferocia neroniana scatenata come fuoco contro la nuova setta dei Cristiani, temendo di presto perdere la vita, corre sulla strada che porta a Brindisi, per poi lì imbarcarsi verso Israele, verso Ierusalem, ma si imbatte in GESÙ, che cammina in direzione contraria, verso l’Urbe: «Quo vadis, Domine?», «Dove vai, Signore?», stupefatto gli dice. E GESÙ: «Vado a morire al posto tuo, Simone».

Papa Celestino V, a suo tempo, concepì a proprio frutto una legge, oggi recepita nel canone 332.2 del Codice di Diritto Canonico, che permette al Papa di recedere, per sua insindacabile e assoluta volontà, dal triplo mandato di munus docendi, regendi et sanctificandi datogli personalmente da Cristo: « Tu sei Pietro, e su questa Pietra fonderò la mia Chiesa » (Mt 16, 18). Il beato Celestino V usò assolutamente del potere conferitogli di monarca assoluto, ma di ciò, certo non volendo, abusò, perché – non è mai stato studiato a fondo questo istituto, proprio per il poco utilizzo che ebbe nella storia – vi è una legge metafisica, da lui e dai suoi consiglieri non consideata come dovevasi, che mostra che tale atto mette in contraddizione il papato con se stesso, e ciò non è possibile.
Aggiungo che le circostanze dell’elezione del beato monaco Pietro da Morrone al Trono più alto potrebbero un giorno essere riconosciute essere state talmente lesive della libertà del soggetto da inficiare l’elezione stessa e dunque rendere nulle sia l’elezione che la successiva Rinuncia.

2. VERO E FALSO CONCETTO DI “POTERE ASSOLUTO DEL PAPA”

Vi è una legge metafisica, dicevo. Infatti, nemmeno Dio usa assolutamente del suo potere assoluto, né lo potrebbe, ma solo relativamente, come ben spiega san Tommaso, che in primo luogo ricorda: « Nulla si oppone alla ragione di ente, se non il non-ente » e spiega: « Dunque, alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell’onnipotenza divina, ripugna solo quello che implica in sé simultaneamente l’essere e il non-essere. Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza, non per difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile. Così, resta che tutto ciò che non implica contraddizione, è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente » (S. Th., I, 25, 3).
Solo la nozione ‘Dio’ degli Islamici è una nozione assolutista, perché per essa Dio sarebbe onnipotente nel senso che può persino – per tale sua illimitata potenza – “volere non essere Dio”. San Tommaso mostra che Dio, Essere tutto in atto, non può volere ciò che ripugna all’essere: lui, l’Essere, non può voler non essere (e neanche lo può pensare).

Solo un Papa, si dice, può avere il potere di rinunciare al proprio ministero, ma tale potere non l’ha neanche il Papa, perché sarebbe l’esercizio di un potere assoluto che contrasta con l’essere di se stesso medesimo, di voler non essere il proprio essere, di voler non essere quel che si è, e si vedrà fra poco che l’elezione papale conferisce uno status sostanziale, non accidentale, e che precisamente per ciò è indistruttibile.
Infatti, imporre a sé di non essere sé, è impossibile, come si è visto essere impossibile all'essere e persino a Dio, perché, come a Dio, ciò implica la contraddizione dell’essere.
Un occhio non può dire a se stesso di accecarsi, né un piede di rattrappirsi, né un’anima, libera per definizione, di annullarsi. Essi ricevono da “altri da sé” vista, moto e vita, e da altri ancora ne riceveranno l’annichilimento. Certo, altri sono i datori di vista, moto e vita e altri i distruttori, come nel caso di un Papa i datori del suo status sono i cardinali elettori e Dio il suo rapitore, ma, come si vede, i soggetti: occhio, piede, anima o Papa che siano, per quanto perfetti in ciascuna delle specifiche loro forme di occhio, piede, anima e Papa, sono del tutto impotenti in quanto a ricevere o viceversa a vedersi sottrarre il proprio specifico status.
Preciso: in realtà a togliere il proprio specifico status è sempre e solo Dio: « Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta » (1 Sam 2, 6). Che vuol dire: il Signore, attraverso i cardinali elettori, innalza al “quasi sacramento” della vicarietà, e il Signore, con la morte, quella vicarietà toglie. Con la propria volontà lo status di Vicario di Cristo nessuno può né da sé darselo, né da sé toglierselo: vita e morte nostre sono nelle mani del Signore e non mai nelle nostre. Anche vita e morte di un Papa. Anche vita e morte dello status di Papa.

Cosa vuol dire infatti “essere Papa”? Ecco cosa vuol dire: come il sacerdote riceve uno status, un marchio – l’ordine del sacerdozio – che rimane in eterno, perché riceve dal vescovo la partecipazione al sacerdozio di Cristo che è sacerdozio eterno, e dunque, ricevendo il sacerdozio di Cristo lo deve ricevere tutto intero, con tutta la sua eternità, così anche la papalità riceve da Dio un munus spirituale: la vicarietà di Cristo Capo della Chiesa in eterno, che solo Dio può togliere. E Dio la toglie solo con la morte. Ma la toglie solo al corpo che muore, non all’anima che non muore. È solo in questo senso che si dice che Dio fa scendere dalla Croce: perché il corpo ha smesso di soffrire, ma l’anima rimane in eterno sigillata nella vicarietà – per sua natura eterna – di GESÙ Cristo.
Questo vale per tutti i sacramenti, in quanto tutti i sacramenti trasformano l’uomo in una realtà sostanzialmente diversa da quella precedente al sacramento, e a essa superiore. Ma a maggior ragione vale per la vicarietà, che è ‘ad instar sacramenti’, ‘quasi un sacramento’, nel senso che è più che un sacramento: è il fondamento di tutti gli altri sacramenti, perché Cristo, in Mt 16, 18, dopo la professione (che vedremo) di amore eterno e sommo datogli dall’Apostolo, compie verso di lui e solo verso di lui due atti perentori, univoci e personali: gli cambia il nome (da “privato” a “pubblico”) e gli conferisce con esso “il potere delle chiavi”, il munus clavium, col quale lo investe dell’infallibilità (di dottrina e di santificazione), così trasmettendogli un potere assoluto, monarchico, universale, pieno e immediato. Tale supersacramento, o trans-sacramento, non ha eguali, perché esso è il fondamento di tutti gli altri: senza di esso, si noti, non si avrebbe, della Chiesa, né santificazione, né governo (da cui l’unità), né dottrina (a causa dell’infallibilità unicamente petrina). Questa “trans-sacramentalità” va difesa a tutti i costi.
Anche dimostrando infondato il recente suo Rifiuto: Pietro non può recedere dall’essere Pietro e tornare Simone, non può recedere dal rapporto “trans-personalizzato” posto da Dio con lui, perché la qualità sostanziale di cui è stato investito non può più non essere quella che da Dio (e successivamente dai cardinali elettori) è stata posta in essere. Il carattere impresso a Simone con il nome “Pietro” è eterno, come eterno è d’altronde l’amore dato da Simone a Cristo.
Simone è trasformato in “Chiesa”: egli è la Chiesa. La Chiesa senza Pietro è nulla. Pietro la riassume in sé tutta.

I poteri che implicano l’eternità possono essere interrotti solo materialiter, non substantialiter, infatti chi è consacrato sacerdote rimane sacerdote in eterno, che egli sia post mortem eletto al Regno dei Cieli o gettato nelle fiamme perenni, e, per il caso del Papa, chi è eletto Vicario di Cristo resta Vicario di Cristo in eterno, a meno che si voglia credere che non sia eterno l’amore garantito a Cristo con le parole di Mt 16,16: « “Simone di Giovanni, mi ami tu?” “Signore, tu lo sai che ti amo”. ».
Nella Chiesa esiste un solo sacerdozio in Cristo, come sappiamo, ma i gradi di sacerdozio sono due: uno universale, al quale partecipano tutti i battezzati, e uno sacramentale, conferito con l’Ordine. Ma anche questo grado di sacerdozio, metafisicamente parlando, si distingue, nel pur unico sacramento, in due gradi giurisdizionali: uno è quello di tutti i chierici e vescovi, l’altro quello conferito al Vicario di Cristo, al Papa, in virtù della sua vicarietà: egli solo è rappresentante di Cristo in terra. Dunque quello papale non è eo ipso un sacramento, ma è ad instar sacramenti, a guisa di un sacramento, più di un sacramento, il fondamento dei sacramenti, perché Cristo stesso lo ha voluto per sua stessa natura “pieno, immediato, universale” (cfr. Can. 331).
Il Papa, inoltre, riceve da Dio ad personam un vincolo mistico tra sé e il Corpo mistico della Chiesa che lo lega a essa con un laccio divino unico, che non ha assolutamente nessun altro membro della Chiesa: esso è il medesimo e identico laccio con cui ad essa con il suo amore divino – e dunque legame divino – è legato Cristo stesso.
La Chiesa ne è tanto consapevole, che, giusto in questi giorni (il 22 febbraio!), fin dal IV secolo celebra la festa della Cattedra di Pietro, fondamento su cui poggia e in cui è raccolta l’unità della sua dottrina e di essa stessa medesima.
Questo vincolo, tre volte stretto all’essere dal laccio perentorio della risposta « Signore, tu lo sai che ti amo » alla perentoria domanda di Cristo: « Simone di Giovanni, mi ami tu? », lo può togliere solo la morte. Ma è un’interruzione materiale: l’amore proclamato, dunque affermato come ‘fatto presente nell’essere’, nell’essere rimane in eterno. È il carisma di Pietro.


3. LA RINUNCIA DI UN PAPA DAVANTI ALLA LEGGE CANONICA
E DAVANTI ALLA LEGGE METAFISICA DELL’ESSERE


La rinuncia del ministero petrino non è permessa metafisicamente, e nemmeno misticamente, perché nella metafisica è legata al laccio dell’essere, che non permette che una cosa contemporaneamente sia e non sia, e nella mistica è legata al laccio del Corpo mistico che è la Chiesa, per il quale la vicarietà assunta con il giuramento dell’elezione pone l’essere dell’eletto su un piano ontologico sostanzialmente diverso da quello vescovile: dal piano già alto del sacerdozio sacramentale di Cristo lo pone sul piano ancor più metafisicamente e misticamente alto – e unico – di Vicario di Cristo.
Dunque la legge è sovrastata dalla metafisica: la storia (la legge positiva, fosse anche canonica, appartiene alla storia) è sovrastata dalla metafisica, dall’ontologia, ossia dalla verità delle cose, dalla legge naturale, ovvero, in primis, dalla legge del principio di non-contraddizione, cui tutto deve sempre e assolutamente obbedire.

Il Papa Benedetto XVI ha voluto giustificare il suo atto per « essere stato chiamato da Dio a salire sul Monte » (Angelus di domenica 24-2-13), ma, con il rispetto più profondo per il teologo e per il Papa, teologo e Papa dovranno sovvenirsi che Dio “chiama” solo con atti esterni e ben distinguibili da quelli che potrebbero essere scambiati per impulsi della propria volontà, proprio per non permettere né al soggetto né a chi gli è attorno di confondere una scelta divina e soprannaturale con una scelta umana e soggettiva: questi atti esterni e oggettivi sono la nascita, la morte, eventi naturali, circostanze storiche manovrate da terzi (come un’elezione papale), e mai fatti come voci interiori, sogni o anche molto ponderate e ragionevolissime valutazioni, le quali comunque, se avvenute, debbono poi essere sempre suffragate da avvenimenti oggettivi.

Il Santo Padre sostiene che « resta in modo nuovo presso il Signore Crocifisso nel recinto di san Pietro » (Udienza generale del pontificato, giovedì 27-2-13), ma, Dio mi perdoni, va detto invece che questo « modo nuovo » confligge esplicitamente e palesemente, lo dice la stessa espressione, con il semper et ubique di Leriniana memoria (criterio recepito dal Vaticano I, Cost. Dogm. Dei Filius), cui deve essere improntato ogni atto magisteriale che vuol avere un qualche fondamento in Magistero, Sacra Scrittura e Tradizione. Tale « modo nuovo » è una figura incompossibile con la dottrina cattolica, adattando con evidente arbitrarietà al caso specifico attuale – un Pontefice che vuole sottrarsi a un ruolo di governo per il quale ritiene inidonea la sua indole di studioso; ma allora perché non rifiutare l’elezione, a suo tempo, come pare abbia fatto il cardinale Siri, e forse per ben due volte? Il canone 332.1 gliene dava la più ampia facoltà – una legge canonica che già di suo fuoriesce in tutto dall’ordinamento metafisico. Perché dico “evidente arbitrarietà”? Perché neanche l’Altissimo Soggetto che oggi lo ha congetturato e deciso lo ha saputo supportare con un qualche precedente, anche solo analogico.
Egli, nella citata Udienza generale, specifica il « modo nuovo » nell’« esercizio passivo del ministero petrino », figura appunto del tutto nuova di ministero, che dovrebbe a suo dire avvicinarsi alla via di san Benedetto da Norcia, di cui porta il nome pontificale, ma tralascia che la via indicata dal grande Patrono d’Europa, distinta in « attiva e passiva », era tracciata per la vita ritirata di preghiera del monachesimo, non per il carisma di triplice e universale munus tutto proiettato sulla res publica Ecclesiæ che si è visto attinente al Vicario di Cristo: non vi è e non vi può essere un “governo passivo”, ciò è solo una contraddizione in termini: o si governa o non si governa, e il Papa, in quanto Papa, ha il compito specifico di governare, non di pregare. E di ciò si rendeva conto Papa Gregorio Magno, chiamato all’altissimo incarico dal suo stato di benedettino, e se ne lamentava, accettando però la chiamata e adoperandosi fortemente per il suo migliore risultato, tanto da essere chiamato, appunto, Magnus, Grande.

Sta forse entrando subdolamente nel Ministero sacro una nuova forma di ministero? Si direbbe di sì: quello “attivo”, a termine, e quello “passivo”, « ultimo tratto di strada » dopo l’“attivo”, come se di quest’ultimo si possa prevedere un “dopo”. Tutto ciò – lo dico solo per dare un nome alle cose, lontano da me ogni desiderio di scandalo – è solo un gigantesco monstrum, una terribile figura ministeriale, ripeto, incompossibile con la realtà. Giuridicamente, metafisicamente, misticamente, un qualcosa che non si sa dove collocare, perché il luogo logico dove dovrebbe trovarsi, se per ipotesi essa si trovasse ancora nella realtà, è sbarrato dal principio di non-contraddizione visto sopra allorché è stato congetturato come possibile: è stato congetturato possibile, ma non lo era, e volendolo egualmente, chi lo ha in tal modo voluto ha forzato la realtà, ha creato una irrealtà, una nuvola, per così dire, che però di suo non si trova in nessun luogo.

4. IL CONFLITTO TRA LEGGE CANONICA E LEGGE METAFISICA
GENERA RELATIVISMO E PERDITA DEL SENSO DI AUTORITÀ


Non considerare questi fatti è a mio parere un colpo micidiale al dogma, rinunciare è perdere il nome universale di Pietro e regredire nell’essere ‘privato’ di Simone, ma ciò non può metafisicamente darsi, perché il nome di Pietro, di Cephas, di Roccia, è dato su un piano divino a un uomo che, ricevendolo, non è più solo se stesso, ma “è Chiesa”: « Tu sei Pietro, e su questa Pietra fonderò la mia Chiesa » (Loc. cit.). Rinunciare, poi, è far decadere nel relativismo e nel transeunte un munus, un carisma, di per sé, come visto, assoluto. Tanto più grave, il colpo, se dato da un uomo di Chiesa, da un Papa, che ha fatto della battaglia contro il relativismo un punto d’onore: la rinuncia è una esplicita e dichiarata «desistenza dell’autorità », come la chiamava Romano Amerio, con quel che segue: soggettivismo, imperio di sé, arbitrarietà, liquefazione e perdita, alla fine, in questa omologazione ai principi liberali ultimi della “società liquida” in cui stiamo con gran difficoltà vivendo, dell’attaccamento, dell’amore al dogma.

Il dogma rigetta il colpo, e non ne risente, perché l’atto non è stato formalizzato dogmaticamente, ma ne risente la Chiesa nel suo ambito umano, che difatti accusa il colpo nella sua confusione estrema, nella prostrazione e nel turbamento massimi subito corsi per tutta la cattolicità.
Perdita ulteriore dell’identità delle cose, per cui un Papa può affermare come « modo nuovo » quello che sarebbe solo un « modo proibito »; un « esercizio passivo del ministero petrino » quello che di suo sarebbe in realtà, drammaticamente, solo un « esercizio mancato ».
Per non parlare dei nomi con cui si sarebbe deciso di appellare il Papa “dismesso”: « Papa emerito », « Sommo Pontefice emerito », o, come suggerisce il gesuita Gianfranco Ghirlanda, « vescovo di Roma emerito », come se un padre di famiglia possa smettere di fare il padre di famiglia (ma, ricorda Marcello Veneziani, « semel abbas, semper abbas »: una volta padre, sei sempre padre: la paternità nessuno se la può togliere), e in ogni caso ‘emerito’ significa ‘per meriti’, ma ciò confligge con la chiamata, con l’elezione al Soglio, che non è meritoria, non è vocazionale, ma imposta e accettata, e, una volta rinunciata, stride pensare che si possa riverire il rinunciatario
‘per i meriti acquisiti’ nell’esercizio di un potere ricevuto.

Tutto questo solo per dire, con i primi esempi che vengono, che allorché si dissuggella il principio di non-contraddizione, da tale prima falsificazione delle cose si è costretti a passare a una sequela di altre alterazioni sempre più inverosimili che non avrà fine se non con il ripristino della verità prima, di quella verità dissuggellata.

5. ULTIMA CONSEGUENZA DEL NON RISPETTO DEL PRINCIPIO
DI NON-CONTRADDIZIONE SARÀ DOMANI LA CREAZIONE,
FORSE IMPREVISTA E NON VOLUTA, DI UN ANTIPAPA


Senza contare che si sta realizzando la probabilità che, lasciando che una legge positiva permanga nell’ordinamento canonico malgrado sia in patente contrasto con una legge metafisica che le è superiore e che deve governarla, ciò porta a conseguenze ancor più gravi della gravità dell’atto compiuto a mezzo di quella legge: non potendo in realtà dimettersi il Papa autodimessosi, il Papa subentrante, suo malgrado, in realtà, metafisicamente parlando, che vuol dire nella realtà più vera e che di per sé sorpassa ogni legge storica, non sarà che un antipapa. Ma regnante sarà lui, l’antipapa, non il vero Papa, ora “dimesso”. Siamo tornati ai secoli atri di Guiberto e di Maginulfo, ma ribaltati; dunque ora, di quelli, questo nostro secolo parrebbe anche peggiore.
“Peggiore”, perché in questo secolo, al contrario dei precedenti, tutto ciò si sta compiendo operando in una specie di “terra di mezzo”, come dico anche nel mio recente Il domani – terribile o radioso? – del dogma (p. 197), nella quale il magistero fluttua da cinquant’anni, ovvero dal concilio Vaticano II, tra il sì e il no, nel dire senza dire, nel grigio acquoso della non-identificazione delle cose, delle dottrine, dei costumi e degli atti, senza prendere posizione ma prendendo una nuova posizione, e questa rinuncia papale è simbolicamente paradigmatica di quella universale rinuncia sotterranea al magistero che in tutta la Chiesa ha caratterizzato questo cinquantennio: che alla fine del cinquantennio il risultato sia un Papa che crede di non essere più Papa e che tutti si nascondono come Papa e d’altro canto un antipapa neanche identificato come tale è sufficiente per riconoscere in tutta la sua universalità il magistero di questo drammatico periodo come magistero ipodogmatico e dedogmatizzante, come magistero rinunciatario di sé: una agonizzante, se non morta, maceria di sé.

E si noti bene: la rinuncia del Papa è stata accettata da tutti, ovvero da tutti i cardinali e vescovi del mondo (tranne, a essere proprio precisi, che dal cardinale Stanisław Dziwisz, ex segretario particolare di Giovanni Paolo II, che subito affermò: « Non si scende dalla croce »), da tutti i fedeli del mondo, da tutti i movimenti ecclesiali del mondo (tranne Militia Christi, che seppe militare contro) e persino – e più ancora – da tutti i relativisti “laici”, cioè agnostici e atei, massoni e non massoni, del mondo. Nessuno dei cardinali e dei vescovi – tranne il suddetto – si è levato a obiettare l’ingiustizia metafisica e mistica dell’atto, nessuno ha alzato la sua voce per gridare e denunciare il vuoto di realtà che esso produceva nel magistero, nell’identità delle cose e nel concetto primario di autorità. Come faccio notare in Il domani del dogma, dal concilio Vaticano II in qua il linguaggio del magistero è universalmente atono, ipodogmatico, sotto il necessario livello di qualità “aletica”, ossia « conduttrice sana di verità » (p. 237), per il quale è stato istituito. Ma che vi sia quasi universalmente un’omologazione all’errore è dovuto al ruolo dei media e dalla oggi distorta e interessata obbedienza al Trono.


6. IL VERO ATTO DI CORAGGIO, SCANDALO DEL MONDO,
È NON SCENDERE DALLA CROCE A NESSUN COSTO, E,
PER I CARDINALI ELETTORI, NON FARVI SALIRE NESSUN ALTRO:
L’UNICO PAPA REGNANTE È ANCORA BENEDETTO XVI.


Il Santo Padre Benedetto XVI ha compiuto e formalizzato il suo atto di rinuncia, si è « ritirato sul Monte ». Ora i cardinali elettori stanno per riunirsi in Conclave. Ma non tutto è perduto: fino a che non viene eletto, la Chiesa non subisce il rovescio di un nuovo antipapa, la sciagura di una « desistenza dell’autorità » tale da trovarsi con due autorità, di cui una metafisicamente e misticamente del tutto nulla. E l’altra, e uso un eufemismo, ma mi si intenda, come minimo in conflitto col principio di non-contraddizione.
Inoltre, come accennato all’inizio, se i cardinali elettori desistessero dal riunirsi in Conclave, spunterebbero sul nascere gli argomenti con cui la Rinuncia porta a diminuire la distanza tra il Papa e il corpo dei vescovi, argomenti vicini al conciliarismo, alla flessione dell’autorità papale e all’eresia antipapale degli Ortodossi, fatto, questo, da considerare ultimo nell’ordine delle considerazioni, ma solo nel senso che con “ultimo” si intende ‘il più grave’.

Con nell’animo queste considerazioni, non le “dimissioni”, ma il loro ancora possibile ritiro diventa sì un atto di soprannaturale coraggio, e Dio solo sa quanto la Chiesa abbia bisogno di un Papa soprannaturalmente, e non umanamente, coraggioso. Un Papa cui non inneggino i liberali di tutta la terra, ma gli Angeli di tutti i Cieli.
Un Papa martire in più, giovane leoncello del Signore, porta più anime al Cielo che cento Papi dimissionati (quanti potrebbero essere da oggi in futuro i Papi).

Atto dunque dettato da argomenti soprannaturali, riconoscendo che dalla Croce gloriosa non si scende perché comunque non si può scendere, meglio: perché, pur tentati, non c’è la strada per scendere, e la strada che si intravvede esservi non è vera, non è reale, ma è una strada di nuvole, è strada di niente, e tanto più non può scendere e percorrere quella strada inconsistente la persona del Papa: la propria libertà, in specie se libertà di Papa, è affissata, è inchiodata alla volontà divina, unica, potente e vera Realtà che sulla Croce mistica ha voluto con sé il suo Vicario.

Enrico Maria Radaelli
Director of Department of Æsthetic Phylosophy
of International Science and Commonsense Association (Rome)
www.enricomariaradaelli.it





marzo 2013

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