Abusi liturgici e deragliamenti teologici
 incistati nel Nuovo Rito della Santa Messa
e divenuti luoghi comuni.

Parte seconda


di Luciano Pranzetti

Presentazione


Il 3 aprile del 1969, Papa Paolo VI, con la Costituzione Apostolica Missale Romanum, riformava il Rito Tridentino della Santa Messa rimovendo il latino con l’imporre le lingue nazionali, cancellando rubriche e inserendo novità rituali. L’intera operazione, diretta da Mons. Annibale Bugnini – in lezzo di massoneria (23/4/1963, matricola di loggia 1365/75, BUAN – cfr. OP 12 sett. 1978)  e con la illegittima ed inquinante partecipazione di sei ‘esperti’ protestanti – ha deformato l’identità della Messa riducendola a ‘sinassi’ del popolo di Dio, cioè come assemblea del popolo, smentendone il vero e unico significato di sacrificio, e facendo dell’assemblea stessa il referente privilegiato al punto che molti sacerdoti rinunciano alla celebrazione del sacro rito quando si verifica l’assenza di pubblico.

Prima di passare in rassegna le voci in tema, è necessario definire il concetto e la dinamica del termine ‘liturgìa’ onde evitare fraintendimenti ed inesattezze.
Leiturghìa’: dal greco ‘leiton’ – luogo di affari pubblici – (derivato a sua volta da ‘laos’ – popolo) – e ‘ergon’ – opera - che nell’edizione biblica dei LXX assume il significato di ‘servizio al tempio’. È il complesso tradizionale delle norme che scandiscono i tempi, le formule, i gesti, i simboli, i paramenti di un rito religioso officiato da un celebrante legittimato a rivestire dignità di sacerdote, intermediario tra Dio e l’uomo e stabilisce, in termini inequivocabili, ciò che spetta di competenza all’officiante e ciò che pertiene alla comunità dei fedeli che vi assiste.

Il documento che analizza in profondità ed altezza una parte della riforma liturgica conciliare è, senz’altro il “Breve esame critico del Novus Ordo Missae” presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci il giorno della festività di Corpus Domini 1969. Stimando tale documento di stretta competenza specialistica, noi ne abbiamo illustrati, per quella platea di lettori di ordinaria cultura, alcuni di maggior immediata comprensione. Vediamo, allora, quanti e quali luoghi comuni e quali errori essi arrecano nella vigente liturgìa cattolica riferita al rito della Santa Messa riformata, così come in appresso - qui presentatati in tre parti :

  Parte prima:
- Confesso a Dio Onnipotente.
- Gloria.
  Parte seconda
- Consacrazione.
- Post Consacrazione.
- Padre nostro.
  Parte terza
- Datevi un segno di pace.
- Buona domenica a tutti.
- Postilla 1
- Postilla 2


PARTE SECONDA



CONSACRAZIONE





È il momento trascendente, e centrale, del rito in cui si compie il mistero della ‘Transustanziazione’ per la quale il pane e il vino, pur mantenendo apparenza di specie, diventano vero Corpo e vero Sangue di Cristo. Perché si realizzi tale mistero, il sacerdote celebrante prega il Signore Dio di santificare “questi doni con la rugiada del tuo Spirito” perché diventino il Corpo e il Sangue del Figlio e, successivamente pronuncia la formula che dice: “Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, offerto per voi in sacrificio/Questo è il calice del mio Sangue sparso per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di Me”.
Sùbito dopo, il celebrante intona “Mistero della fede” a cui i fedeli rispondono “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, in attesa della tua venuta.
 
Figurano, in questo tratto del rito, quattro deprecabili luoghi, e cioè: un'ambiguità oscura e pericolosa, uno stravolgimento della Parola di Cristo, un abuso e un’eresìa.
Vediamoli:

a – Il Liber mutus è un testo della tradizione ermetica fatto proprio dalla massoneria. Pubblicato nel 1667 – successivo alla Atalanta fugiens di Michael Maier del 1617 – si compone di 15 tavole, con commento, che illustrano le fasi della Grande Opera (Opus Magnum) attraverso le quali, dallo stato Nero, si passa al Bianco per giungere al Rosso ove il piombo – materia spuria, opaca – diventa oro. Si tratta, naturalmente, di un codice simbolico per indicare la trasformazione dell’uomo materiale in una realtà spirituale.
Nella terza tavola si osservano un uomo e una donna che, di mattina strizzano 5 lenzuoli, stesi nella notte, per raccogliere, in una bacinella, la rugiada e le tavole successive ne illustrano gli stadi della cottura, della distillazione e della evaporazione. Il resto è un prolisso processo metamorfico che è entrato nella liturgia massonica e gnostica ad indicare, nella rugiada, le grandi acque dell’universo, origine della vita.

Con sì fatti elementi, l’aver inserito nell’epiclesi – la preghiera con cui si chiede la trasformazione sostanziale del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù – questa sezione alchemica, è aver mescolato alla santità del rito cattolico una parte della luciferina dottrina massonica e, con ciò, aver volontariamente contaminato il cuore stesso del mistero eucaristico. Anche perché la così detta “rugiada del tuo Spirito” è un prodotto dello Spirito, mentre, con la precedente locuzione “effusione del tuo Spirito” si ha che è lo stesso Spirito, e non un suo derivato, ad intervenire nel mistero della Transustanziazione.
Si è insinuata, in tal modo, l’impressione che tutto il complesso della Consacrazione altro non sia che un rito magico, teurgico, così come l’intende la massoneria.

Il sospetto che la mano della “Fratellanza 3 puntini” abbia gestito l’intera operazione revisionistica non è, poi, così peregrino visti gli ultimi contatti intercorsi tra la Gerarchia Cattolica e il GOI (Grande Oriente d’Italia) resi pubblici nella lettera del cardinale GF. Ravasi – 14-2-2016 - “Cari fratelli massoni”.  E che dire, d’altronde, di Papa Francesco Bergoglio, iscritto quale “Socio onorario” al Rotary Club, ramo della massoneria nordamericana?                      

b - Il testo originale greco non dice ‘per tutti’, ma ‘per molti’ – perì pollòn (Mt. 26, 28) prevedendo, Cristo, che da questo Sacramento non tutti gli uomini avrebbero, per propria volontà, tratto profitto.
Ma la ‘nuova teologìa’, sorta dall’eretico Concilio Vaticano II e confermata dai Papi – Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco I – stabilisce che tutti gli uomini sono stati giustificati, e salvati gratuitamente senza pagar dazio, dalla morte di Gesù, compresi i seguaci delle altre religioni che Giovanni Paolo II afferma essere incluse nel mistero dell’Incarnazione di Cristo quando scrive: “Il Verbo Incarnato è dunque il compimento dell’anelito presente in tutte le religioni dell’umanità” (Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente – 10 nov. 1994, n. 6).
Pertanto, sfacciatamente si corregge il Verbo di Dio – Via, Verità, Vita - il quale aveva affermato: “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mt. 24, 35).

Ma Colui che è PAROLA di DIO – Verbum Dei - non aveva fatto i conti con gli aggiornati dragomanni correttori di bozze conciliari che, sapendone più di Lui, vi hanno tirato un frego svaporando quella verità divina per sostituirla con una accezione di esclusivo dominio antropologico. Una menzogna, un tradimento, un sacrilegio oltre che una crassa ignoranza del costrutto semantico dacché se fosse stata intenzione di Gesù estendere a tutti il beneficio dell’Eucaristia non sarebbe stato necessario premettere per voi in quanto, gli Apostoli, erano già compresi nel tutti.

A conferma di quanto sosteniamo, c’è la Parola di Gesù che, in altra occasione, adotta lo stesso modulo, come quando afferma: “Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per moltii (Mc. 10, 45) dove il testo greco recita: antì pollòn che San Girolamo traduce con: pro multis.

Ed ancora: “Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele” rivela Simeone (Lc. 2, 33). Il testo canonico, in lingua greca, così recita: “idù kéitai eis ptòsin kai anàstasin pollòn en to Israel”, che san Girolamo traduce con: “Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionm multorum in Israel”.
Ulteriore prova ci viene da questa altra affermazione di Gesù: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Mt. 22, 14) che, come si legge nella versione greca – unica ritenuta canonica, ripetiamo – così dice: “Pollòi gar èisin kletòi, olìgoi de eklektòi” e resa in latino con: Multi enim sunt vocati, pauci vero electi”.
Potremmo continuare ad escutere altre pericopi in cui, chiaramente e con forza, si afferma la salvezza e i mezzi per conseguirla – vedi l’Eucaristìa - non per tutti ma soltanto per molti.

Nell’orazione V – Preghiere di santa Brigida (per un anno) – si legge: “Rammentati, o Gesù, specchio di eterna chiarezza, dell’afflizione che avesti quando, veduta la predestinazione di quelli eletti che, mediante la tua Passione, dovevano salvarsi, prevedesti ancora che molti non ne avrebbero profittato”.
Da ciò si deduce che, evidentemente, il Figlio di Dio, distinguendo i destinatarî del Sacramento in voi e in molti, intendeva dire ciò che disse, ma per la truppa degli ermeneuti vaticansecondisti, gonfi di scienza e di presunzione, non sapeva ciò che diceva.


c– La liturgìa – come sopra s’è scritto - è scienza che regola parole, tempi, gesti, paramenti del rito in rapporto alla divinità, e stabilisce precise e nette norme che descrivono il ruolo del celebrante e della comunità dei fedeli che assistono al mistero.
Fra le varie competenze ascritte al celebrante v’è – in forza del sacerdozio ministeriale sancito dal sacramento dell’Ordine – quella, sola, esclusiva ed inalienabile di pronunciare le formule della Consacrazione. Ma, sull’onda della predetta ‘nuova teologìa’ che fa del fedele un ‘partecipante’ e non, invece, un adorante che ‘vi assiste’, non sono pochi coloro che accompagnano il celebrante pronunciando, sotto voce ma udibili, le parole della ‘epiclési’, della preghiera, o invocazione, con cui si chiede allo Spirito di Dio di trasformare il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Un abuso vero e proprio consumato con sottostante atteggiamento di superbia presumendo di rivestire il ruolo attivo del legittimo celebrante, un’indebita appropriazione di funzione.
Obbligo del fedele è, invece, osservare un raccolto silenzio – esteriore/interiore – nell’adorazione del Cristo presente nelle specie eucaristiche, col divieto di sconfinare in aree a lui interdette poiché è più che palese l’inefficacia delle parole abusivamente pronunciate.
   
E come recita l’aureo brocardo giustinianeo: “Unicuique suum” – a ciascuno il proprio còmpito.

d – Dopo lo stravolgimento della Parola di Dio e un abuso liturgico, ecco una vera e palese eresìa annidata nella formula recitata sùbito dopo l’avvenuta Transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Il sacerdote annuncia: “Mistero della fede” a cui segue la risposta dei fedeli che così suona: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione in attesa della tua venuta”.
Nella parte della formula, riportata in neretto, si annida il sottile dubbio sulla reale presenza di Cristo nelle Sacre Specie non tenendo conto che Cristo è, da qualche attimo prima, venuto trai suoi. A che mira, infatti, simile aggiunta se non a dubitare della vera e reale presenza di Cristo di cui, pur essendo più che presente, si attende tuttavìa la ‘venuta’?
Strisciante eppur concreta v’è sottesa la dottrina protestante che riduce il dogma cattolico di Gesù Eucaristico in presenza simbolica così come chiaramente annotarono i cardinali Ottaviani e Bacci nel ‘Breve esame critico del Novus Ordo Missae’ (Corpus Domini 1969): “L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: ‘Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc. donec venias’, introduce, travestita da escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare, quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta”.
Ad essere corretti è da precisare che son gli Ebrei che attendono la venuta del Messìa mentre i cattolici aspettano il “ritorno” di Cristo, cosa assai diversa. Un’eresìa, non c’è dubbio, questa ‘venuta’ che si palesa come orientamento dottrinario impresso e concordato proprio con i sei miscredenti ‘periti’ luterani e anglicani – notoriamente legati alla massoneria - nominati da Paolo VI quali membri della commissione deputata a ‘riformare’ (?) la Santa Messa di San Pio V.

Che cosa avessero a che fare degli scismatici con la liturgìa cattolica non è chiaro, chiaro, però, essendo il proposito dello stesso Pontefice, e del massone mons. Annibale Bugnini, di desacralizzarla. Ed ecco, allora, introdurre il verme nella mela, il dubbio nella Verità.

Nota: la variante della “rugiada”, di cui al punto a, non è stata introdotta dalla Commissione di mons. Bugnini, ma è frutto malsano della cultura (?) teologica di Papa Francesco Bergoglio.





POST CONSACRAZIONE

Ricordati dei nostri fratelli e sorelle che si sono addormentati nella speranza della resurrezione”, così recita il celebrante nel “memento defunctorum”. Apparentemente tutto sembra ovvio, canonico e ortodosso solo che, soffermandoci un poco ad analizzare il periodo nella categorìa teologica, si nota una sottile ma reale diluizione del dogma della resurrezione. Perché?

Si consideri la virtù teologale della speranza. Ora, senza avvalerci dei grandi teologi ma ricorrendo al Catechismo della Chiesa Cattolica – ed. LEV 2003 pag. 502 – sappiamo che questa virtù teologale si caratterizza dall’essere espressione di un forte desiderio, di un’aspirazione alla felicità “che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; le salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna”.
Quanto alla speranza, intesa in senso “laico”, essa è definita come “Sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione presente o futura di quanto si desidera” (Vocabolario Treccani, vol. V pag. 202, 1997), definizione  che non si discosta di molto da quella rilasciata dal Catechismo.

Sperare è attendere un qualcosa che potrebbe, anche, non arrivare. La speranza della guarigione, ad esempio, è l’attesa di questa, sentita come possibile ma non certa.
Dante, nella sua Commedia, rispondendo a San Giacomo, circa l’essenza della speranza, così parla: “Spene – diss’io – è uno attender certo / della gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto” (Par. XXV, 67-69) laddove certo sta per ‘risoluto, energico, saldo, tenace’ termini aggettanti sul territorio della consistenza, della tensione e non su quello della certezza del risultato. La speranza, cioè, è l’attesa fiduciosa, più o meno giustificata, ma non certa, di un evento gradito o favorevole. 

Sperare nella resurrezione è dubitare che questo evento si verifichi. Ora, dato che la resurrezione è un dogma di fede (Mt. 25, 31-45), suona assai strano che si preghi il Signore perché si ricordi dei suoi fedeli che si sono addormentati nella speranza della resurrezione dal momento che essa è avvenimento futuro certo, tanto per i giusti che per i malvagî. Pertanto è tassativo rettificare con: “. . . nella certezza della resurrezione” o mantenere la formula con la seguente integrazione: “. . . nella speranza della resurrezione in/con Cristo”.

Ecco, allora, un’altra ambiguità, che indebolisce la dottrina cattolica, inserita nel Novus Ordo Missae dalla Commissione, delegata alla Riforma Liturgica di Paolo VI, presieduta dal massone mons. Annibale Bugnini con la “consulenza” di sei “esperti” protestanti – luterani e anglicani.






PADRE NOSTRO

Uno solo è il luogo comune che, probabilmente, renderà la preghiera, insegnata da Cristo stesso, inficiata sotto il doppio versante teologico/semantico per via di un’irriverente, arrogante, distorta e ridicola correzione della Parola di Cristo, similmente a quanto esposto sopra alla voce ‘Consacrazione’, lettera a.

Nell’intervista al cardinal Giuseppe Betori – Avvenire 10/7/2017 – si ha conferma di una prossima correzione del testo evangelico, così come voluta dal Papa Francesco I, d’intesa con i più dotti biblisti in circolazione. “Un Lavoro di squadra”, osserva compiaciuto il presule fiorentino, che ha stabilito essere, il passo di Matteo 6, 13 “E non ci indurre in tentazione” del tutto inaccettabile poiché - ragionano Papa Francesco, il cardinal Betori e la squadra dei biblisti - Dio, che è somma bontà ed infinita misericordia, non può mai ‘indurre’ in tentazione. Pertanto, posta tale ‘verità’, il verbo incriminato va sostituito con altro più corrispondente alle predette divine bontà e misericordia.  

Ed ecco, allora, escire dal cilindro del vocabolario conciliare la magica soluzione sostitutiva: “Non ci abbandonare alla tentazione”, formula che, dalla prima domenica di Avvento - 2020 - verrà recitata ufficialmente. Una formula, come abbiam detto sopra, che determina una doppia nefasta deriva: teologica e semantica e di cui ci apprestiamo a rendere conto e ragione.
 
Il N. T., come si sa, è scritto in lingua greca che, pur diversa essendo dall’aramaico parlato da Gesù, è testo canonico su cui si fondano l’intera Rivelazione e il ‘Depositum fidei’. Ciò per dire che, greca o aramaica la versione, niente cambia ai fini della inerranza della Parola di Dio fattosi uomo.
  
Cosa dice, allora, Gesù (Mt. 6, 13)? Dice testualmente “kài mè eisenègkes hemàs èis peirasmòn, allà rysai hemàs apò tù ponerù”, corrispondente al latino della Vulgata di San Girolamo  “et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo”, cioè, “E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”.

Papa, cardinal Betori e squadra di biblisti affermano che Dio non induce in tentazione. Bene, ci dicano allora, che cosa voglion significare le tante prove – vere e proprie induzioni in tentazione – a cui, come racconta il V. T., il Signore sottopone i progenitori nell'Eden, Israele, i profeti, Abramo, Giobbe 2, 10 (Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?), così come recita il salmo 138, 1 e come si legge nel N. T. – vangelo di Matteo 4, 1/11 – lo stesso Gesù essere indotto in tentazione, messo alla prova come espressamente recita il testo greco “Tóte o Iesùs anèchthe éis tèn érmon ypò tù Pnèumatos peirasthènai ypò tù diabólu” – Tunc Iesus ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a diabolo – Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito (Santo) perché fosse tentato dal diavolo.
   
Insomma: da quanto sopra esposto ne vien fuori che il Signore Iddio Padre – come attesta la parola di Gesù - ci può, sì, indurre in tentazione ma mai in peccato, nel qual caso sarebbe veramente da pensare a una correzione, eccome! Ma le cose non stanno in questi termini ché il Figlio di Dio conosce bene le parole essendo Egli stesso Verbum Dei, la Parola di Dio.

Non c’è ragione per dilungarci a dimostrare quanto presuntuosa ed offensiva sia la decisione di cancellare il verbo ‘indurre’ per ‘abbandonare’ in quanto è chiarissimo e incontestabile il potere e la volontà che Dio ha di imporre prove, cioè, ‘indurre in tentazione’, così come bene recita il salmista.

Gravissimo atto di protervia culturale e di ribellione, pertanto, si pone, sotto l’aspetto teologico, siffatto tentativo di correggere il Verbo di Dio ritenuto non al passo dei tempi. Eresìa, non v’è dubbio.

Ora, se con la sostituzione di ‘indurre’ con ‘abbandonare’ s’è compiuta, riferita al versante teologico, un’azione eretica e un’offesa a Colui che è Verità, sotto quello semantico s’è raggiunto il massimo del ridicolo. I soloni, che pretendono di rettificare Cristo, sono naufragati nel mare del comico peggiorando ancor il criticato ‘indurre’. Noi, pertanto, con l’ausilio della sola analisi etimo/logico/semantica dei due verbi – indurre/abbandonare – dimostreremo come l’adozione del secondo realizzi una visione palesemente più forte del primo, addirittura sacrilega. Vediamoli.

a – Indurre. Verbo che ricalca il latino ‘in-ducere’ – condurre verso – e che, nelle varie e molteplici circostanze in cui viene flesso, sta a significare un dinamismo con cui un soggetto spinge e/o viene spinto a comportamenti, gesti per lo più negativi come: indurre in errore, indurre a delinquere . . .
Ora, considerando l’etimo e la semantica, si può notare come nel composto in-durre sia presente un iniziale moto a cui il soggetto collegato non viene necessariamente coartato a cedere, tanto che l’indurre in tentazione altro non è che un ‘tentativo’, operazione che sollecita a compiere un alcunché ma non necessariamente a condurlo a termine.
Abbiam detto sopra che Dio ‘mette alla prova’ sì come appare, fra i numerosi, dagli esempî di Giobbe e di Gesù, due che, in modo diverso, seppero respingere l’induzione dandoci il modello per come si possa superare un momento critico.   

Fatto, pertanto, chiaro che lo ‘indurre’ del Padre Nostro esprime la volontà di Dio secondo la quale Egli mette alla prova, non è automatico che l’uomo debba cadere nel peccato in quanto il suo libero arbitrio, illuminato e ammaestrato dalla Legge divina, gli permette la conoscenza del Bene e del male e, quindi, la volontà di resistere e vincere. Da notare, infatti, che dopo la richiesta di non essere indotti in tentazione, è lo stesso Gesù che ci dice di chiedere la liberazione dal male.

Colui che pratica sport estremi, l’acrobata, il rocciatore, mette sé stesso alla prova, si ‘induce’ nel rischio non perché debba sicuramente fallire ché non avrebbe senso alcuno sfidare il proprio limite se non venisse posta a priori la volontà di superare la linea che segna le due aree: la sconfitta e la vittoria.

b – Abbandonare. Verbo di etimologìa varia che gli specialisti riconducono a un antico francese “à ban donner” – dare in balìa di – o ad un “a bando dare” – proscrivere, lasciare definitivamente.
Comunque lo si usi, mantiene un significato di larga univocità, e cioè: lasciare qualcuno/qualcosa senza aiuto, senza protezione, dimenticare - volontariamente o non - qualcuno/qualcosa.
Insomma, il concetto che ne vien fuori dice come l’abbandonare valga azione che, riferita alla nuova formula del rivisitato Padre Nostro, farebbe di Dio un Essere perfido o scordarello che, caduto l’uomo in tentazione, ve lo lascia senza aiuto, senza possibilità di recupero, senza mezzi di riscatto, disinteressandosi di lui.
Ora, sarebbe paradossale che nella preghiera, insegnataci da Cristo stesso, si chieda al Padre di non “abbandonarcialla tentazione”, di non lasciarci soli e privi del suo aiuto ché tale è il significato del complemento di moto per il quale si raffigura il Signore che ci getta in braccio alla tentazione ivi lasciandoci soli e abbandonati.

E se i soloni avessero letto bene le parole di Gesù, avrebbero compreso che il Padre celeste non ci induce al peccato ma alla tentazione, cioè ci mette alla prova, come è dimostrato dagli esempî sopra riportati. Cosicché, la revisione operata dagli . . . “esperti”, si è rivelata una toppa, come ben si avverte, peggiore del buco che si vorrebbe rammendare, a gloria del Pontefice, del cardinal Betori e della squadra degli acculturati biblisti. 

Ed ancora: nella parte ove si recita “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”, quella messa in neretto, si avverte una traduzione del latino “sicut et nos” erronea e, pertanto, fuorviante. Non staremo, intanto, a chiosare l’errore di San Girolamo che, nella sua Vulgata, modificò il perfetto greco “os  kai hemèis aphèkamen = così come noi rimettemmo – in “dimittimus” = rimettiamo.
Nostra premura è ben altra ché la nuova locuzione “come anche” esprime un’affermazione come consequenziale alla precedente invocazione “rimetti a noi i nostri debiti”. Mentre, cioè, il latino “sicut et”, tradotto nella forma ortodossa “così come”, dice che noi avremo rimessi i nostri debiti nella misura in cui li rimettiamo, la nuova versione “come anche” dice che avremo rimessi i nostri debiti in quanto – al pari del Signore - anche noi, chiaramente, li rimettiamo. Si comprende come “anche” – congiunzione coordinativa che rafforza il rapporto copulativo con il precedente periodo – tradisca l’originale significato condizionale (nella misura in cui) affermandone uno assertivo (del pari).
  
Non si attribuisca a noi questa riflessione dal momento che è lo stesso Gesù a sottolinearla quando, dopo aver proferito l’ultima richiesta – ma liberaci dal male – precisa le condizioni che consentono di rimetterci i debiti, col dire: “Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt. 6, 14/15). Altro che “come anche” della versione modernista! Gesù premette il “se” condizionale che richiede il modo indicativo con ciò significando una sola cosa: nella misura in cui perdoneremo/non perdoneremo, il Padre celeste rimetterà/non rimetterà i nostri debiti. 

Conclusione: con la versione modernista il fedele si definisce meritevole di essere perdonato in quanto, come il Signore Dio, anche egli perdona. Vi si legge, pertanto, un atteggiamento di vellutata superbia che cancella l’originario modulo con cui si chiedeva umilmente la remissione dei peccati subordinata e corrispondente alla nostra dimostrata disposizione a rimettere. Ma a smentire siffatta falsa interpretazione sta – come sopra riportato – l’autentica, quella stabilita da Cristo.

Non ci resta, allora, che congratularci con i correttori della parola di Dio per simili esiti con cui si realizza l’antropocentrismo – dogmatico, morale e liturgico - predicato dal CVII e da Paolo VI, mettendo all’angolo il primato del Signore. 

Noi ci sentiamo in dovere di consigliare costoro, in piena e turgida fregola revisionistica, a non avventurarsi in conflitti con la Parola di Cristo ché la sconfitta, così come la figuraccia, è sicura, oltre che lo scotto da pagare.
Cosicché, appare chiaro come la sostituzione di indurre con abbandonare renda un pessimo servigio alla Verità e riveli la smania revisionistica della neo-Chiesa che, per modellare una pastorale a sola caratura umana, fa la pesa alla Parola di Dio. Ma la rivoluzione bergogliana, che gronda misericordia da ogni artiglio (cfr. azzeramento: Ordine Frati dell’Immacolata, Le piccole Sorelle di Maria Madre del Redentore, disprezzo per i 4 cardinali autori dei dubia. . . ), va avanti inarrestabile fidando sulla parola (!) di p. Arturo Sosa, attuale ‘papa nero’, il gesuita che afferma come, per essere bravi cristiani di oggi, sia necessario contestualizzare storicamente, cioè secondo l’hegeliano ‘zeitgeist' – lo spirito del tempo – la Parola di Cristo il quale, lo si dica chiaro e schietto e lo si sappia, non disponeva di registratori vocali, per cui – come si dice in tali casi – “Verba (Christi) volant” – le parole (di Cristo) volano sicché il dubbio e la revisione sono legittimi.

Iniziata, così, l’opera di demolizione nei confronti della Sacra Scrittura, non è lontano il timore che ben altri passi del Vangelo potrebbero essere soppressi o sbianchettati – vedi Marco 10, 1-12 ‘Il matrimonio’ – o alcune pericopi di San Paolo – vedi I Corinti, 6, 7-11 – perché non allineati alla nuova pastorale bergogliana.
Stìano, però attenti i sabotatori del Verbo divino ché “vendetta di Dio non teme suppe” (Pg. XXXIII, 36), e non credano di stare al sicuro per essere, loro, uomini consacrati perché proprio tale supposta garanzìa sarà motivo di maggior rigore.
San Pio da Pietrelcina ebbe in visione “Gesù tutto malconcio e sfigurato. Egli mi mostrò una grande moltitudine di sacerdoti, regolari e secolari, fra i quali diversi dignitari ecclesiastici; di questi, chi stava celebrando, chi si stava parando e chi stava svestendosi delle sacre vesti. La vista di Gesù in angustie mi dava molta pena, perciò volli domandargli perché soffrisse tanto . . . osservai due lagrime che gli solcavano le gote. Si allontanò da quella turba di sacerdoti con una grande espressione di disgusto sul volto, gridando: Macellai! E rivolto a me disse: figlio mio, non credere che la mia agonìa sia stata di tre ore, no; io sarò, per cagione delle anime da me più beneficate, in agonìa sino alla fine del mondo.” (Luigi Peroni: Padre Pio da Pietrelcina, Ed. Borla 2002, pag. 150). Dove pensate sìano andati i ‘macellai?

Anche nella recita del Padre Nostro si verifica un’indebita appropriazione di ruolo. Parliamo di quei fedeli che lo recitano a braccia aperte, imitando il sacerdote il quale è, invece, il solo autorizzato a simile rituale, a somiglianza di Mosè che, nella battaglia contro Amalek (Es. 17, 11/13), teneva, lui soltanto, le braccia sollevate consentendo, così, a Israele di prevalere.
E poi, è maniera diffusa assai, ad opera soprattutto di gruppi organizzati – Carismatici, Neocatecumenali, Focolarini, Scautismo cattolico (Agesci), Comunione e liberazione ecc. - recitare il Padre Nostro tenendosi per mano. Siffatta scenografìa si agguaglia a quella ‘catena’ che, negli antichi misteri, gli adepti formavano per destare le energìe uraniche e telluriche onde sollecitare la possessione collettiva da parte del ‘dàimon’, così come i circoli satanisti la realizzano, durante le loro sedute spiritiche, per evocare, tramite la supposta, reciproca trasmissione delle individuali energie, le ‘larve’ dei trapassati o suscitare le forze ctonie, sotterranee cioè, infernali. Una dissacrante gestualità segnata dal sigillo del paganesimo.





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aprile 2022
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