Segni di riverenza nella liturgia

di Aurelio Porfiri


Pubblicato sul sito di Marco Tosatti







Avrete osservato che se si vuole significare l’importanza di qualcuno o qualcuna, si compiono gesti verbali e non verbali. Tra questi c’è il modo di interloquire con questa persona, che nell’italiano conosce il formale “Lei” e l’ancora più formale “Voi”, gesti del corpo come il chinare il capo o altri movimenti si cui la prossemica potrebbe fornire molte più informazioni.

Non ho mai ben capito perché nella liturgia questi segni di riverenza vengono oggi dalla maggior parte dei fedeli ignorati. Se ben ricordo uno dei cavalli di battaglia della riforma della Messa è stato quello della formazione liturgica del fedele. Eppure i risultati di questa formazione, se prendiamo come riferimento i 57 anni che ci separano dall’entrata in vigore della Sacrosanctum Concilium (7 marzo 1965) sembrano ancora ben lontani dall’essere recepiti. E si parla oramai di un buon campione della popolazione, se si pensa che chi aveva circa 10 anni al tempo di quella promulgazione (cioè era in età pienamente educabile) oggi si avvicina ai 70 anni. Eppure basta osservare le liturgie nelle nostre parrocchie per rendersene conto.

Non bisogna prendersela troppo con i fedeli se si considera che l’esempio di dignità liturgica che giunge da troppi sacerdoti non è certo dei più edificanti. Modi di celebrare sciatti, fantasiosi, all’insegna di una creatività fuori posto non sono pedagogicamente il modo più adatto per invogliare i fedeli a mostrare la propria riverenza.
Plinio Corrêa de Oliveira, riferendosi ad altro, ha detto: “Dio affida a talune persone la missione di essere simboli. Esse hanno un portamento, un modo d’essere che corrisponde a una certa grazia, accompagnato dalla capacità di esprimere sensibilmente questa grazia. Hanno un modo d’essere che rende particolarmente allettante le virtù legate alla grazia. Perciò sono chiamate non solo a praticarla in modo esimio, ma a simboleggiarla”.
Ecco, possiamo applicare tutto questo anche al portamento liturgico e al modo di essere nella liturgia. Se il sacerdote per primo non simboleggia quella dignità della liturgia, come si potrà pensare che il fedele lo farà spontaneamente?
Ma prendete ad esempio il canto. Ci è stato inculcato ad nauseam che bisogna partecipare al canto, ma quale esempio ci viene da sacerdoti che per la maggior parte non cantano le parti a loro dovute?

Possiamo pensare anche alla dovuta riverenza che si deve mostrare al nome di Gesù: “L’inchino del capo si fa quando vengono nominate insieme le tre divine Persone; al nome di Gesù, della beata Vergine Maria e del Santo in onore del quale si celebra la Messa” (OGMR). Quanti sacerdoti lo fanno ancora?
Il secondo Concilio di Lione del 1274 diceva: “Quelli che vi si radunano lodino con un atto di speciale reverenza quel nome, che è al di sopra di ogni nome al di fuori del quale non ne è stato dato altro gli uomini, in cui i fedeli possano esser salvati: cioè il nome di Gesù Cristo, che salverà il suo popolo dai suoi peccati. Ciò, inoltre, che generalmente si scrive: che nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio, ognuno, adempiendolo singolarmente in sé, – specie quando si celebrano i sacri misteri della Messa – ogni volta che si ricorda quel nome glorioso, pieghi i ginocchi del suo cuore; cosa che si può fare anche col solo inchino del capo”. 
Il padre Edward McNamara (Zenit) dice al proposito: “Laddove si è persa l’usanza, qualsiasi membro dei fedeli può continuare a farlo come devozione privata e atto di riverenza e, in molti luoghi, un buon numero di cattolici mantiene la pratica. Anche per diaconi o concelebranti che esercitano una funzione ministeriale, di nuovo non ritengo che il testo dell’OGMR costituisca un divieto. Tuttavia, se si è l’unico, a parte il celebrante, a compiere il gesto, sarebbe forse meglio trattenersi dal farlo per non attirare l’attenzione su di sé”. 
Ma io ritengo che questi gesti non dovrebbero essere lasciati all’arbitrio di questo o quel celebrante ma dovrebbero essere sempre presenti come segni esterni di qualcosa che poi si vivrà internamente.
Se si torna all’esempio iniziale, è in questo modo che le persone percepiscono l’importanza delle altre persone, vedendo l’importanza dei gesti da cui vengono connotate. L’obiettivo non è non distrarre i fedeli, ma attrarli a quello che conta nella celebrazione.
In un testo del 1864, Corso di istruzioni catechistiche fatte nella metropolitana di Milano di Angelo Raineri viene tra l’altro affermato: “Siccome un tal nome fu al mondo un oggetto di ludibrio e di avvilimento, così l’eterno Padre ha voluto che divenisse al mondo un nome di ossequio e di ossequio il più profondo. Si era egli reso obbediente, dice san Paolo, fino alla morte di croce: Factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis; perciò il divin Padre, in ricompensa delle sue umiliazioni e della sua eroica ubbidienza, volle esaltarlo infinitamente. Lo esaltò donandogli un seggio maggiore d’ogni seggio, e col farlo salire alla sua destra su quel trono stesso da cui Egli governa l’universo: Sedet ad dexteram Patris; ma lo esaltò altresì dandogli un nome maggiore d’ogni nome, a cui tutte si debbano inchinare le creature, riverenti i Cieli, supplichevole la terra e tremante l’inferno: Propter quod Deus exaltavi illum, et donavit illi nomen, quod est super omne nomen. Ut in nomine Jesu omne geneflectatur caelestium, terrestrium et infernorum.
Non è quindi a stupire se la Chiesa nelle sue officiature lo pronunzia sempre con particolare contrassegno di venerazione, usando maggior riverenza al nome di Gesù che non al nome di Dio stesso, poiché il nome di Dio significa Dio semplicemente, come Signore e Creatore; ma il nome di Gesù significa ancora Salvatore e Redentore.
E noi come lo nominiamo? Sarebbe certo un riprovevole abuso, un abuso sacrilego il nominarlo senza necessità e senza la debita venerazione, come un nome ordinario e profano, e farlo entrar senza riserva e mal a proposito, come un certo intercalare, nei nostri discorsi. Peggio poi lo sprezzarlo, il maledirlo, il bestemmiarlo, come si fa da taluni nell’impeto de’ loro furori e delle loro escandescenze. Io non voglio credervi di questo numero. Comunque sia, ricordiamoci bene, che il divin Padre è geloso, gelosissimo della gloria di questo nome, e ne punirà un giorno severamente i profanatori”.

Riprendendo quanto detto in questo testo, mi viene in mente un libro che ho curato del padre Enrico Zoffoli, Abbà, in cui ci si chiedeva perché non esistesse una festa dedicata specificamente a Dio Padre ed egli rispondeva che era così perché tutto l’anno liturgico è in effetti consacrato a Lui. Però il testo appena letto deve farci riflettere su quanto viene a mancare quando non diamo quello che è dovuto al nome di Gesù o a ogni altro nome a cui è dovuta massima ed assoluta reverenza nella liturgia.









aprile 2022
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