CHIOSE A CAMILLO ROVETTI:

Considerazioni sui testi in italiano della nuova Messa di Paolo VI


di Luciano Pranzetti






Con immensa esultanza abbiamo salutato l’articolo di Camillo Rovetti riferito alle tanto banali e/o eterodosse formule presenti nella santa Messa voltata in lingua volgare, secondo il Novus Ordo varato, nel 1969, da Paolo VI coadiuvato, nell’impresa, da una commissione presieduta dal mons. Annibale Bugnini – in odore di massoneria - nella qual commissione eran presenti, in qualità di consulenti (!) sei protestanti luterani ed anglicani.

Abbiam detto di aver salutato positivamente l’articolo in predicato poiché segue quello che noi, da un paio di anni, diffondiamo nelle diocesi, sulle riviste e sulla rete, consistente nell’esame critico delle formule e delle rubriche con che è costituita l’attuale santa Messa.

Diciamo sùbito, onde sgombrare qual che sia sospetto di puntigliosa saccenterìa, che, del corposo intervento, condividiamo molti passi in cui l’autore dimostra chiarezza e verità mentre, diversamente, non ci sentiamo di accoglierne altri – pochi in verità - la cui idealità non si raccorda con l’oggettiva realtà della semantica dei fatti.

E tanto per non perderci in vane disquisizioni, citiamo gli argomenti su cui concorde è il nostro giudizio.

- capoverso 3: l’autore critica la traduzione italiana del latino “consustantialem Patri” con “della stessa sostanza del Padre” laddove sarebbe – ed è - corretto tradurre “consostanziale al Padre” dal momento che “Patri” è un dativo;

- capoverso 5: giusta la critica sulla traduzione del “vivificantem” con “che dà la vita” in quanto il verbo “vivificare” esprime ben altro significato, vale a dire: “rinvigorire, rendere più vivo”;

capoverso 6: a proposito della aggiornata dicitura “fratelli e sorelle” presente nel Confiteor – non addebitabile a Paolo VI ma a Papa Francesco – che, in modo spocchioso in ordine alla moderna cultura di genere, distingue tra i sessi non considerando che con il vocabolo “fratelli” si intende l’universalità degli individui credenti in Gesù, visti nella prospettiva giovannea di “figli di Dio” (Gv. 1, 12);

capoverso 7: giusta la critica alla formula “il mio e vostro sacrificio” laddove l’autore sottolinea essere il celebrante un alter Christus e, pertanto essere ortodosso proferire soltanto “il mio sacrificio”;

capoverso 8: il Dominus Deus Sabaoth – il Signore Dio degli eserciti, titolo biblico che una tremebonda cultura pacifista ha tradotto “Dio dell’universo”;

capoverso 11: puntuale critica alla novità “gnostica” della “rugiada del tuo spirito” che è argomento dibattuto anche nel nostro intervento di c.s.;

capoverso 12: giusta e doverosa la reprimenda verso i traduttori/traditori che han manipolato e stravolto termini, verbi e concetti laddove, ad esempio, han reso il futuro semplice passivo “effundetur” con il solo participio passato “sparso”. E, nello stesso paragrafo si critica lo stravolgimento del “qui pro vobis et pro multis” tradotto in “che per voi e per tutti”. Segue l’invocazione post-consacrazione, “in attesa della tua venuta” quasi a smentire l’avvenuta incarnazione di Cristo nelle sacre specie eucaristiche.

- capoverso 15: doverosa la stroncatura sulla bergogliana traduzione del Padre Nostro laddove, al posto del “non ci indurre in tentazione” oggi si recita “non ci abbandonare alla tentazione”, dicitura che noi, nel nostro saggio abbiamo definito peggiore dell’originale facendo un semplice confronto semantico dei due verbi: indurre – abbandonare.

capoverso 16: stessa procedura per il Gloria dove si è stravolta la locuzione “Pace agli uomini di buona volontà” con la versione, in pretto stile irenistico, “pace agli uomini amati da Dio”.

- capoverso 17: corretta la critica alla traduzione del “qui tollis peccata mundi” con “che togli i peccati del mondo” laddove, invece, si dovrebbe rendere con “che prendi su di Te i peccati del mondo” giusta corrispondenza del verbo latino “tollere” con il greco “airein” che, appunto, segnala la seconda traduzione. (cfr. Franco Montanari- Vocabolario della lingua greca – Ed. Loescher 2004, ad vocem - pag. 99/100).

Questi sono i punti su cui noi affatto concordiamo.

Discordiamo, invece, nei seguenti passi:

capoverso 1: l’autore critica l’inserimento, nel “Confiteor” - Confesso - della voce “omissioni” in quanto “le omissioni non sono che opere non eseguite, ma esse sono il nulla” pertanto ne consegue l’inutilità di confessare ciò che non abbiamo com
Discorso che filerebbe se non fosse che, omettere quanto ci è ordinato, in termini etici, allo scopo di produrre un bene o evitare un male è commettere un reato, così come è contemplato anche dal Codice Penale sotto la voce “omissione di soccorso”.
E questo argomento se vale per l’aspetto laico, tanto più lo si applica all’aspetto spirituale. L’esempio che citeremo ne è la prova inoppugnabile dacché è lo stesso Signore Iddio che lo certifica. Ezechiele, 3, 17/18: “Figlio d’uomo, io ti ho posto quale sentinella nella casa d’Israele. Quando udrai dalla mia bocca una parola, tu li ammonirai da parte mia. Quando io dirò all’empio: Tu morrai! Se tu non lo ammonisci, e non lo avverti di abbandonare la sua via perversa affinché possa vivere, egli morrà nella sua iniquità, ma del sangue di lui io chiederò conto a te”.
Come si vede, un’omissione di questo tipo provoca, a colui che omette, una condanna parallela a quella che, nella pericope sopra riportata, grava sull’iniquo. Non è, perciò, l’aspetto ontologico di che negativamente si connota il vocabolo “omissione” ché, ovviamente, un’azione non eseguita è di per sé un nulla, quanto l’aspetto morale delle conseguenze che ne fa elemento di irresponsabilità.

capoverso 2: l’autore, nell’analisi semantica del Credo, afferma la distinzione del “Patrem omnipotentem, creatorem coeli et terrae, visibilium omniun et invisibilium” da Gesù Cristo “per quem omnia facta sunt”.
Noi, ad essere sinceri, non comprendiamo dove stia il punctum dolens che, al contrario, l’autore individua nel pronominale neutro plurale “Omnia” in quanto, a suo parere, questo “significa ogni cosa, cioè materiale: non l’invisibile, non l’anima che Iddio Padre crea e dà ad ogni uomo”.
Ma se si professa il Padre come onnipotente creatore di tutte le cose visibili ed invisibili e se, continuando, si afferma essere Cristo, suo Figlio, il medium con il quale il Padre ha creato “tutte le cose”, non si comprende per quale meccanismo il Signore Iddio, nel momento in cui c’è l’intermediazione di Cristo, cessi dal creare le cose invisibili come l’anima.
Ci rendiamo conto di non essere stati del tutto chiari ma gli è che la puntualizzazione dell’autore non è sufficientemente articolata nel tentativo di dimostrare l’inesattezza della traduzione dato che OMNIA si riferisce tanto alle cose visibili che alle invisibili.
La professione di fede, che fa capo al primo Concilio di Nicea ((325), dice espressamente: “crediamo in un solo Signore, Gesù Cristo. . . per il quale tutte le cose sono state create tanto in cielo che in terra”.
La grammatica latina, inoltre, esclude che il pronominale suddetto, nei casi retti del neutro plurale, abbia attinenza con le sole cose materiali ma che, al contrario, esso concordi con un catalogo di elementi, precedentemente fatto noto, in cui figurino i visibili e gli invisibili.

- capoverso 4: “Crucifixus, mortuus et sepultus est”. L’autore ne eccepisce la traduzione italiana “fu crocifisso, morì e fu sepolto” nel verbo evidenziato in neretto perché, a suo giudizio, morìè errata, frutto di ignoranza per i semplici e di satanica mala fede per i dotti, i maestri, gli scribi e farisei che tutt’ora infettano la Chiesa”.
Ora, che nell’attuale Gerarchìa, figurino falsi maestri e pseudotti, è notizia da non sorprendere visto il becerume che, dal Vaticano II in poi, viene sfornato in termini di revisionismo scritturale, dogmatico, morale, liturgico. Ma che la traduzione italiana – mi consenta l’autore – è frutto di ignoranza a noi sembra critica non solo eccessiva ma puramente infondata.
È vero che “crucifixus” e “sepultus” sono voci verbali transitive in forma passiva, ma non “mortuus est” in quanto l’intransitivo “mori” appartiene alla classe dei verbi deponenti che si caratterizzano per essere di forma passiva ma di significato attivo per cui tradurre con morì - tempo perfetto indicativo - è corretto mentre affermare, come fa l’autore, essere morto da tradurre con ”fu ucciso” – in senso passivo-transitivo – è del tutto arbitrario, come, parimenti lo è passus - deponente “pati”- che l’autore definisce non “patì” ma “fu torturato”.

- capoverso 18: la citazione di “Atti, IV, 19” – Melius parere Deo quam hominibus - è errata tanto nel capitolo e nel versetto quanto nel riporto della frase la cui corretta enunciazione recita “Oboedire oportet Deo magis quam hominibus” (Atti, 5, 29). (cfr. NOVUM TESTAMENTUM GRAECE ET LATINE - a cura di Agostino Merk – Roma, ed. Pontificio Istituto Biblico 1964, pag. 411).

Al netto dei punti su cui abbiamo espresso la nostra discorde opinione, c’è l’apprezzamento sincero per il lavoro di scavo condotto dall’autore Rovetti al quale dichiariamo i sensi della nostra alta stima.




maggio 2022
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