Primato della pastoralità e mobilismo dogmatico:
il fondamento della concezione della Chiesa di Bergoglio



di
Matteo D'Amico


pubblicato sul sito dell'Autore







Una dialettica senza alcun fondamento fra chiese particolari e Chiesa universale.

(Saggio pubblicato in francese  nel 2016 sulla rivista “Courrier de Rome“,  https://www.courrierderome.org/ )

Sabato 5 settembre 2015 L’Osservatore Romano ha pubblicato il testo integrale della videoconferenza tenuta da Francesco intervenendo  in occasione del Congresso Internazionale di Teologia svoltosi a Buenos Aires dal 1 al 3 settembre 2015 in occasione del centenario della Facoltà teologica  dell’Università Cattolica Argentina (UCA). 

L’intervento è intitolato “Il fiume vivo”  e si presenta come un tentativo di riprendere e aggiornare l’ermeneutica della continuità che aveva guidato il pontificato di Benedetto XVI a partire dal famoso discorso alla Curia romana del dicembre 2005.  
Il testo è interessante e merita, a nostro parere, un’attenta disamina critica, perché aiuta a comprendere la cattiva teologia a partire dalla quale il papa regnante  dà corso al suo attacco alla Tradizione della Chiesa e introduce le novità alle quali, purtroppo, ci stiamo ormai abituando.  Credo che ci troviamo di fronte a una delle più chiare analisi della sua ecclesiologia radicalmente eretica e modernista.

Nel suo intervento il papa innanzitutto lega la festa della facoltà argentina, alla festa per i cinquant’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II.

Il primo dato che emerge è che la facoltà di Teologia simboleggerebbe “Una fede  che cerca di radicarsi, d’incarnarsi,  di rappresentarsi, d’interpretarsi di fronte alla vita del suo popolo e non al margine”. 
Dunque l’interpretazione della fede va fatta di fronte alla vita concreta del popolo. Sembra un concetto lineare, ma dobbiamo interrogarci più a fondo: cosa vuol dire interpretare la fede di fronte alla vita di un popolo?  
Apparentemente si potrebbe credere che il papa alluda al problema della cosiddetta “inculturazione”, ovvero al problema della scelta dei mezzi pastorali più adatti a portare e diffondere la fede cristiana in un popolo  che non la conosce o che ha usi e tradizioni molto diversi da quelli occidentali.  Ma qui si tratta di qualcos’altro. La fede appare, almeno in modo larvato, come realtà mobile e cangiante che diventa vera o - se si preferisce- scopre la propria verità, solo in quanto viene interpellata dalla “vita” del popolo al quale è portata.

Certo le chiese particolari  devono stare attente all’autoreferenzialità, viene aggiunto: “Non esiste  una Chiesa particolare isolata,  che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere  padrona e unica interprete  della realtà e dell’azione dello Spirito”.
Si noti che non si lamenta il rischio del monopolio  dell’interpretazione della Dottrina, o della Tradizione in uno qualsiasi dei suoi aspetti, ma della “realtà e dell’azione dello Spirito”: il senso cambia profondamente.
Ciò che fra le righe ci viene detto è che  è cosa giusta e bella che lo Spirito (perché non aggiungere “Santo”, fra l’altro?) spinga al cambiamento (della dottrina), ma che in questo cambiamento ci vuole accordo e armonia fra chiese particolari e Chiesa universale.  
Infatti il pontefice poco dopo aggiunge: “Come, all’opposto,  non esiste  una Chiesa Universale che  dia le spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale.  La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale  tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo,  tra il semplice e il complesso. Annichilire questa  tensione va contro la vita dello Spirito”. 
Il discorso incomincia a farsi più complicato e, parallelamente, il linguaggio utilizzato inizia ad essere sempre più alieno, sempre meno coerente con la sana teologia cattolica. Cosa vuol dire “polarità tensionale … fra l’uno e il multiplo”? Sembra di essere di fronte a una spiegazione confusa della numerologia pitagorica: non è un discorso che ha vera dignità di riflessione teologica.


Dallo Spirito Santo  della fede cattolica di sempre a un vago e interreligioso “spirito”

Comunque finora è emerso che la vita dello Spirito (?) esige questa continua tensione. “Spirito” però presumiamo che qui indichi lo Spirito Santo (lo presumiamo, anche se ci preoccupa il fatto che è  tipico del sentire modernista alterare il senso di ogni termine della teologia cattolica: apparentemente sono  gli stessi di sempre, ma il senso in cui sono usati è completamente mutato). E allora ci domandiamo se non era più opportuno parlare di Chiesa, più che di “Spirito”.
Infatti lo Spirito Santo è la Terza Persona della Santissima Trinità, è Dio, è eterno, è immutabile, e nulla può andare contro, nel senso di limitare o ostacolare, la sua “vita”, anche perché, a rigore, non vive alcuna vita intesa come un processo storico soggetto a mutamento, un processo temporale.  Semmai è la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, che è visibile ed è collocata nello spazio e nel tempo, e che vive di fatto in una guerra continua contro il mondo e contro i suoi nemici.


La dottrina di sempre, se non è mediata incessantemente con la “realtà concreta” (?),  per Bergoglio diviene  “ideologia”.

A questo punto, ovvero dopo questo confusissimo inizio, la confusione  viene aumentata ulteriormente dal papa  scrivendo: “ogni tentativo, ogni ricerca  di ridurre la comunicazione, di rompere  il rapporto fra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in pericolo la fede del Popolo di Dio.  Considerare insignificante  una delle due istanze  è metterci in un labirinto  che non sarà portatore di vita per la nostra gente.  Rompere questa comunicazione  ci porterà  facilmente  a fare della nostra visione, della nostra teologia un’ideologia”.   
Sempre facendo uno sforzo per penetrare in questo strano linguaggio che non ha nulla di cattolico, e che quindi si presta a molti rischi interpretativi,  sembra di capire che per Bergoglio la “polarità tensionale”  - la dialettica - adesso  non è più fra Chiesa universale e chiesa particolare, ma fra “la Tradizione ricevuta”  e “la realtà concreta”: insomma da una parte c’è la dottrina e dall’altra c’è la vita nella sua concretezza, nei suoi usi e costumi figli del tempo. 
Ma cosa significa l’affermazione che  non si deve rompere il rapporto fra Tradizione e realtà concreta?  La semplice logica dovrebbe dire che questo rapporto non si rompe   se la “vita concreta”, ovvero la vita morale e spirituale dei cattolici, continuano a seguire fedelmente gli insegnamenti che la Chiesa ha sempre dato, rimangono fedeli e rispettano la legge morale, aderiscono con  vigore e senza incertezze a tutti i dogmi, a tutta la Rivelazione,  senza deviazioni ereticali e senza dubbi.  Il rapporto in questione infatti -ovvero quello, semplificando, fra l’insieme della dottrina e la vita di ogni singolo credente - potrebbe essere rotto solo dall’apostasia, ovvero dalla perdita della fede, dall’eresia, ovvero dal rifiuto di aderire a uno o più dogmi,  o dallo scisma.

Purtroppo  il papa  sembra invece credere che  anche le autorità della Chiesa, dobbiamo pensare, possono  rompere il rapporto fra Tradizione e “realtà concreta”, ovvero i semplici cristiani, nel senso di non saper ascoltare il popolo dei fedeli stessi, non saper adattare la Tradizione alle esigenze o ai costumi nuovi che sorgono. 
In tal caso i chierici, siamo ammoniti, fanno “della nostra visione, della nostra teologia un’ideologia”.  Tradotto in modo più lineare:  se la Chiesa non comunica non/ascolta il popolo di Dio  e non adatta la Tradizione  ai tempi, essa diventa portatrice di un’ideologia, ovvero di un insieme di norme  artefatte e prive di verità, sterili e vuote.


Il rovesciamento del rapporto fra Chiesa Docente e Chiesa Discente

E’ evidente che da concetti come questi emerge la visione più profonda che ha  della Chiesa papa Bergoglio:  ogni chiesa locale, in fedele ascolto del suo popolo, dà un contributo alla Chiesa universale, in un processo dal basso verso l’alto, e l’insieme iperdemocratico di questi contributi, di questi stimoli e di queste suggestioni  deve essere visto come una convergenza  di differenze  il cui impasto e la cui dialettica coesistenza rappresentano una Chiesa e una dottrina fedeli allo “Spirito”.

Anzi, larvatamente, lo “Spirito” stesso  viene presentato come il vivificatore di questa incessante evoluzione dialettica della dottrina, quasi la Rivelazione non avesse avuto termine con la morte dell’ultimo discepolo di Nostro Signore, ma fosse un processo  storico  infinito e indeterminato, fino a essere pensata – hegelianamente - come coincidente  con lo  Zeitgeist, lo Spirito del tempo.

Già questa idea di una Chiesa, come di un qualcosa che è vero nella misura in cui si rovescia e si pensa come fondata dal basso, come contenitore elastico e flessibile atto a contenere il cangiante riempimento di idee e di norme che i diversi popoli suggeriranno nel corso della storia non ha nulla di cattolico; in questa  visione viene meno infatti, inevitabilmente, ogni distinzione fra Chiesa Docente e Chiesa Discente,  come viene meno ogni idea di “fides ex auditu”, e, in ultima istanza di fede come fondata sulla Rivelazione che Dio fa all’uomo delle verità eterne seguendo le quali egli può, se lo vuole, salvarsi. 
Tutto è rovesciato a tal punto e così gravemente che si potrebbe quasi dire  che non siamo semplicemente  di fronte a una visione di sapore ereticale, ma a una religione completamente nuova e diversa, abilmente mascherata da “cristianesimo”.


Bergoglio fa sua la modernistica idea di Ratzinger dell’ “ermeneutica della continuità”

Il pontefice però ci aiuta a comprenderlo con alcuni riferimenti teologici che chiariscono le fonti della sua  visione eterodossa: “C’è un’immagine proposta da Benedetto XVI  che mi piace molto. Riferendosi alla tradizione della Chiesa afferma che “non è trasmissione  di cose o di parole, una collezione di cose morte.  La Tradizione è il fiume vivo  che ci collega alle origini, il fiume nel quale le origini sempre sono presenti” (Udienza generale, 26 aprile 2006). 
Si noti, di sfuggita, nella frase citata di Ratzinger, il suo tipico sentire dialettico e storicistico di  evidente ispirazione hegeliana.  Sono passi che fanno capire come la tradizione  della teologia luterana ispirata a Hegel, che ha il suo centro più importante a Tubinga,  abbia influenzato profondamente  anche il cattolicesimo tedesco nel Novecento.  Nella visione di Ratzinger, come noto,  la continuità  fra dottrina preconciliare e dottrina postconciliare non è da ricercarsi al livello delle idee, della dottrina, dei dogmi professati - in altre parole al livello della fede; ma è da ricercarsi  nel fatto che uno e sempre identico a sé è il soggetto Chiesa, soggetto esistenzialmente impegnato in un cammino storico e che permane identico a sé (ecco la continuità!) anche se la dottrina professata lentamente muta, anche su punti fondamentali.
La continuità è la continuità del soggetto Chiesa, non la continuità della dottrina, che, in fondo, si ammette che non c’è o può non esserci.  La Tradizione è il fiume vivo che, collegandoci alle origini, fa sì che queste origini  siano sempre presenti:  naturalmente non presenti come se  si trattasse di elementi dottrinali e dogmi creduti oggi come ieri, ma nel senso in cui è presente un ricordo o un fatto del passato che adesso non è più vero e attuale, ma è ancora presente come inizio del processo storico-dialettico di mutazione  della dottrina e della Chiesa sfociato nel loro stato  presente. L’analogia è con un’idea, con un atto sbagliato o imperfetto compiuto da una persona nel passato che continua a essere presente sul piano della memoria storica ed esistenziale, anche se adesso è posto dal soggetto come errato, e quindi superato. 
Nella prospettiva appena delineata non vi può essere nessuna mutazione della dottrina o della legge morale che  possa spezzare la continuità del soggetto-Chiesa, come nella vita di una persona fatti o idee fra loro in contraddizione possono essere riassunti come tutti storicamente veri e dialetticamente necessari, in un incessante e virtuoso  rapporto di tesi e antitesi.


Secondo la nuova visione “teologica” ogni epoca e ogni popolo esigono che si sia cristiani in modo diverso.

Bergoglio cerca di completare il ragionamento - se così possiamo definirlo -  di Ratzinger:  “Questo fiume  - dice -  irriga diverse terre, alimenta diverse geografie,  facendo germogliare il meglio  di quella terra,  il meglio di quella cultura. In questo modo il Vangelo continua  a incarnarsi  in tutti gli angoli del mondo, in maniera sempre nuova.  Tutto ciò ci porta a riflettere  sul fatto che non si è cristiani  allo stesso modo nell’Argentina di oggi e nell’Argentina di cento anni fa”.  
Abbiamo sottolineato la frase più dubbia, perché in realtà si potrebbe proprio obiettare che si è e si potrà essere cristiani sempre solo in un modo, perché con il tempo e i luoghi diversi non cambia l’essenza dell’uomo e non cambia il cammino che occorre seguire per salvarsi, come non cambia la dottrina o la legge morale. La diversità di usi e costumi esteriori e superficiali (un secolo fa non si andava in aereo, ad esempio, o non  si utilizzava internet) non incide né sul dogma, né sui sacramenti, né sulla vita di grazia.
Invece il papa, considerando i grandi mutamenti storici, chiede di “…ripensare come il cristianesimo si fa carne…” evitando due tentazioni  “condannare  tutto, coniando la già nota frase “il passato è sempre migliore” e rifugiandoci in conservatorismi o fondamentalismi; oppure, al contrario,  consacrare tutto, negando autorità a tutto ciò che non ha “sapore di novità”, relativizzando tutta la saggezza  coniata dal ricco patrimonio ecclesiale.  Per superare  queste tentazioni, il cammino  è la riflessione, il discernimento, prendere molto sul serio la Tradizione ecclesiale e molto sul serio la realtà,  facendole dialogare”.   
Penso emerga con grande chiarezza  la strategia teologica del papa: apparentemente tenere in onore il passato, la Tradizione, la dottrina di sempre (ridotte però a semplice “saggezza”, ovvero a una specie di prudenza pratica), ma chiedere che queste dimensioni “dialoghino” (?) con la “realtà”, con le esigenze presenti degli uomini.   In sostanza ci propone  di aderire a un’idea radicalmente nuova di verità e di dottrina: queste dimensioni non devono più essere pensate come innanzitutto ed essenzialmente teoretiche, ovvero insieme di concetti che definiscono lo statuto ontologico di una realtà (ad esempio  la formulazione del dogma trinitario  mi permette di comprendere la realtà di Dio quale è in sé realmente);  ma semmai, pragmatisticamente,  le verità di fede sono  vere solo se si lasciano rimodellare dalla realtà concreta dei popoli e delle persone che di tempo in tempo le ricevono e dei loro problemi. 
Una visione simile però non è seria e non rispetta né ciò che è la dottrina, né ciò che è una pastorale rettamente intesa.    Come già accennato poco sopra  siamo di fronte  a una visione che appare, come minimo, ispirata a una logica di tipo dialettico, a una logica hegeliana, dove tutto diviene, nulla rimane immutabile e identico a sé e nulla esiste in modo autentico se non alienandosi, confondendosi con ciò che lo nega, vivendo il dramma della contraddizione  e della diversità  e tornando a sé purificato da questo scontro con il negativo e  con l’altro da sé.


La dottrina, in quanto tale, va distrutta e ridotta a pura pastoralità

Tutti i documenti del Concilio Vaticano II sono, in fondo, abitati da questo stesso spirito dialettico, come tutta la teologia post-conciliare, e Bergoglio non ne è che l’espressione più compiuta, l’esito finale e nichilistico. 
La riduzione di tutto a pastoralità  si fonda su questo sofisma: tutto ciò che la Chiesa ha insegnato in passato  rimane valido, ma oggi va ripensato e riformulato alla luce dei tempi nuovi, delle nuove esigenze e del nuovo modo di sentire del popolo di Dio.
La pastorale per il papa regnante  non è più l’arte, che i veri santi hanno sempre magistralmente padroneggiato, di accostarsi a ogni singolo o popolo con la più grande sapientia cordis, sapendo trovare i modi migliori e più efficaci di porgere a ciascuno le stesse, immutabili verità di fede, la stessa e immutabile legge morale; per il pontefice argentino  la pastorale è diventata una caricatura di ciò che essa dovrebbe essere, perché dietro questo nome si maschera una ferrea volontà di rovesciare tutto ciò che è sempre stato creduto e insegnato dalla Chiesa, spacciando  questo spirito rivoluzionario come carità e come capacità di ascoltare il popolo dei credenti e le sue esigenze. 
La sua carità, spiace dirlo, ma appare sempre più simile alla “falsa carità” di cui parla l’Apostolo delle genti, indicandola come propria dei tempi ultimi.

Aggiunge il papa: “Dobbiamo  affrontare il lavoro, l’arduo lavoro di distinguere il messaggio di Vita dalla sua forma di trasmissione, dai suoi elementi culturali in cui un tempo è stato codificato (…) la dottrina  non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi. All’opposto la dottrina cristiana ha volto, ha corpo, ha carne, si chiama Gesù Cristo ed è la sua Vita a venire offerta  di generazione in generazione a tutti gli uomini e in tutti i luoghi” (sott. nostre).

Se non fosse che nel post-concilio ci siamo abituati a questi orrori teologici, un passo simile  dovremmo considerarlo davvero come sconvolgente.  Sarebbe piaciuto, probabilmente a don Giussani,  vista la sua fissazione per il cristianesimo come evento e come incontro con una persona  (ovvero, in concreto, il cristianesimo come partecipazione acefala e un po’ ebete al Movimento di CL)  e non è da escludere che  lo pseudo-cristianesimo ciellino sia davvero una delle fonti dell’ex cardinale di Buenos Aires, avendo Bergoglio a suo tempo affermato di aver letto con interesse i libri di Giussani. 
Ma bisogna fare lo sforzo di sottolineare i sofismi e gli errori nascosti nel passo appena letto.


I sofismi sottesi alla nuova falsa idea di pastoralità

Il primo sofisma lo conosciamo bene, essendo quello posto da Giovanni XXIII a fondamento di tutto il Concilio Vaticano II dicendo: “Una cosa è la sostanza dell’antica dottrina del deposito della fede,  e altra è la forma con cui essa è presentata” (Discorso di apertura). 
Sappiamo che i modernisti  che complottarono prima e durante il concilio,  scelsero la via della manipolazione e della eliminazione del linguaggio definitorio della Scolastica  proprio per dissolvere insieme con esso la compattezza della dottrina, rendendo equivoche le definizioni e permettendo così un lento, ma inesorabile, sbriciolamento  del dogma.  
Il papa attuale sa  benissimo che, nel codice comunicativo modernista, parlare di cambiare il modo in cui il dogma è codificato significa in realtà cambiare il dogma stesso, manometterlo e alterarlo irreparabilmente.  
Che il problema, nel 1962 come oggi, non è di forme comunicative, di linguaggio o di codici culturali è molto facile da dimostrare.
La dottrina è importante che sia chiara e che sia univocamente interpretabile, e nessun linguaggio teologico può superare in chiarezza ed esattezza il linguaggio di derivazione scolastica.  E’ proprio questa chiarezza che disturba il modernista, perché gli impedisce di manomettere il dogma e di modificare la dottrina.  I modernisti prediligono il confuso linguaggio delle filosofie moderne perché permette di  sgretolare lentamente  quanto è stato sempre insegnato e creduto, perché ogni testo sviluppato a partire da simili premesse, essendo confuso  e non definitorio esige di essere continuamente interpretato  e reinterpretato, in un gioco di specchi e di rimbalzi ermeneutici che lentamente  permettono un’evoluzione disomogenea del dogma, una sua crescente alterazione.

Ma al papa sembra sfuggire  che vi è un altro motivo per il quale è assurdo pensare di cambiare il modo in cui la dottrina viene espressa: un dogma, ad esempio il dogma cristologico sulla natura divino-umana di Cristo; una legge morale, ad esempio il divieto di ricorrere o favorire in  qualsiasi modo l’aborto, se ben definiti sono  verità chiarissime e inequivocabili e non esigono nessuna  modifica linguistica.  Si tratta di aderire o meno alla verità rivelata, di accettare o meno ciò che la Chiesa ha sempre insegnato, di comprendere  che la Rivelazione non può che essere immutabile, come immutabile è  Dio che la fonda e la dona agli uomini. Poco conta  che porti il Vangelo a un argentino o a un giapponese, a un irochese del XVII secolo o a un africano del XXI: a tutti indifferentemente  insegnerò le stesse, immutabili verità di fede, la stessa dottrina, la stessa morale, lo stesso catechismo. 
La dogmatica cattolica non ha la sua genesi in un concorso democratico, dal basso, di opinioni e culture diverse che giungono lentamente a una sintesi dialettica mobile e cangiante, che si differenzia nel tempo e nello spazio. 
Siamo di fronte, evidentemente, al rifiuto  dell’idea stessa di verità quale l’Occidente l’ha elaborata a partire  dalla fondazione del logos filosofico con Platone e Aristotele; l’idea di verità occidentale è importante perché per duemila anni la Chiesa cattolica (e solo lei) la ha fatta sua, compiendo con i Padri della Chiesa quel “sacro furto” che instaura l’Occidente cristiano anche come erede del lògos greco  e dello ius romano. 
Il papa, rifiutando il concetto di verità proprio della Chiesa e della sua Tradizione non si pone solo contro il dogma cattolico, contro la dottrina, ma contro la ragione, non nega solo le verità di fede, ma il principio di non contraddizione, quale stabilito da Aristotele nel libro Gamma della Metafisica.  Con ciò egli rivela che il modernismo che sembra  animarlo è sì rinuncia alla fede, a favore di una sua parodia dove tutto è evanescente e cangiante e i dogmi diventano realtà amorfe e gelatinose; ma è soprattutto rinuncia alla retta ragione, uno scivolamento in una lucida follia, in un pensiero e in parole sempre più allucinati e falsi.

Si comprende anche perché con un modernista è impossibile parlare o discutere, come insegna l’adagio: “principia negantibus non est disputandum”: egli infatti non condivide non solo i termini e i concetti, ma la stessa idea che possa esistere una verità stabile e immutabile, eterna e  insegnata infallibilmente dalla Chiesa, unica e non revocabile in dubbio.


Secondo Bergoglio si può e si deve dubitare delle verità di fede.

Conferma la gravità della diagnosi  che stiamo svolgendo la frase finale che abbiamo citato:
La dottrina  non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi”. 
Qui siamo di fronte a gravi errori di carattere teologico: innanzitutto la dottrina  conosciuta, le verità di fede che si sono apprese, non possono essere in nessun modo revocate in dubbio: dubitare intenzionalmente delle verità di fede conosciute, impugnare un punto di dottrina che ci è stato insegnato è un gravissimo peccato contro lo Spirito Santo.

Spiace dover sottolineare che l’esaltazione che fa il papa del dubbio è un altro tratto tipicamente modernista; il modernista considera come virtuoso solo un continuo dubitare e disprezza una vita di fede che non sia segnata da una crisi intellettuale perenne,  da una ricerca esistenzialmente tragica, come se la fede fosse da riscoprire ex novo a ogni  generazione e potesse essere sottoposta a critica impunemente.

La dottrina non è un sistema chiuso” dice il papa, ma occorre precisare: la Rivelazione, della quale la dottrina è una esplicitazione e una chiarificazione, è in sé conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo e la dottrina non può in nulla modificarla o manometterla, o superarla.  Ciò che cambia, perché collocato nel tempo, sono gli usi e i costumi umani, le risorse scientifiche e tecnologiche, la struttura dei sistemi giuridici: l’esercizio del magistero non modifica la dottrina, non altera il dogma, ma illumina i problemi sorti nel presente alla luce dei principi di sempre, alla luce del dogma e della legge morale, che sono e restano in sé immutati e immutabili.  
Non si tratta dunque, di fronte alle situazioni che emergono nel presente (ad esempio l’ossessiva propaganda LGBT, l’aumento dei divorzi o la scoperta della pillola del giorno dopo) di adattare ad esse la dottrina (ciò che è semplicemente assurdo), ma di valutare, giudicare e criticare, alla luce della fede e delle sue verità eterne, il presente, di farlo misurare dal Vangelo e dall’insegnamento di sempre della Chiesa. 
La Chiesa è Maestra, ma è anche giudice del mondo e ha il dovere di denunciare l’iniquità di una legge ingiusta o il dilagare di cattivi costumi: è predicando la verità e condannando il  male che fa kàtekhon, che trattiene le forze dell’Anticristo che mirano a rovesciare completamente l’ordine cristiano, e non certo piegando la dottrina a ogni vento di novità e di degrado proveniente dal mondo, mondo che in sé è “positum in Maligno”, e che sarà sempre contro Cristo e la Sua Chiesa.

Una novità storica o scientifica, ad esempio la scoperta della fecondazione artificiale,  esige di essere valutata alla luce dei principi irreformabili della dottrina e della morale cattoliche:  la novità o la proposta sarà giudicata lecita o illecita a seconda del suo rispettare o violare i principi  della morale cristiana e della legge naturale.  Non si potrà mai dare il fatto che una scoperta scientifica, in quanto tale, possa avere il potere di modificare un principio morale, e ciò proprio in quanto i principi fondano e sono sottratti al tempo e al mutamento, sono immutabili ed eterni.


 La dottrina va ridotta alla persona di Gesù

 Prosegue il papa:
All’opposto la dottrina cristiana ha volto, ha corpo, ha carne, si chiama Gesù Cristo  ed è la sua Vita a venire offerta  di generazione in generazione a tutti gli uomini e in tutti i luoghi”. 
Il sofisma si approfondisce e si aggrava, la dottrina è diventata addirittura Gesù stesso, una evidente forzatura retorica  che urta, fra l’altro il Vangelo, dove Gesù per primo insegna, ammaestra, rivela, parlando con parabole, citazioni, esempi e commenti di passi biblici.  Il Cristo stesso, quindi, ha rivelato e trasmesso la sua dottrina, non ha solo dato una testimonianza esemplare, ma muta, non si è solo offerto sul Calvario, ma ha, essenzialmente, insegnato ciò che è da credersi per avere la vita eterna.
Il papa pretenderebbe  invece che si accettasse di schiacciare la totalità della dottrina  sulla figura di Cristo.
Che senso ha poi dire che la dottrina  “ha volto,   ha corpo, ha carne”? La dottrina è un insieme vasto e complesso, organico e articolato di proposizioni legate fra loro  che spiegano e chiarificano le verità di fede; in questo senso essa rappresenta il dispiegamento e la chiarificazione piena, mediata linguisticamente e discorsivamente, di tutte le verità legate in modo esplicito o implicito alla vita e alla predicazione di Gesù e degli Apostoli.
Non è  qualcosa che coincide  tout court con la persona di Cristo.

Ma Francesco, questo è evidente, appare provare una antipatia quasi viscerale per ogni idea forte  della “dottrina” e innumerevoli volte nei suoi continui interventi  ha denunciato come aridi  farisei tutti coloro che si richiamano troppo “rigidamente” al depositum fidei, alla dottrina di sempre, come se l’ancorarsi con fedeltà a ciò che la Chiesa ha sempre insegnato potesse rappresentare un ostacolo alla carità, all’amore di Dio e del prossimo, e non ne fosse invece l’insostituibile premessa e condizione.

La misteriosa e  sfuggente coincidenza, per il papa, della dottrina con la figura di Gesù sembra nascondere, a nostro parere,  in realtà una visione non cattolica, ma protestante del concetto di fede.  La fede per Francesco è una fede fiduciale, va cioè ridotta a un sentimentale abbandono all’amore di Dio per noi, al suo perdono; è uccisa, secondo lui,  da ogni “irrigidimento” in formule o definizioni dogmatiche, che rischiano di allontanare i fedeli, di frenarne lo slancio verso Dio. 
Ecco che allora  la continuità della fede e, quindi, della Chiesa sono date dal ripresentarsi in ogni epoca, luogo e popolo di modi sempre nuovi e cangianti  di abbandonarsi fiduciosamente al perdono di Dio: possono variare le formule dogmatiche o dottrinali attraverso  le quali viene espressa la mia fede fiduciale in Dio, ma non muta l’abbandono del quale le formule sono espressione esteriore e accidentale; come in tutte le deviazioni ereticali  l’amore prende il sopravvento sulla verità,  la carità sulla fede, il sentimento sulla ragione.  
In questa prospettiva, aggravata da una dottrina della giustificazione che sembra ricalcare il “simul iustus ac peccator” luterano (dove il cristiano rimane schiavo del peccato, anche se giustificato per fede, dove cioè non vi è vero cammino di santificazione), viene meno in linea di principio la stessa distinzione fra verità ed errore: la Chiesa così concepita diviene soggetto storico,  abitato dal mutamento e in divenire, capace di vivere virtuosamente ogni possibile  evoluzione dialettica, di rovesciare quanto sempre creduto nel suo opposto senza problemi.    
La verità non è più astratta, ma concreta: è vero, anche teologicamente, ciò che emerge come attuale, ciò che è presente nell’oggi, perché la verità non trascende più il tempo, ma ne è figlia, essendo manifestazione di un’incarnazione del Figlio di Dio pensata come irreversibile e radicale, dove il Verbo, in ultima istanza, è concepito dai teologi modernisti, dai nuovi ariani, come autoridottosi alla sola umanità, anzi, come coincidente oggi e sempre con l’umanità in cammino nella storia: visione suggestiva, molto poetica, ma eretica.


La teologia e la dottrina da atti di insegnamento da parte dell’autorità ecclesiale, a atto di ascolto del popolo da parte della Chiesa. La pastorale riduce a sé  e fonda ogni atto di insegnamento

E’ su queste premesse implicite e fatte emergere solo per lacerti che il papa può scrivere  ne “Il Fiume vivo”: “Non possiamo quindi ignorare la nostra gente al momento di fare teologia”, frase che, dal punto di vista della sana ragione e della teologia di sempre è semplicemente destituita di senso, perché lascia supporre che la teologia sorga  appunto dialetticamente, dialogicamente, da un confronto continuo fra pastori, teologi, Chiesa Docente e Chiesa Discente; come se in ogni  momento storico e in ogni comunità (si pensi alla frammentazione inconcepibile che ne emergerebbe), ma al limite nella vita di ogni fedele, fosse nascosto il seme di una possibile novità teologica, come se la dottrina, al pari del plèroma gnostico dissipatosi nelle anime degli uomini pneumatici, andasse fatta sorgere lentamente, dal basso, attraverso il principio del dialogo infinito,  attraverso mutamenti incessanti - il vero segno della sua vitalità -  perché la dottrina non è più ciò che permane immutato nel fluire della vita e della storia, ma è il volto sempre nuovo e cangiante che assume  il rapporto dei popoli con Dio, con il suo amore, con la sentimentale e vuota fiducia nella salvezza che ci darà senza alcuna necessità di meritarla cooperando con la sua Grazia.
Ecco allora che diventano comprensibili espressioni come le seguenti: “Le nostre formulazioni di fede sono nate nel dialogo, nell’incontro,  nel confronto,  nel contatto con le diverse   culture, comunità, nazioni, situazioni che richiedevano  una maggiore riflessione di fronte a quanto non esplicitato prima. Perciò gli eventi pastorali hanno un valore considerevole.  E le nostre formulazioni  di fede sono espressione di una vita vissuta e ponderata ecclesialmente”. 
Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza della frase che abbiamo sottolineato: siamo di fronte a un perfetto esempio di rovesciamento modernistico della visione tradizionale cattolica della fede;  non è più la vita che si conforma alla dottrina, che riconosce  con fervore la verità, la legge morale, che si sottomette a Dio, ma piuttosto è la fede  che si sottomette e si adatta alla vita, è la dottrina che si  piega  plasticamente per assumere la forma che la vita di fatto le dona.
Ecco svelato il segreto della “pastoralità” di Bergoglio, il segreto del suo insistere sulla dimensione pastorale: per lui in effetti non si dà altro né prima, né oltre la pastorale e la dottrina coincide e deve risolversi nella pastoralità, nel suo dinamismo radicale, dove il mutamento non è un vizio, ma il carattere virtuoso di tutto ciò che è vivo e, dunque, si trasforma e  cambia col tempo.  E’ una pura illusione pensare che per il papa regnante ci sia almeno uno spazio residuo fra una dottrina pensata come riflesso di verità eterne e immutabili, e la pastorale, pensata come la loro applicazione fedele ai problemi contingenti del presente. 
La pastoralità è in realtà tutto e deve assorbire la totalità della Chiesa come realtà solo spirituale e non visibile, Chiesa  gioachimita dell’età dello Spirito Santo,  purificata da residui costantiniani e  da elementi ilici, statici e fissi, morti, come, ad esempio,  le rigide articolazioni dogmatiche. Se il fiume della fede è vivo, nessun suo momento può essere paralizzato, isolato e considerato vero in modo assoluto. Tutti i punti del corso del fiume -così sembra pensare il papa - sono veri, anche se fra loro in contraddizione, anzi: contradictio regula veri, non contradictio regula falsi
Hegel non avrebbe potuto fare un discorso più dialettico e rivoluzionario.

Sembrano confluire nella fantasiosa  teologia che stiamo cercando di comprendere tutte le fonti corrotte ed esiziali della filosofia moderna: il bergsonismo, il personalismo, la filosofia dell’azione, la dialettica, la fenomenologia, l’esistenzialismo, l’ermeneutica… non manca nulla, all’infuori di una visione retta della fede, quale sempre insegnata e definita dalla Chiesa.


Per il pontefice avere certezze è un limite, non una virtù dei cattolici.  E ancora:  deve essere la Chiesa Discente a insegnare.

Ecco allora la nuova chiesa pneumatica, gnostica e protestante  che sta sforzandosi di far sorgere  Bergoglio dalle scorie e dalle rovine della Chiesa pre-conciliare, rigida, dottrinale, dogmatica, legata alla sua visibilità “costantiniana”, giuridica e monarchica:
In un cristiano c’è qualcosa di sospetto  quando smette di ammettere il bisogno di essere criticato da altri interlocutori ”. 
Un elogio del dubbio solo apparentemente strano: se la fede è un fiume vivo in perenne cambiamento come si possono avere certezze?  Può avere certezze solo chi pensa che la verità non muti e non possa mutare, mentre chi si apre a una visione fiduciale e  dinamica della fede sa che il dubbio  prepara le opportune svolte dialettiche, i rovesciamenti dottrinali richiesti  dall’attenzione pastorale al popolo, marxisticamente eletto a luogo teologico iperdemocratico più autorevole della Scrittura e della Tradizione.

Le persone e le loro diverse  conflittualità, le periferie, non sono opzionali, bensì necessarie per una maggiore comprensione della fede.  Perciò è importante chiedersi: a chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti?  Senza questo incontro con la famiglia, con il Popolo di Dio la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia”.

Il passo citato, che ha qualcosa di  fantasmagorico, di incredibile se confrontato idealmente con un qualsiasi documento papale preconciliare, a partire anche solo dal piano stilistico, ribadisce quanto già visto più sopra: le conflittualità fra le persone (=le periferie?!) sono essenziali per una comprensione autentica della fede. Non si fa teologia, ma ideologia quando si riflette sulla fede senza avere presente la concretezza di una precisa parte del popolo dei fedeli. 
Conseguenza logica di questo approccio è il rovesciamento del rapporto fra Chiesa Docente e Chiesa Discente. Siamo di fronte a posizioni  teologiche così inconsistenti  e eterodosse che sfuggono anche a una vera confutazione: ciò che è completamente assurdo non si può confutare, ma solo mostrare con sgomento nel suo volto di seducente tenebra concettuale.

Eppure con un po’ di sforzo, sostando con fatica sul testo, la nervatura della contraddizione emerge: perché, ad  esempio, dovrebbero essere proprio le “conflittualità fra le persone”  a illuminare i teologi? Perché le  “conflittualità” e non piuttosto l’amicizia, l’amore, l’accordo?


Conclusione

Concludiamo con un’amara osservazione: se è vero che siamo di fronte agli esiti ultimi della cattiva teologia  del Concilio Vaticano II, è anche vero  che con il papa attualmente regnante si è abbandonato ogni pudore e ogni prudenza, ogni maschera e ogni  cautela nel manifestare la più decisa volontà di distruggere non solo la sana dottrina di sempre, ma, in realtà la Chiesa stessa quale è stata voluta e divinamente istituita da Nostro Signore Gesù Cristo in tutto ciò che ha di più santo. 
L’intervento che abbiamo commentato è spaventoso non tanto per il suo impianto totalmente modernista, ma per la inaudita sfacciataggine e mancanza di pudore con cui delle personali opinioni eterodosse ed  erronee vengono riversate con noncuranza addosso agli ascoltatori.

Se, umanamente parlando, la Chiesa  prima della sua elezione era una casa in rovina, dove nulla era più intatto a causa della tempesta del Concilio e del post-Concilio,  Francesco assomiglia a un cinghiale furioso, venuto a sbriciolare  le rovine stesse, a calpestare le poche cose intatte, quasi avesse ricevuto da qualcuno l’ordine perentorio di sfigurare ciò che ancora era riconoscibile come cattolico e di cancellarne per sempre la memoria.

Conferma questa impressione una frase,  che davvero si commenta  da sé,  da lui pronunciata  il giorno della chiusura del Sinodo dei vescovi:
Il sinodo “ci ha fatto capire meglio che i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito, non le idee ma l’uomo, non le formule, ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono”.

E’ una frase breve, ma gravissima: sembra quasi l’atto di addio definitivo da parte della Chiesa di quel virtuoso matrimonio fra Vangelo e lògos greco,  fra Rivelazione e ragione filosofica, che aveva innervato duemila anni di fede cattolica. 
Ora la contraddizione potrà  regnare pienamente dentro la Chiesa, deturparne il volto in modo estremo, approfondire la lucida follia e il delirio affabulatorio dei teologi  modernisti, avvinghiati allo spettro della fede che hanno colpevolmente perduto.  Si può abbandonare la Verità  insegnata dalla Chiesa, ma si deve sapere che con essa, segretamente, si perde anche la ragione e ogni vera pace, ogni riposo, ogni gioia sincera.







novembre 2022

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