La disgregazione mondialista
confrontata
all’unità sociale dello Stato Cattolico



di Don Stefano Carusi

30 novembre 2022


Pubblicato sul sito Disputationes theologicae

in due parti: 1 parte - II parte


 


Ambrogio Lorenzetti, “Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo”
Palazzo Pubblico di Siena



Il mondialismo massonico d’oggi propone, o meglio “impone” un modello di gestione del mondo, in cui la nozione stessa di “stato”, di “ordinamento statale”, di “cosa pubblica” vengono sciolti, liquefatti e rifusi in un’idea informe al servizio della grossa finanza internazionale e di chi la manovra come “instrumentum regni”.
Senza radici, senza identità, senza religione, senza re, senza aristocrazia, senza nemmeno più il popolo e senza nemmeno più - se mai fosse possibile - quella terra che abbiamo sotto i piedi, si costruisce un mondo fondato sulla dissoluzione d’ogni certezza naturale e soprannaturale e su un idealismo che vorrebbe abbattere tutte le frontiere e tutti i limiti dell’essere creato.

In risposta a questa deriva riproponiamo ai nostri lettori il testo di una conferenza tenuta circa vent’anni or sono al Convegno di Controrivoluzione di Civitella del Tronto, dal titolo originale “Lo Stato Pontificio e i corpi intermedi”, per cercare di leggere nella storia dello Stato cattolico per eccellenza quelle indicazioni che non hanno tempo e che in parte rispondono alla crisi innescata dall’odierno “statalismo”.

In fondo l’idea centrale, che vedremo nella sua applicazione pratica nella storia dell’amministrazione degli Stati Pontifici, è quella che già Aristotele e San Tommaso avevano illustrato: non si applica un’idea alla realtà stravolgendo quest’ultima pur di mantenere intatta l’idea preconcetta, ma si legge la realtà che a noi si presenta - e che un Altro da noi ha creato con le sue regole -  e solo poi si cerca il miglior sistema di governarla, indirizzandola verso il suo bene oggettivo.
E’ così che i due grandi pensatori, pur con quella preferenza per la monarchia che San Tommaso giustifica dicendo che è quella che più assomiglia al governo divino, non assolutizzano nessun modello amministrativo, ma ci dicono che la forma monarchica, aristocratica o democratica possono essere tutte e tre buone, purché rispondano all’indole e alla tradizione dei popoli governati. Di più, quegli adattamenti amministrativi stratificatisi nel tempo, adattandosi alla diversità delle realtà, possono essere spesso una ricchezza da mantenere. In altri termini ci sono popoli e territori che vanno governati in maniera diversa perché - semplicemente - sono diversi. Non esiste un modello unico di governo da riprodurre in serie, esistono popoli, storie, territori, culture. Non si calano sistemi, si costatano realtà.

Vi è poi nello Stato anche un genere di sostegno al governante, e al contempo di limite, costituito da quelle realtà sociali che naturalmente sono parte dell’insieme e come tali sono da rispettare. Si tratta di quelle entità che sono come le membra di un corpo che il capo non può recidere senza grave danno per il benessere di tutto l’organismo, entità che non si sostituiscono al capo, ma che il capo non può sopprimere o modificare a capriccio perché non le inventa lui, le constata o al limite ne favorisce la nascita, lasciando che le inclinazioni di natura prosperino. Sono i “corpi intermedi”.

Come la Chiesa dispiegò la sua millenaria saggezza nell’amministrare quei territori ad essa sottomessi anche “in temporalibus” e quali furono alcune applicazioni pratiche del descritto principio è l’oggetto di questo studio. Senza la pretesa d’essere esaustivi, ma con quella di fornire alcuni spunti di riflessione ed avendo ben chiaro che quanto proposto presuppone preliminarmente la sconfitta dell’odierna apostasia.

I frutti di buon governo, di ricchezza, di fioritura del sapere e delle arti nello Stato Pontificio non hanno bisogno di spiegazioni per chiunque non sia digiuno di storia, una delle cause di tanta prosperità è anche da individuare nell’esercizio mediato della sovranità. Un’impostazione profondamente lontana dalla divinizzazione assoluta dello Stato e della legge positiva e dall’uniformizzazione assoluta del globalismo d’oggi.
Per capire nel concreto la distanza che separa questi due mondi, concentreremo lo sguardo su tre aspetti: il primo sarà il rapporto tra autorità centrale e territorio, esigenza di unità intorno al governante e rispetto delle peculiarità e delle autonomie dei governati, riuniti a loro volta in altre società non da fagocitare o dissolvere, ma da rispettare.
Il secondo punto riguarda l’aspetto economico della concezione della proprietà terriera e del suo utilizzo a pro della prosperità dello Stato e tutelando i poveri al contempo.
Aldilà della concezione certamente datata, che vedeva la ricchezza prevalentemente nella terra, l’occhio attento e non ideologizzato saprà scorgere quale fosse l’impostazione economica da dare ad un ordinamento che cerchi di osservare la giustizia e la carità, nella legittima ricerca del benessere anche economico, ma senza affamare i poveri. Il terzo punto si concentra sull’opera di aggregazione ed assistenza effettuata dai ceti di mestiere e dalle confraternite, che univano ed organizzavano gli strati della società intorno a compiti ben precisi e incarnati sul territorio, così da essere un vero ed efficace collante per la società, occupandosi di tutti.   

Le premesse storiche

Nel corso dei secoli V-VII d. C., dopo lo spostamento della sede imperiale a Costantinopoli e il progressivo trasferimento dell’aristocrazia senatoria sul Bosforo, Roma si presentava come una cadente città di provincia; salvo l’esempio di Giustiniano, il disinteresse degli Imperatori era tale da allarmare i contemporanei; le uniche autorità a preoccuparsi delle sorti della città erano i Vescovi dell’Urbe, che per il loro prestigio avevano assunto un ruolo catalizzatore [1].

L’intervento dei Pontefici andava spesso a colmare le latitanze imperiali, al punto che il rifornimento di derrate della Città, l’Annona, andò a gravare sui granai della Chiesa; il tradizionale ruolo di assistenza ai poveri si confondeva così con i compiti che il potere civile non era in grado di assolvere [2].

I Vescovi romani, nonostante svolgessero effettive funzioni di governo, costantemente ribadirono la propria fedeltà all’Imperatore, al punto di implorarlo, spesso veementemente, di occuparsi con maggiore sollecitudine dell’Occidente e Gregorio Magno, nel 593, “denunciò con angoscia il vuoto lasciato dal Senato” [3].

Nel corso della prima metà dell’VIII secolo la situazione cominciò a prospettarsi insostenibile: i Longobardi di Astolfo minacciavano Roma, nel completo disinteresse di Bisanzio, peraltro effettivamente impotente […].  Nel 756 Pipino III il Breve, Re dei Franchi, al termine della vittoriosa campagna d’Italia, donava i territori invasi dai Longobardi al Principe degli Apostoli, «a S. Pietro e per lui al Pontefice regnante e ai suoi successori in perpetuo» [4].
Presso la Confessione di San Pietro furono depositati il documento (donatio) e le “claves portarum civitatum” [5]: con l’atto si provava l’avvenuta consegna.
Carlo Magno, confermando la donazione paterna, menzionava il confine settentrionale dei territori donati, da Luni nella Toscana settentrionale (“Luni cum Corsica’’) a Monselice passando per Parma e Reggio, consegnava al Pontefice una vasta porzione dell’Italia che includeva, oltre il Centro-Italia e il Meridione con le tre isole maggiori del Tirreno, anche Venezia e l’Istria; ma la questione dei confini, soprattutto quelli nord-orientali, ha suscitato in passato fra i giuristi, oggi fra gli storici, polemiche non ancora sopite [6].

L’assenso imperiale alla donazione fu ribadito da Ludovico il Pio nell’817 e dal Privilegium di Ottone I nel 962; anche l’Imperatore Enrico II nel 1020 confermò l’operato dei suoi predecessori. Se dubbi possono essere sollevati sulla facoltà di donare territori bizantini da parte dei primi re Franchi, altrettanto non può dirsi per gli ultimi esempi [7].

Lo Stato Pontificio andava lentamente delineandosi in una situazione di grande incertezza e instabilità, i Pontefici si trovavano di fronte un territorio che usciva dalle rovine delle invasioni barbariche e dal disinteresse dei Bizantini (e per il quale si prospettava una lunga latitanza degli Imperatori germanici). Ad aggravare la situazione si aggiunsero nel corso dei secoli IX e X le incursioni dei Saraceni (870, 910) dalla loro base sul Garigliano e le invasioni degli Ungari dal Settentrione (927, 937, 942), avvenimenti che furono alla base del fenomeno dell’incastellamento in tutta la campagna romana. Ma laddove possibile i Papi cercarono costantemente di mantenere il tessuto cittadino romano, favorendo così quell’impulso comunale che segnerà la grande fioritura del Medioevo in Italia centrale.

Durante i secoli XI-XIII si assisté al diffuso sorgere delle autonomie comunali, i cui statuti ebbero quasi sempre il sopravvento sugli ordinamenti feudali. Giova rammentare che la tradizione urbanocentrica dell’Italia non era mai venuta meno e la densità di sedi vescovili, quindi di città, era particolarmente alta proprio nell’Italia centrale [8]. Nel periodo in questione i Papi non hanno il pieno controllo del territorio e, grazie all’esercizio di una «autorità mediata attraverso comunità e istituzioni giuridiche che insistono, a loro volta, sul territorio e che hanno col potere centrale (...) rapporti molto diversificati implicanti comunque una qualche misura di bilateralità» [9], i Comuni prosperano e si innesca «un processo di ricostruzione di una territorialità imperniata sulla città, che non ha precisi termini di paragone nelle altre aree d’Europa» [10].

Il consolidamento dello Stato ecclesiastico vedrà, per citare esempi significativi, l’impegno di Gregorio VII, la risolutezza di Innocenzo III e di Bonifacio VIII, «ma gli Stati cittadini - si constata - sono piuttosto inglobati negli stati regionali che non sussunti e trasformati; gli ordinamenti territoriali di comunità di valle, di centri minori, di signorie territoriali sono rispettati da un potere politico centrale che ha un atteggiamento costatativo nei confronti delle istituzioni assise sul territorio, prende atto della loro esistenza, ne assume la tutela (“il sovrano tutore”)» [11].
Nel processo di rafforzamento degli Stati regionali non si sconvolge la geografia politica preesistente, ma la si rispetta e le si riconosce una funzione fondamentale, rispettando quell’idea di sovranità tipica del Medioevo, che cede ai “corpi intermedi” ampi poteri: «nello Stato Pontificio la territorialità delle città soggette (soggette ma ancora e sempre capitali provinciali, con larghe competenze in ambito giurisdizionale e fiscale) mantiene un peso molto rilevante, destinato a perdurare per molti aspetti sino alla fine dell’Ancien Régime» [12].

Nel 1309 ha inizio per la Chiesa il periodo della “cattività avignonese”. I Papi nella residenza coatta di Avignone devono sottostare alla pesante tutela della monarchia francese. Nelle maggiori città dell’Italia papale, sull’onda di una prassi diffusa, a profittare della situazione saranno alcune famiglie. I domini pontifici vedranno la fioritura di un numero straordinario di Signorie che a vario titolo governeranno su territori di media estensione, improvvisandosi despoti di provincia o protestandosi, in ricerca di legittimazione, feudatari della Santa Sede. L’epoca signorile vedrà l’esasperazione dell’orgoglio delle città egemoni; la fierezza dei Comuni aveva dilagato nei secoli precedenti grazie alla tolleranza dei Pontefici, ora quei capoluoghi dall’esteso contado, che avevano eretto austeri Palazzi Civici per le proprie piazze e svettanti campanili per le proprie Cattedrali, si sentivano capitali a tutti gli effetti, seconde solo all’Urbe, alla quale riconoscevano, in ambito temporale, un primato quasi più d’onore che di fatto.

Nel 1353 giungeva nelle terre della Chiesa il cardinale Egidio d’Albornoz come legato e vicario generale di Innocenzo IV; il compito del porporato era di ricondurre all’obbedienza città e istituzioni che avevano eccessivamente abusato della lontananza dei Papi; nell’arco di due anni il legato riuscì nella straordinaria opera di portare al riconoscimento della supremazia pontificia nel Patrimonio toscano, nel Ducato di Spoleto e nella Marca. Grande merito dell’Albomoz e causa del suo rapido successo fu «un atteggiamento privo di rigidezze dottrinali. Non esisteva un modello fisso di subordinazione comunale» [13].

Nella primavera 1357 il Cardinale volle la promulgazione delle Constitutiones Aegidianae, «rimaste in vigore, almeno in parte, nello Stato della Chiesa sino al 1816» [14], il cui spirito avrebbe permeato tutti i futuri rapporti tra potere centrale e istituzioni periferiche. Le Constitutiones codificarono un modello d’ordinamento amministrativo che, nel lungo termine, avrebbe dato frutti abbondanti; il Cardinale non volle interferire nelle varie forme di governo locale con le quali si imbatteva; in assenza di precisi divieti o controindicazioni le differenziazioni, specie se derivanti da tradizioni specifiche, non erano viste come elemento d’intralcio al consolidamento dello Stato.

Leggendo il testo, si constata che «le laudabiles et antique consuetudines» [15] vennero affiancate alla legislazione albornoziana, a patto che non fossero «a jure prohibite» [16]. Allo stesso modo gli «statuta ordinamenta, decreta aut municipales leges» [17] furono accolti di buon grado, a patto che non fossero «contra libertatem ecclesiasticam vel contra constitutiones generales nostras» [18].

Veniva sanzionato il principio del rispetto degli usi locali e delle tradizioni, alla condizione che non andassero a ledere i diritti della Chiesa.

Per quel che concerne l’organizzazione interna dei comuni, va notato che è pressoché impossibile fornire un quadro unitario della situazione nei domini pontifici, proprio in virtù della prassi suesposta, perché le realtà amministrative, lungi dall’essere imposte dall’alto, si forgiarono a seconda delle caratteristiche geografiche e insediative, e variarono a seconda dei momenti storici; si avevano forme di democrazia diretta, di governo aristocratico, di partecipazione mista “borghese” e nobiliare, di legislazione antimagnatizia con l’esclusione della nobiltà dalle magistrature o, più tardi, di tipo podestarile.

Dal XIII secolo in poi assunsero potere sempre più rilevante le Arti, associazioni che raggruppavano i membri dei mestieri e che difendevano i propri interessi in ambito legislativo e fiscale [19]. Il diritto consuetudinario venne ad avere la sua codificazione all’interno delle società comunali con ordinamenti che tutelavano le diverse componenti sociali attraverso un sistema corporativo e che curavano gli interessi delle popolazioni del contado attraverso una capillare rappresentanza territoriale [20].

Molti comuni avevano, nel XIV secolo, conosciuto esiti signorili, in virtù dei quali si era instaurato nelle città e nei territori soggetti un regime monocratico, che faceva capo ad una famiglia; anche in questi casi l’Albornoz aveva accettato lo status quo, limitandosi ad esigere atti di sottomissione più formale che reale.
Sul termine del XV secolo la spinta signorile si andava esaurendo e iniziava, per la Santa Sede, il lungo capitolo del recupero dei territori infeudati, del passaggio delle città, dal dominio mediato del signore locale, allo status di città immediate subiectae ovvero direttamente dipendenti dalla Sede Romana. Anche in questo caso, con una politica inveterata, il potere centrale non ardiva e non voleva soggiogare le comunità dello Stato, che nei secoli avevano dato prova di straordinaria capacità di autogoverno, senza eccessive turbolenze [21].

Con le città, il ritorno al diretto dominio pontificio si concordava ma non si imponeva; nel caso di Urbino si sarebbe atteso per decenni [22]. Nel contempo si garantiva rispetto per le consuetudini e le autonomie, si tutelavano le leggi locali e si concedeva facoltà di promulgarne di nuove, si riconosceva il diritto di determinare autonomamente la composizione del ceto dirigente, al momento della devoluzione e negli anni a venire [23]. La prospettiva era di lasciare che i centri maggiori continuassero ad esercitare il ruolo di capitali del proprio territorio; in taluni casi la Santa Sede giunse a concedere il mantenimento del titolo di “Stato”; spesso tale riconoscimento si protrasse fino alla caduta del potere temporale dei Papi, a dimostrazione che la larghezza delle concessioni non era un imperativo dettato dalle contingenze, ma una vera e propria linea d’intervento [24]. Si prendeva atto dell’esistenza di un insieme di stati minori, la cui sopravvivenza era garantita all’interno di una compagine più ampia, in cambio si chiedeva ai beneficiati il riconoscimento dell’assolutezza del potere temporale, che va letto non nel senso dell’assolutismo regio dell’età moderna come negli stati protestanti o nella Francia di Luigi XIV, ma piuttosto nel senso medievale di summa legibusque soluta potestas [25] del Pontefice, per cui il Governante, vedendo le cose dall’alto deve amministrare in vista del vero bene comune e proprio per questo non è tenuto al pedissequo e legalista rispetto di ogni norma giuridica. Egli non è sottomesso alle leggi positive (è appunto absolutus, ovvero “sciolto”, “libero”), piuttosto le adatta o le corregge laddove sono d’intralcio al bene, le applica appunto ad mentem legislatoris, avendo nella legge naturale e rivelata o nel diritto consuetudinario i limiti al suo potere regio.

Nell’ottica di uno “Stato di Stati”, Roma non era città dominante se non per il richiamo spirituale e perché residenza del sovrano (niente di simile si poteva riscontrare in Europa, ma neanche nella Repubblica di Venezia, nello Stato fiorentino o nel Ducato di Milano) [26].

Il potere centrale si limiterà ad inviare nella periferia dei rappresentanti, ma terrà sempre distinti gli ambiti di intervento, non solo nei confronti delle magistrature cittadine, ma anche riguardo i poteri religiosi locali; laddove il Pontefice inviasse Cardinali legati o Prelati governatori, si evitarono sempre sovrapposizioni con l’autorità vescovile del luogo; nello “Stato del Papa”, il Vescovo aveva funzioni pastorali, mentre le occupazioni temporali erano appannaggio dei legati pontifici [27].

Tra potere centrale e periferia si stringevano patti, per cui i “governatori” inviati e gli organismi cittadini collaboravano al buongoverno della cosa pubblica, nel reciproco rispetto dei ruoli; il “governatore” non era un plenipotenziario (ricorsi alla Sacra Consulta o alla Congregazione del Buon Governo nei loro confronti saranno frequentissimi) [28] è i magistrati comunali non erano dei dispotici oligarchi; si creava piuttosto nei capoluoghi una sorta di diarchia che cercasse di garantire da eccessi e soprusi.

La libertà cittadina si fondava su governi locali i cui membri venivano scelti, al mutare dei luoghi e dei tempi, da famiglie aristocratiche del territorio o da tutta la popolazione urbana con diritto di cittadinanza, dai capitani delle arti o da tutte le tre categorie menzionate; in alcuni casi il governo locale era affidato ai maggiorenti, a volte con esclusione della nobiltà feudale, in altri frangenti erano ammessi alle magistrature anche coloro che si occupavano delle “arti meccaniche”, o quanti praticavano l’agricoltura in fondi di proprietà [29].

Il modello che avrà maggior diffusione sarà quello patriziale, i magistrati venivano eletti o sorteggiati da un nucleo di famiglie ascritte in appositi registri, esso costituirà un corpo aperto e i nuovi ammessi saranno spesso cooptati secondo uno “ius proprium”, in completa autonomia rispetto al sovrano, che si limiterà spesso a ratificare le norme degli Statuti Civici. Nei consigli erano rappresentate le Associazioni di mestiere, come continuavano ad avere voce in capitolo le comunità del contado e, in caso di eventi straordinari anche i capi degli ordini religiosi, interpellati come persone di saggezza ed esperienza [30].

Grazie a questa elasticità la Santa Sede, nel corso di due secoli (XV-XVI), riuscì in una impresa apparentemente disperata, il recupero di un territorio soggetto a riottose città; progetto sicuramente più arduo che altrove, essendo l’autorità centrale priva di una continuità dinastica e di indirizzi familiari, il Papato è carica elettiva, avendo il pontefice una corte, la Curia Romana, cosmopolita e variegata, e, fattore estremamente influente, non disponendo il sovrano «in toto, come negli stati protestanti, del patrimonio ecclesiastico» [31]. Quest’ultimo nell’universo cattolico era sottoposto a norme consuetudinarie stratificate, che vedevano una selva di istituzioni proprietarie, oscillanti dalle confraternite agli ordini possidenti, dalle mense vescovili ai benefici parrocchiali, dai canonicati alle cappellanie. Si rendeva pertanto impossibile, se mai qualcuno l’avesse pensato, indirizzare lo sfruttamento economico di quel capitale in funzione del rafforzamento del vertice dello Stato, come invece avveniva in età moderna tra i príncipi protestanti, i quali avevano incamerato i beni ecclesiastici, gestendoli in maniera autocratica.

Tanto più difficoltosa si prospettava l’opera, tanto la pazienza e la lungimiranza dei Pontefici si rivelarono fruttuose: azioni di forza, che avrebbero indebolito e spossato quelle città, che invece costituivano il nerbo e la ricchezza dello Stato, furono limitate o pressoché bandite; si diede largo spazio all’autodeterminazione locale, nella coscienza che nessuno avrebbe potuto amministrare meglio un territorio, che andava dalle paludi pontine a quelle ferraresi, dalle selve della Tuscia alle feraci colline della Marca, da Benevento ad Avignone, se non le forze locali, che avevano prosperato sulla base di rapporti ed usi più che secolari.

A tanta attenzione nel trattare i propri sudditi arrise una stagione di ricchezza e prosperità, in cui i vantaggi si moltiplicarono per i governati e per i governanti: Montaigne, Montesquieu, Goethe si meravigliavano del fitto reticolo urbano delle province pontificie, oltre cento città, metà delle quali con una sede vescovile anteriore al Mille, della presenza di una “seconda città” del pari di Bologna, dell’autosufficienza delle comunità locali «sotto il profilo delle strutture assistenziali e degli ammortizzatori sociali: ospedali, opere pie e caritative, monti di pietà e frumentari, annona (...) attività legate allo scambio e distribuzione delle merci (fiere e mercati) [...] gestioni di forte rilievo nell’economia agraria (comunanze, domini collettivi) o connesse al governo idrologico del territorio (si pensi alla disciplina delle acque interne nel ferrarese e nel bolognese)» [32].

Ancora oggi è leggibile la vivacità della vita culturale delle città, che un siffatto sistema di governo permise dall’epoca medievale fino alle produzioni artistiche del Rinascimento, del Barocco e del Settecento, la fioritura di teatri e tribunali, di musei e biblioteche, di accademie letterarie e scientifiche, di collezioni pubbliche e private rendono testimonianza di una passata opulenza.
Allo stesso modo la realtà provinciale costituirà, per l’amministrazione centrale, un serbatoio di giuristi, formatisi in alcune fra le più antiche Università, lo Stato ne conta ben otto: Ferrara, Bologna, Perugia, Fermo, Camerino, Urbino, Macerata oltre naturalmente alla Capitale.

Un paesaggio dove l’identità di un territorio si legava a un capoluogo, col quale si identificavano anche gli abitanti delle più sperdute campagne, dove i limiti delle realtà amministrative erano poco più che provinciali, dove le città immediate subiectae, così orgogliose di un glorioso passato, dovevano obbedienza solo al Papa.

La Rivoluzione francese scardinò l’antico sistema con le idee dello statalismo d’oltralpe e l’epoca successiva della cosiddetta “Restaurazione” non seppe riproporre - certo con gli adattamenti che si rendevano necessari alle mutate circostanze - lo spirito della sovranità mediata e delle autonomie medievali.
Anche negli Stati Pontifici si stenta a vedere quella decisa volontà di ricostruire un tessuto che aveva portato tanta pace e tanta prosperità nel passato e, complice anche una certa sudditanza culturale del mondo cattolico verso alcune idee illuministe, si inseguì, seppur timidamente, un modello di “ammodernamento amministrativo” che guardava forse troppo alle pressioni europee e troppo poco alla vecchia tradizione di equilibrio fra centro e periferia. Nulla di paragonabile tuttavia alla tempesta ideologica dell’epoca “unitaria” che si abbatterà con tutta la sua ferocia sullo Stato Pontificio sconvolgendone il secolare ordinamento territoriale.

Ancora nel 1832 il Cardinale Tommaso Bernetti  scriveva : «Tutte le istanze e controversie relative a cambiamenti territoriali concernenti aggregazioni o separazioni di comunità (...) si risolveranno dai rispettivi delegati (...) dopo di avere esplorato il voto delle popolazioni interessate» [33]. Pochi anni dopo, all’indomani dell’Unità d’Italia, dando invece prova di quello spirito accentratore tanto caro ai governi d’ispirazione rivoluzionaria si soppressero, in dispregio alle rimostranze della popolazione, le province di Frosinone, Velletri, Civitavecchia, Orvieto, Viterbo, Camerino, Rieti, Fermo, Spoleto. Per il cosiddetto “stato moderno” l’idea concepita a tavolino prevale sulla realtà e di fatto si smembrarono territori affini e si unificarono paesaggi differenti, nel mito, condiviso dai soli cartografi, di disegnare inesistenti regioni [34].





NOTE

1 - G. Arnaldi, Le origini del Patrimonio di S Pietro, in Storia d ’Italia, diretta da G. Galasso, Torino, v. VII, t. II, pp.  15 e ss. Funzionari bizantini furono presenti a Roma fino al secolo VIII, ma la loro effettiva influenza nella politica cittadina fu marginale: cfr. O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, in Storia di Roma (ed. Istituto di Studi Romani), Bologna 1941, v. IX.
2Ibidem, p. 38 e ss.; per la gestione dei patrimoni ecclesiastici cfr. V. Recchia, Gregorio Magno e la società agricola, Roma 1978.
3Ibidem, p. 16. Anche in seguito i Papi, salvo '‘l’eccezione vistosa di Gregorio III, erano stati sempre attentissimi nel procurare che la difesa dell’ortodossia e la stessa esigenza del contenimento dei longobardi non pregiudicassero una linea di assoluto lealismo [verso l’Impero]”. Ibidem, p. 114.
4 -   Ibidem, pp. 119, 120.
5 -   Ibidem.
6 -  Per la complessa questione dei confini cfr. Arnaldi, op. cit., pp.127 e ss. I testi delle donazioni sono in A. Theiner, Codex diplomaticus domimi temporalis S. Sedis, recueil de documents pour servir à l’histoire du gouvemement temporei des Etats du Saint-Siège extraits des archives secrètes du Vatican, Rome 1861.
7 -  Sussistono dubbi fra gli studiosi in merito alla legittimità del gesto di Pipino; secondo alcuni egli non avrebbe avuto potestà riconosciuta sulle terre donate, formalmente ancora bizantine, come non l’aveva Carlo nel 781. Quest’ultimo, dopo l’incoronazione imperiale dell’800, vide riconosciuta la propria potestà sull’Occidente da parte del collega bizantino solo nell’812. Per comodità si è dato l’appellativo di “Re” anche a coloro che erano piuttosto delle guide di popoli.
8 -  G.M. VARANINI, L’organizzazione del territorio in Italia: aspetti e problemi, in La Società Medievale, a cura di S. Collodo e G. Pinto, Bologna 1999, pp. 135 e ss.
9 - Ibidem, p. 161.
10 - Ibidem, p. 162.
11 - Ibidem, 168.
12 - Ibidem, 169
13 - D. Waley, Lo stato papale dal periodo feudale a Martino V, cit., p. 295.
14 -  E. Saracco Previdi, Descriptio Marchiae .Anconitanae, Dep. di Storia patria per le Marche, Ancona 2000, p. XXI; per l’opera del cardinale d’Albornoz cfr. anche P. Colliva, Il Cardinale Albornoz, lo stato della Chiesa, le Constitutiones Aegidianae (1353-1357), Bologna 1977, con in appendice il testo volgare delle costituzioni di Fano dal ms Vat. Lat. 3939, Bologna 1977.
15 -  P. Sella, Costituzioni Egidiane dell’anno MCCCLVII, Roma 1912, pp. 233 e ss.
16 - Ibidem.
17Ibidem, e pp. 84 e ss.
18 - Ibidem. Per un approfondimento della questione cfr. Colliva, op. cit.
19 - J.C. Maire Vigueur, Comuni e Signorìe in Umbria, Marche, Lazio, in Storia d’Italia, cit., I comuni nel periodo consolare e podestarile, pp.383 ss.
20 - Ibidem, pp. 383-384.
21 - B.G. Zenobi, “Le ben regolate città”, modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma 1994, pp.14-16 e 45-49.
22 -  La devoluzione del Ducato d’Urbino avverrà solo nel 1631. Cfr. Zenobi, op. cit., p. 95.
23Ivi, p. 238.
24 -  Si veda ad esempio il caso di Camerino al quale anche dopo la devoluzione del Ducato e il passaggio a sede di Delegazione Pontificia fu riconosciuto il titolo di Stato, Città e Ducato, P. Savini, Storia della Città di Camerino, Camerino 1895, passim. L’uso di tale dicitura è frequentissimo nei documenti d’archivio cittadini e nell’uso generale almeno fino all’avvento della Rivoluzione francese, dall’epoca della Restaurazione in poi le menzioni si fanno più rare.
25 -  Cfr. anche R. de Mattei, La sovranità necessaria. Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno, Roma 2001.
26 -  B. G. Zenobi, op. cit, p. 6.
27 -  “Salvo temporanee e rarissime supplenze interinali o speciali attribuzioni di poteri commissariali affidati eccezionalmente ai titolari del governo spirituale delle diocesi (...) immediatamente reperibili (..) e ben informati degli affari locali”. Ivi, p. 6.
28Ibidem, pp. 47 - 48.                                                                                                                  .
29Ibidem, pp.197 e ss.
30 - P. Savini, op. cit., p. 180.
31 -  B. G. Zenobi, Le ben regolate città, cit., p. 51.
32Ivi, p. 7.
33 -  Editto del Cardinale Tommaso Bernetti “Disposizioni sull’organizzazione amministrativa delle provincie", Roma 1831, nella stamperia della Rev.da Camera Apostolica, titolo I, 4.
34 - Osservazioni interessanti in proposito provengono anche da altri punti di vista, cfr. R. Volpi, Le regioni introvabili, centralizzazione e regionalizzazione dello Stato Pontificio, Bologna 1983.








dicembre 2022
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