I sessant’anni del Concilio

di Don Jean-Michel Gleize, FSSPX


Pubblicato sul mensile: Courrier de Rome, n° 660 – gennaio 2023




 
«Fratelli e sorelle, torniamo al Concilio, che ha riscoperto il fiume vivo della Tradizione senza ristagnare nelle tradizioni».

1 – Questa è probabilmente una delle frasi chiavi dell’omelia pronunciata da Papa Francesco martedì 11 ottobre 2022 nella Basilica di San Pietro in Vaticano in occasione del sessantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II (1). Cos’è che il buon Popolo di Dio avrà potuto ricordare di questa riflessione? Molto probabilmente due parole: «fiume vivo» e «stagnare». Queste sono infatti due espressioni che colpiscono le menti perché parlano all’immaginazione. E in esse noi abbiamo due campioni particolarmente rappresentativi – due di più – della maniera sorprendente alla quale ci ha abituati il Papa, che non cessa di sconcertare.

2 – Infatti, è notevole il fatto che il pensiero di Papa Francesco si muova più o meno attraverso delle metafore, cioè attraverso delle immagini che parlano prima di tutto all’immaginazione. Certo, l’uso di queste immagini retoriche è benefico e persino necessario (2), poiché è conforme alla natura dell’uomo elevarsi fino alle idee intellegibili a partire dalle realtà sensibili e concrete. L’esempio pittorico che è la metafora rappresenta allora uno strumento prezioso, grazie al quale le menti dei lettori o degli ascoltatori possono accedere all’intelligenza delle definizioni e delle distinzioni. Ma è anche necessario che queste ultime siano presentate nel corso dell’esposizione che si basa sull’espressione metaforica. Quest'ultima interviene talvolta solo prima che sia data la definizione, per preparare la mente a coglierla, e talvolta dopo che sia stata data la definizione, per darne conferma. In entrambi i casi, per preparare e per confermare, l'immagine svolge il ruolo di esempio o di illustrazione. Ma va da sé che l’illustrazione suppone l’idea astratta che si vuole illustrare e che l’esempio suppone la nozione generale che si vuole concretizzare.

3 – Ora, noi siamo obbligati a constatare che il discorso pontificio attuale si accontenta molto spesso di ricorrere a delle formule, indubbiamente seducenti per la loro originalità, ma che rimangono puramente metaforiche. Dove ci si aspetterebbe una spiegazione o una prova, un argomento che dovrebbe rendere conto, agli occhi della ragione, dell’affermazione ripetuta, non si trova altra giustificazione che quella di un’immagine, e anche questa delude l’attesa di chi ascolta, perché assomiglia ad una piroetta.

4 – Per esempio, nel discorso che ha pronunciato in occasione dell’incontro organizzato dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, l’11 ottobre del 2017, il Papa comincia affermando che la Tradizione è «una realtà vivente» e che «solo una visione parziale può pensare il deposito della fede come qualcosa di statico».
L’idea è presentata e anche ripetuta, non solo a sazietà, ma, si potrebbe dire, usque ad nauseam: «La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare». E ancora: «Questa legge del progresso… appartiene alla peculiare condizione della verità rivelata nel suo essere trasmessa dalla Chiesa». Al tempo stesso, il Papa afferma che questa legge del progresso «non significa affatto un cambiamento di dottrina». Come spiegare il legame che dovrebbe unire le due affermazioni: l’idea del dinamismo e l’idea dell’assenza di cambiamento? Invece di ricevere una spiegazione, l’ascoltatore si deve accontentare di una metafora: «La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti».
 
5 – Un altro esempio interessante di questo modo di procedere ci è fornito dal «Documento di lavoro per la tappa continentale» pubblicato nel mese di ottobre dalla Segreteria Generale del Sinodo, intitolato «Allarga lo spazio della tua tenda», riferito al versetto di Isaia, LIV, 2; questo testo contiene nel suo paragrafo finale, n° 99, la seguente riflessione: «il Popolo di Dio esprime il desiderio di essere meno una Chiesa di mantenimento e conservazione, e più una Chiesa che esce in missione». Le parole che appaiono qui: «mantenimento», «preservazione», «esce», parlano all’immaginazione. Esse portano, certo, all’idea di una opposizione che colpisce l’intelligenza: opposizione che ha luogo tra, da un lato, un atteggiamento negativo, che corrisponde alla tensione di chi vorrebbe mantenere e preservare tutto ciò a cui è legato, e dall’altro l’attitudine positiva di apertura e progresso. Tuttavia, l’intelligibilità di questa opposizione non deriva – almeno direttamente – da un attento esame della realtà; l’intelligenza del fedele è piuttosto motivata dalle immagini che si nascondono dietro le parole, che ne sono diventate inseparabili per essere già state associate ad esse nell’ambito di un consenso mediatico. E l’immagine stessa dirige l’affetto, l’emozione, negativa o positiva.

6 – Un tal genere di discorso è ormai basato innanzi tutto non su delle proposizioni intelligibili, cioè su delle affermazioni o delle negazioni, basate su delle definizioni o delle distinzioni. Il discorso che utilizza Papa Francesco, come la maggior parte di coloro che oggi intervengono nel campo mediatico, è basato preferenzialmente su delle parole che trasmettono reazioni emotive e che comunicano idee precostituite, perché già controllate da questi riflessi affettivi.
Un attento osservatore dell’epoca contemporanea ha potuto scrivere che «le idee sono anche degli affetti. In particolare, l’accettazione del cambiamento e la fiducia nel futuro sono disposizioni del sentimento oltre che pensieri» (3). In altre parole, quando leggiamo la prosa di Papa Francesco, non dobbiamo cercare delle affermazioni nette, accompagnate dal ragionamento, come potevamo fare col suo predecessore. Ormai il discorso deve intendersi su un piano suo proprio, che il più sovente è il piano retorico. Su questo piano sono le parole cariche di immagini e di emozioni che rappresentano la parte principale del linguaggio. Siamo lontani dal discorso del 22 dicembre 2005. Senza accordare a quest’ultimo una fiducia che non merita, per il suo tenore evoluzionista, bisogna riconoscere che il pensiero di Benedetto XVI si dispiegava sulla base di uno strumento concettuale al quale il discorso di Francesco sembra sempre più estraneo. Da un lato avevamo a che fare, nella persona dell’ex professore di teologia dogmatica, con un discorso i cui elementi basilari erano proposizioni con le quali esprimeva dei giudizi, affermativi o negativi. Dall’altro ci troviamo oggi con l’attuale Sommo Pontefice davanti ad un discorso sconcertante, dove gli elementi basilari sono delle parole preconfezionate che si rivolgono all’intelligenza, ma attraverso la mediazione delle affezioni emotive.

7 – Nell’omelia già citata dell’11 ottobre 2022, il Papa dice anche: «Torniamo al Concilio per uscire da noi stessi e superare la tentazione dell’autoreferenzialità, che è un modo di essere mondano». Mai il Papa ci spiega, con tutta la precisione necessaria e sufficiente, in che consista precisamente questa «autoreferenzialità», né tampoco che cosa intenda per «Chiesa del mantenimento e della conservazione».
Le immagini della naftalina e della vecchia coperta, d’altronde, non dicono niente di più delle parole stesse.
La preghiera finale che il Papa rivolge a Dio alla fine di questa omelia si inscrive nello stesso registro: « Ti rendiamo grazie, Signore, per il dono del Concilio. Tu che ci ami, liberaci dalla presunzione dell’autosufficienza e dallo spirito della critica mondana. Liberaci dell’autoesclusione dall’unità. Tu, che ci pasci con tenerezza, portaci fuori dai recinti dell’autoreferenzialità. Tu, che ci vuoi gregge unito, liberaci dall’artificio diabolico delle polarizzazioni, degli “ismi”».
Al di là della liberazione che apparentemente è oggetto della richiesta, troviamo soprattutto le parole colorite che parlano, per suscitare una reazione di rigetto.

8 – Ci si obietterà che qui si tratta di un’omelia o di un discorso, e che le espressioni contenute in questo tipo di allocuzioni devono presentarsi con un linguaggio pastorale, diverso da quello delle Encicliche o delle Costituzioni Apostoliche. A questo rispondiamo che è proprio questo genere di allocuzioni che giungono il più sovente a conoscenza di molti. L’insegnamento di un Papa toccherà e convincerà più facilmente i fedeli cattolici per mezzo di un’omelia o di un discorso, di dimensioni relativamente brevi e facile da comprendere, piuttosto che per mezzo di un documento dall’importanza – e dalla difficoltà – maggiori. La maggior parte dei cattolici probabilmente non avrà letto nella loro interezza le cinque grandi Encicliche del Papa attuale o ne sono venuti a conoscenza solo attraverso dei resoconti molto sintetici – a rischio di diventare sempliciste – che ne danno i media, in testa ai quali è il caso di annoverare la Sala Stampa del Vaticano. Di contro, tutti hanno ritenuto le espressioni fortemente immaginifiche con cui Francesco cosparge senza cessa dei discorsi di ordine pastorale.
D’altra parte, quando si esaminano con una certa profondità le tre principali Encicliche  di Papa Francesco, Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, Laudato si’ del 24 maggio 2015 e Fratelli tutti del 3 ottobre 2020, ci si rende conto che in esse è presente la stessa logica di fondo descritta prima. Certo, vi troviamo delle espressioni che per rimanere il più delle volte di ordine pratico e pastorale, si presentano in una forma relativamente strutturata. Ma quali sono gli elementi di questa strutturazione? Sono le parole d’ordine del Concilio, l’appello incessante alla necessità di mettere finalmente in opera l’aggiornamento voluto da Giovanni XXIII e attuato troppo poco fino a quel momento.
E per convincerci, invece di basarsi sulle fonti della Rivelazione, Francesco si accontenta di ripetere incessantemente la cattiva canzone del Vaticano II. E quando presenta un ragionamento o una conclusione, queste si basano sull’inevitabile espressione pittorica e metaforica.

9 – Così, in Evangelii gaudium, al numero 95, Papa Francesco denuncia la mondanità di coloro che vorrebbero «dominare lo spazio della Chiesa», spirito di dominazione che si esprime in una « cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa» senza che si compia « il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio».
Cosa riterrà il semplice fedele cattolico di questo passaggio? Che la cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa corrispondono ad un’attitudine mondana. E il termine medio (o la prova logica) che autorizza questa conclusione è che questa attitudine equivale a «dominare lo spazio della Chiesa». L’espressione colpisce e si impone alle menti per mezzo di un’immagine carica di emozione «dominare lo spazio». Verrebbe voglia di aggiungere: «dominare lo spazio vitale del Popolo di Dio», e così facendo non si sarebbe molto lontani dal vero pensiero di Francesco. Il quale peraltro  continua a descrivere questo spirito di dominazione moltiplicando le metafore.
Così, al numero 96, stigmatizza ancora «la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere». E per finire, il rimedio che si impone per preservarsi o per guarire da questo spirito di dominazione, è offerto anch’esso per mezzo di una espressione immaginifica; «Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio. Non lasciamoci rubare il Vangelo!»

10 – In definitiva, ci si può interrogare sullo scopo, o almeno sul senso, di questo nuovo modo di esprimersi, così visibile in Papa Francesco. Infatti, il suo discorso abituale dà molto chiaramente l’impressione che per lui non si tratta tanto di dire qualcosa, quanto di far reagire, di creare una dinamica facendo appello all’affettività dei suoi ascoltatori.
A sessant’anni dal concilio Vaticano II non è più l’ora di adattare la presentazione della dottrina per renderla accessibile alla mentalità dell’uomo moderno, come dichiarò Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura; sembra che sia giunta l’ora, come afferma al numero 102 il Documento di lavoro citato prima, di avviare un «cammino di conversione e di riforma». Si tratta ormai di «camminare insieme» come popolo di Dio; e questo esige che il popolo di Dio riconosca «la necessità di una continua conversione, individuale e comunitaria» (101). Cosa e importante e decisiva, il Documento aggiunge nello stesso paragrafo che «questa conversione si traduce in una altrettanto continua riforma della Chiesa, delle sue strutture e del suo stile, sulla scia della spinta all’“aggiornamento” continuo, eredità preziosa del Concilio Vaticano II a cui siamo chiamati a guardare mentre ne celebriamo il sessantesimo anniversario».

11 – Occorre vedere in tutto questo la messa in evidenza dell’intenzione fondamentale di tutte le dichiarazioni del Papa, intenzione che esige essa stessa il ricorso a questo nuovo stile di discorso?
Questa è la domanda sulla quale oggi è il caso di soffermarsi.


NOTE

1 – L’omelia fu pronunciata in occasione della Messa in memoria del Papa «san» Giovanni XXIII, canonizzato da Francesco insieme a Giovanni Paolo II. Si veda a proposito il numero di gennaio 2014 del Courrier de Rome.
2 – San Tommaso lo spiega nella Somma teologica, parte I, questione I, articolo 5.
3 – Paul Bénichou, Le Temps des prophètes. Doctrines de l’âge romantique, Paris, Gallimard, 1977, p. 117. Paul-Isaac Bénichou (1906–2001) è stato un accademico francese di origine ebraica, specialista in storia della letteratura. Professore al Liceo Condorcet fino al 1958 e ricercatore associato al CNRS, ottenne il riconoscimento accademico negli Stati Uniti diventando, dal 1959 al 1979, professore ordinario di letteratura francese all'Università di Harvard, per un semestre all’anno; nel Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze, insegnò letteratura francese classica, ma anche poesia spagnola.




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