Educati dall’Eucaristia

di Elia


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Exsulta et lauda, habitatio Sion,
quia magnus in medio tui Sanctus Israel
(Is 12, 6).


Nascosto nel Santissimo Sacramento, il Signore ci educa silenziosamente, senza parole, alle Sue più sublimi virtù. Dal canto nostro, noi rischiamo sempre di profanarne la santa conoscenza riempiendo i termini indicanti i Suoi attributi di contenuti carnali (ossia di pregiudizi e sentimenti umani corrotti e peccaminosi) e proiettando in Lui le disposizioni del nostro io malato di amor proprio, arroganza e presunzione.
Un esempio lampante è quello, così comune, di chi giustifica la propria facilità all’ira ricorrendo all’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio, quasi il purissimo zelo del Figlio di Dio per la dimora terrena del Padre Suo avesse qualcosa in comune con l’iniqua passione di un peccatore. Come si travisa la giustizia riducendola a copertura della collera o del nervosismo, così l’orgoglio intellettuale viene spesso contrabbandato per amore della verità, l’infingardaggine per mitezza o comprensione, l’indolenza per umiltà e così via.

Allora il Salvatore, con somma condiscendenza, pone l’anima di chi Lo adora di fronte all’estrema povertà e nudità della Sua presenza eucaristica: l’Altissimo si abbassa ancora in maniera inaudita per ridar fiducia ai piccoli e confondere i superbi, offrendo un rifugio di salvezza agli uni e agli altri, purché si lascino trasformare dalla Sua misericordia.
Chi si pone in adorazione, a sua volta, sperimenta la propria miseria, dato che, a meno di grazie sensibili eventualmente concesse, lo stare in silenzio per un tempo prolungato davanti all’Ostia consacrata gli svela l’aridità dell’anima e gli fa sentire tutto il peso della sua peccaminosità. L’abituale ripiegamento sull’io viene allo scoperto con il disagio di non dover far nulla e la difficoltà di compiere atti di amore disinteressato, motivati dal solo desiderio di compiacere l’Amato con la propria umile presenza, anziché con dimostrazioni di talento che diano lustro e appagamento a chi le realizza.


Un suggerimento per l’adorazione

Come aiuto per entrare nelle giuste disposizioni, dunque, può servire la formula seguente, la quale, nella sua semplicità, rappresenta soltanto un’indicazione e può quindi essere adattata da ognuno alle proprie particolari esigenze spirituali:
«Gesù Salvatore, io ti adoro qui, nella tua presenza eucaristica, così pura, santa, dolce, umile e mite, così piena di forza, di amore e di pace». Perché l’adorazione sia fruttuosa, il movimento più urgente e decisivo è quello con cui distogliamo l’attenzione da noi stessi e la rivolgiamo verso di Lui, riconosciuto come la salvezza in persona, ossia come Colui che ci libera dall’eterna dannazione e ci dona la beatitudine senza fine non quale bene distinto e a sé stante, ma quale piena partecipazione alla Sua stessa vita, unione che è iniziata col Battesimo e si accresce ad ogni comunione ben fatta. L’Eucaristia contiene la realtà di cui, se lo avremo meritato, godremo per sempre e senza limiti, cosa di cui il Signore può farci pregustare qualcosa quaggiù.

Adorare significa riconoscere il proprio nulla e, al contempo, l’eccelsa maestà, potenza, sapienza e bontà di Colui che riceve quest’atto, realmente presente sotto il velo del Sacramento. Di fronte a tale straordinario fatto, tutto l’uomo interiore si concentra in esso, se la fede è retta e viva. L’intelletto contempla le perfezioni infinite del Dio nascosto, rivelatosi all’uomo per estrema condiscendenza. La memoria ne richiama alla mente le impareggiabili imprese salvifiche, dettate dalla Sua sconfinata compassione. La volontà è incatenata dalle profferte di un amore impagabile, tanto più sconcertante quanto più immeritato. L’affetto è rapito dall’irradiarsi della grazia che dall’ostensorio si riversa nel cuore. La sensibilità si sorprende a godere di qualcosa che non vede, non ode e non tocca… eppure la sollecita per vie sconosciute. Come per incanto, tutte le facoltà si unificano in un unico moto e si fissano sul medesimo oggetto, come invisibilmente calamitate.


Così pura, santa, dolce

La presenza del Signore nell’Eucaristia è anzitutto assolutamente pura, ossia esente dal più piccolo interesse per sé e per la propria affermazione. L’umanità di Gesù è perfettamente scevra da qualsiasi forma di ripiegamento su se stessa, dato che non porta gli effetti del peccato originale; al contrario, essa rispecchia la santità sostanziale del Verbo.
La presenza eucaristica è dunque infinitamente santa, in un grado che non possiamo nemmeno concepire; questa totale alterità rispetto alla natura corrotta la rende irresistibilmente attraente, pur nell’esiguità della specie visibile. La sua purezza e santità desta nel cuore purificato dalla penitenza un indicibile struggimento per ciò che il peccatore ha perduto e, al tempo stesso, uno smisurato desiderio di ricuperarlo, se mai riuscisse a meritarlo mediante il rinnegamento di sé e una sconfinata fiducia nella misericordia del Salvatore, del quale pur conosce l’indomita passione di riscatto e redenzione.

Così, lungi dallo scoraggiarsi, l’anima si abbandona al flusso di grazia, al quale non sa più opporre resistenza. Sommersa da un torrente di dolcezza, essa soffre per il troppo amore e geme per l’eccesso di delizie. A questo punto sopravviene il ricordo dei peccati passati; allora il cuore scoppia in lacrime di contrizione e di dolore, ripetendo senza posa: «Non sono degno… non sono degno… non sono degno!». Questo, però, non impedisce certo all’Amore infinito di essere ciò che è né di riversarsi nel cuore contrito, che riesce solo più a sussurrare: Suavis est misericordia tua (Sal 108, 21). Tale soavità non può esser descritta, ma soltanto assaporata nei limiti di quel che è concesso nello stato di viandante. Che sarà il suo godimento pieno e definitivo, di cui sulla terra non è dato pregustare se non qualche infinitesimale e fuggevole anticipo?
Quam bonus te quaerentibus! sed quid invenientibus? (Quanto sei buono per chi ti cerca! ma cosa sei per chi ti trova?).


Così umile e mite

Una bontà del genere si spiega unicamente con un’umiltà abissale. Non è l’umiltà della creatura (la vera conoscenza del proprio nulla), bensì una disposizione di qualità radicalmente diversa, esclusiva delle Persone divine, che nella pericoresi trinitaria si donano totalmente, senza trattenere niente per sé della propria sostanza perfettamente semplice. Il Figlio e lo Spirito Santo, procedendo dal Padre, l’uno per generazione, l’altro per spirazione, si riconoscono frutto di puro dono, motivato dal solo impulso, inerente alla natura divina, di partecipare il proprio essere per la felicità di colui che lo riceve e, reciprocamente, lo rende. Questa completa spoliazione di sé nella comunicazione di tutto ciò che sono è per le tre Persone, in pari tempo, la suprema realizzazione di sé, ma nella più assoluta gratuità possibile; essa si prolunga nel Sacrificio del Verbo incarnato e nel Santissimo Sacramento.
Come può la creatura, di fronte a ciò, mirare ancora all’autoaffermazione?

Inscindibile da tale umiltà singolare, una signoria mite e serena si dispiega dalla presenza eucaristica, una regalità benefica e radiosa che, per esercitarsi, non ha bisogno di ricorrere alla violenza e alla sopraffazione. Del resto, come potrebbe imporsi l’amore, se non sollecitando una risposta libera che lo sia in sommo grado? Esso la desidera ardentemente, certo, ma unicamente per potersi riversare nell’amato e colmarlo di tenerezze a suo solo vantaggio. Tutto questo appartiene alla natura stessa del nostro Dio, presente sull’altare come cibo di vita eterna; per noi, invece, è risultato di lunghe e penose purificazioni, sia pure nei limiti consentiti alla creatura.
Se l’umiltà è la base e il fondamento di tutte le virtù, la mitezza ne è il coronamento; dato che per i peccatori esse non sono affatto spontanee, occorre apprenderle dal Cuore divino che, nell’Eucaristia, continua a pulsare e patire per loro, benché pieno di forza, di amore e di pace.


Piena di forza, di amore e di pace

Non è una possanza che schiacci o travolga, bensì il mansueto e tranquillo vigore di Colui che, con infallibile provvidenza e inoppugnabile potere, governa l’universo intero in vista del trionfo del bene e della propria glorificazione nelle Sue creature.
«La tua potenza è principio della giustizia e l’essere Signore di tutti ti fa essere clemente con tutti. Mostri infatti la tua forza se non si crede che sei perfetto in potenza, e reprimi l’audacia di coloro che non ti conoscono. Tu però, che sei padrone della forza, giudichi con moderazione e ci governi con grande riguardo, poiché il potere ti è soggetto quando vuoi» (Sap 12, 16-18).
Gesù non è certo un tiranno timoroso di sedizioni o tradimenti, ma un magnifico Sovrano il cui trono è saldissimo e che in ogni istante può tutto ciò che desidera a beneficio dei Suoi sudditi; quelli che Lo riconoscono sono felici di obbedirgli sottomettendosi alla Sua ineccepibile equità, mentre i ribelli si sfracellano contro la Sua incorruttibile giustizia.

L’Eucaristia è la suprema testimonianza, viva e permanente, della smisurata carità con cui il Figlio di Dio fatto uomo si è offerto al Padre per noi sulla croce; è l’Agnello stesso della nostra redenzione in stato, al contempo, di immolazione e di gloria. Se il Padre, per così dire, non ha perdonato a Lui per perdonare a noi, consegnandolo alla morte perché scontasse nella propria Persona l’intero debito dell’umanità, come possiamo dubitare che con Lui ci doni anche ogni cosa necessaria alla nostra salvezza (cf. Rm 8, 32)? Un amore simile può forse imporsi un limite che non sia quello oppostogli dal libero arbitrio dell’uomo? Chi lo desidera sinceramente, quando si colloca davanti al Santissimo Sacramento lo riceve in abbondanza, a prescindere da ciò che percepisce: l’essere amati da Cristo è un fatto oggettivo, i cui effetti sono certi per chi vi si espone con fede, indipendentemente dal suo stato emotivo e dalle grazie sensibili che può ricavarne.

La presenza eucaristica di Gesù ci infonde infine una fiducia incrollabile. Egli è qui, davanti a noi, con la Sua potenza e sapienza infinite. Chi si abbandona a Lui sa di non aver nulla da temere, poiché persino gli avvenimenti avversi, ricevuti dalla mano della Provvidenza, tornano a vantaggio di chi Lo ama. Nessuna prova può scuotere il cuore radicato in tale certezza: «Fedele è Dio, che non tollererà che voi siate tentati al di sopra di ciò che potete, ma con la tentazione opererà pure il profitto, perché possiate sopportarla» (1 Cor 10, 13).
Nel metterci alla prova, Egli guarda al bene che ne ricaverà: la nostra purificazione, il progresso nella virtù, il consolidamento dell’amore per Lui, un più alto grado di gloria in Paradiso. Chi va a caccia di motivi di inquietudine si esclude da questa pace, dato che non la vuole davvero, ma cerca pretesti per giustificare quell’agitazione e ribellione che ha già previamente scelto.


Esulta e loda

«Esultate e lodate, abitanti di Sion, poiché grande in mezzo a voi è il Santo d’Israele» (Is 12, 6).
È proprio in mezzo a noi, nel mistico cuore della Città di Dio, la santa Chiesa, ed è davvero grande, anzi infinitamente grande, potente, amabile, saggio, benevolo, attraente e pietoso. Il tempo passato lontano da Lui o senza pensare a Lui sembra ormai del tutto sprecato all’anima che ne ha gustato l’affetto; quando perciò non può visitarlo nel tabernacolo o vederlo esposto sull’altare, essa rimane incatenata al Suo ricordo. Struggendosi di non poterlo stringere con le braccia dell’amore, va allora cercandolo nel fondo del cuore, dove Egli s’è nascosto con la grazia e le manda mille richiami per farsi ritrovare. Beata l’anima che, con suprema meraviglia, Lo scopre rincantucciato laggiù, nella sua intimità più profonda, e s’abbandona alle delizie di ineffabili scambi, in attesa di tornare ad adorarlo, con rinnovato slancio, nell’Ostia raggiante di celesti splendori.






marzo 2023

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