San Giuseppe
e
la forza dell’essere Padri oggi


di
Cristiano Lugli






Miniatura in tempera e oro da un Libro d'Ore composto a Besançon, in Francia,
nel 1450 circa, Fitzwilliam MS 69 folio 48r,The Nativity,
Fitzwilliam Museum, Cambridge, Inghilterra


Oggi, 20 marzo 2023, la Chiesa Cattolica celebra la Festa di San Giuseppe, Sposo di Maria e Patrono Universale della Chiesa. Notoriamente la Festa di San Giuseppe ricorre il 19 marzo, ma quando la festa cade in una Domenica di Quaresima essa viene traslata, cioè semplicemente spostata eccezionalmente al giorno seguente.

Come ogni anno, anche quest’anno abbiamo sentito delle varie polemiche rispetto alla celebrazione della “festa del papà”, accezione oramai fastidiosa per chi vede sostanzialmente nel papà un nemico della società stessa. In effetti è certamente così, perché la distruzione della figura del padre parte da molto lontano, e oggi ne vediamo solo lo scalpo finale. A ben pensarci, per quanto possa certamente essere qualcosa di simbolico che è meglio rimanga, siamo veramente sicuri che la ricorrenza della “festa del papà” sia veramente indispensabile nei termini a noi noti oggi?

Quale “papà” viene celebrato in queste ricorrenze? Che idea si ha del “papà”? Ma, soprattutto, chi è veramente il “papà” di oggi?

La risposta a tutte le domande è molto semplice: il papà è diventato un accessorio, una figura non ben definita senza più alcuna autorevolezza.
Da qui derivano sostanzialmente due modelli di padre moderno: quello indifferente o più meno inesistente, e quello autoritario, poiché incapace di esercitare il suo ministero con autorevolezza — ovvero con Fortezza e Carità.

Fortezza e Carità: due delle più alte virtù che hanno rappresentato la figura di San Giuseppe, unico e vero modello di paternità, unico vero modello di Capofamiglia.
Egli con la sua Fortezza ha guidato la Santa Famiglia in mezzo alle difficoltà e alla persecuzione. Egli con la sua Carità ha creduto a Maria, l’ha accompagnata e protetta. Egli che, con il suo sommo e profondo mandato divino di padre putativo del Verbo Incarnato, lo ha cresciuto, ammaestrato ed iniziato all’artigianato.
Infatti, originariamente, il termine “artifex” (colui che esercita un’arte) designava sia l’artista sia l’artigiano, non differenziando l’arte dal mestiere, giacché dal punto di vista tradizionale tutto quanto è realizzato in conformità “all’ordine” merita d’esser considerato come un’opera d’arte a tutti gli effetti. Non per un’interpretazione estetica fine a se stessa – come potrebbero intenderla la mentalità moderna – ma piuttosto secondo l’accezione dell’arte quale “imitazione della natura nel suo modus operandi”, ovvero nel modo d’operare del Creatore dal Quale tutto dipende e al Quale tutto si conforma, elevando il concetto di lavoro artigianale ad una dimensione spirituale, che pone il suo principio primo ed ultimo in Dio.
Più l’azione dell’artigiano, nel suo dominio particolare, si fa simile a quella del Creatore, più la sua opera si integra nell’armonia del Creato. In ciò risiede la sapienza tradizionale, nel ricondurre ogni cosa ad un ordine superiore, cioè a Dio.
Ma tornando alle arti va detto che non a caso tutte le arti antiche possedevano una propria tradizione sacra, la quale stava a significare, per l’appunto, la presenza di un’origine spirituale recondita. In ciò veniva dunque espressa l’idea di una conoscenza esclusiva e “segreta” delle arti che veniva trasmessa da mastro (maestro qualificato nella conoscenza e nell’insegnamento di una determinata arte) ad apprendista. Da padre a figlio. Era sulla base di tali princìpi che l’artifex d’un tempo svolgeva rettamente la sua attività, fedele ad un interesse in nessun modo alterato da motivi materiali e consapevole di occupare il grado gerarchico che gli apparteneva per vocazione. Creando, costruendo ed insegnando, egli concorreva effettivamente alla realizzazione del piano divino e viveva al contempo in ogni atto il valore di un rito.

Questo ha rappresentato sicuramente anche il rapporto padre e figlio fra San Giuseppe e Nostro Signore, un rapporto di trasmissione di un’arte sacra.

Oggi tutto questo non esiste sostanzialmente più: il padre è quello che lavora in azienda, che produce un reddito, che non lavora tuttalpiù più per vivere, ma vive per lavorare.

Egli è snaturato dalla sua vocazione, è schiacciato dall’ingranaggio della produttività per il consumo, è sradicato dal focolare domestico di cui dovrebbe essere custode.

Quante volte abbiamo sentito dire la frase, anche da persone piuttosto adulte che ricordavano commosse la figura dei loro padri non più in vita, “mio padre è stato una bravissima persona, un grande ed instancabile lavoratore”.
Siamo cresciuti in una società — quella recente — che ci ha rappresentato la figura del padre modello come quella del lavoratore instancabile. Tuttavia, se a queste persone verrà domandato: “Ma quante volte tuo padre ha giocato con te da bambino? Quante volte ha fatto i compiti con te? Quanto è stato presente nella tua vita?”, vedrete che calerà un profondo silenzio.

Quel silenzio, a dire, il vero, che la figura del padre rappresenta da molti, moltissimi anni a questa parte.

Ci sarebbe tanto da dire sul patricidio nella società, ma vale la pena rimandare agli ottimi studi condotti da Claudio Risé, primo fra tutti la sua opera “Il padre. L’assente inaccettabile”, libro che ogni padre di famiglia dovrebbe avere in casa, leggere e rileggere.

Dobbiamo chiederci invece nell’immediato cosa dobbiamo fare noi, padri di famiglia, per essere degni di tale nome, degni di tale ministero ma, soprattutto, per avere la forza di essere padri oggi in mezzo ai lupi rapaci.

È indispensabile rimediare a ciò che hanno fatto credere fino ad ora, e cioè che il padre di famiglia deve essere quello che porta a casa il salario, ma che tutto sommato il suo non basta ed è indispensabile anche quello della moglie, riducendo così la famiglia ad essere un agglomerato di singole unità disunite che si salutano al mattino e si ritrovano stanche morte alla sera.
E i figli? Beh, i figli delegati allo Stato, che provvederà a farne delle giovani (e poi conseguenti adulte) amebe indottrinate al pensiero statale e moderno.

Dobbiamo abbattere questi schemi, dobbiamo uscire da queste folli condizioni.

Padri di famiglia, per l’esempio datoci da San Giuseppe, difendiamo le nostre mogli esaltandole nel loro ruolo di madri, di generatrici della vita, di angeli del focolare che non possono essere in alcun modo essere sradicate da esso. Difendiamo i nostri figli non consegnandoli allo Stato, quello Stato che, come scriveva Guareschi già settant’anni addietro “fa le strade e fa camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e sempre più ci avvince nella matassa ormai inestricabile delle sue leggi e dei suoi regolamenti, e sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria”.

È nostro dovere proteggerli, preservarli da un veleno che non è affatto necessario, come vi dirà sovente qualcuno, “per farsi gli anticorpi perché tanto prima o poi dovranno scontrarsi col mondo”, poiché quello stesso veleno li avvelenerà di un avvelenamento irreversibile.

Dio certamente vuole che il nostro ruolo sia quello di Capofamiglia; così come vuole che la moglie sia l’Angelo del focolare, e che quindi si occupi principalmente dei figli, della casa, e di tutto ciò che rientra nel meraviglioso e quanto mai santificante ruolo di moglie e madre.

Potremo mai avere paura che un’opera gradita a Dio non sia da Lui assistita? Potremo mai pensare che in quelle famiglie cattoliche dove oggi la moglie resta volontariamente a casa dal lavoro per occuparsi della famiglia, rinunciando quindi al dogma del salario, non si manifesti il compiacimento di Dio che provvederà a tutto?
Li abbiamo visti quei gigli nei campi come sono splendidamente rivestiti, e come si nutrono, ogni giorno, quegli uccelli nel cielo di cui di nuovo ci parla il Vangelo?

Quanto a noi, cari padri di famiglia, per quanto difficile e per quanto possa essere nelle nostre possibilità, cerchiamo sempre più di ritagliarci il tempo per la nostra famiglia, perché quegli attimi, quei momenti, quei sorrisi dei nostri bambini e quelle necessità dei figli più grandi a cui dobbiamo rendere ascolto ad aiuto, nessuno ce li ridarà più.

A nessuno, in questo mondo così capovolto, interessa di noi, dei nostri figli, dell’amore per le nostre famiglie. Dobbiamo quindi essere noi gli sciocchi che si sentono in debito con questo mondo?

C’è in ballo tutto, amici: la sovranità genitoriale, la sovranità biologica, la Salvezza delle anime dei nostri figli e delle nostre mogli, da cui dipende anche la nostra Salvezza, poiché di loro siamo responsabili e ne saremo quindi anche chiamati a rispondere dinanzi a Dio.

In fondo cari padri di famiglia, al termine di questa vita conterà solo ciò che avremo fatto per Dio, che ci ha chiamati ad adempiere al meglio ai nostri doveri di stato all’interno della famiglia.

San Giuseppe, modello assoluto di paternità, ci assista e ci ricolmi di quella virtù quantomai carente oggi: la Fortezza.

Familiarum Columen, ora pro nobis!












marzo 2023
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