Béchir Gemayel :
«Un giorno l’Occidente sentirà la necessità
di ritornare qui, alle fonti»



Articolo di Don Gabin Hachette, FSSPX




Pubblicato il 13 luglio 2023 sul sito informazioni della Fraternità





Béchir Gemayel



Libano, aprile 1975: il paese, da anni afflitto da una marea di immigrati e dall’insicurezza, si infiamma dopo una sparatoria. Mentre i servizi statali sono sopraffatti, si erge un giovane cristiano di 26 anni.

Il Libano è un magnifico paese d’Oriente la cui civiltà risale ai tempi più antichi. Fu evangelizzato fin dai primi anni della Chiesa. Nelle sue montagne piene di cedri i cristiani trovarono rifugio davanti all’invasione islamica a partire dal VII secolo.
Mai sottomessi alla dhimmitudine [patto di sottomissione all’Islam dei non islamici di un dato territorio, col pagamento di una tassa], sembrava che ai primi degli anni 1970 i cristiani fossero destinati a scomparire. Fu allora che sorse un giovane capo dalla tempra dei grandi eroi.


La famiglia Gemayel

Il 10 novembre 1937, la famiglia Gemayel è in festa: è appena nato il sesto figlio di Pierre e Genevieve, a Achrafieh, storico quartiere cristiano di Beirut. Il piccolo Béchir viene subito battezzato nella chiesa di San Michele del villaggio di Bikfaya, roccaforte familiare non lontana nella montagna. È da qui che questa stirpe di notabili ha brillato fin dal XVII secolo, ancorata a una solida casa di pietra che si è tramandata di generazione in generazione, ognuna delle quali ha prodotto la sua parte di grandi uomini: soldati, medici, avvocati, giornalisti, diplomatici... I massacri di cristiani compiuti tra il 1858 e il 1860 dai drusi sotto l’influenza britannica costrinsero parte della famiglia all’esilio, e questa si stabilì a Mansourah, un’importante colonia libanese in Egitto, dove l’economia fioriva grazie alla recente apertura del Canale di Suez.
Il nonno paterno di Béchir tornò nel suo Paese all’inizio del XX secolo come medico e tra i suoi clienti di Beirut c’erano molti dei personaggi più influenti del Libano. Devoto maronita, il dottor Amine era noto per la sua fede e la sua rettitudine morale.

Il padre di Béchir, Pierre, nacque a Bikfaya nel 1905. A nove anni la sua famiglia dovette tornare in esilio a Mansourah, mentre gli Ottomani decimavano i Libanesi per fame, durante la Prima Guerra Mondiale. Ritornò a 13 anni e proseguì i suoi studi dai Gesuiti. Meno brillante del padre, si laureò in farmacia alla Place des Canons di Beirut. La sua fama crebbe come grande sportivo, tanto che fondò la federazione calcistica libanese e la rappresentò ai Giochi Olimpici di Berlino nel 1936. Molto colpito da quanto vide in quell’occasione, al suo ritorno diede un forte impulso alle Falangi libanesi, un movimento sportivo che divenne rapidamente uno strumento di azione politica per i giovani libanesi nazionalisti.
Pierre Gemayel fece pressione sulle autorità francesi per ottenere l’indipendenza del suo Paese, che era sotto mandato dal 1918. Manifestò senza farsi intimidire dalle minacce e vinse il 22 novembre 1943, grazie alle divisioni franco-francesi tra i sostenitori di Vichy e gollisti durante la Seconda Guerra Mondiale. La prima copia della nuova bandiera libanese nacque in casa Gemayel, disegnata sul pavimento e cucita da Geneviève, la madre di Béchir!

Geneviève aveva 25 anni quando sposò Pierre nel 1934. Questa moglie libanese era nata nel 1908 a Mansourah da una famiglia esiliata in Egitto, e vi era tornata solo per le vacanze quando aveva incontrato il marito. Ben preparata per la sua missione, era dotata di tutte le abilità manuali e artistiche (musica, pittura), ricevendo diversi premi dalle mani del re egiziano Fouad. Tenace e audace, superò segretamente l’esame di guida a 16 anni e ottenne il brevetto di pilota d’aereo a 20 anni!
I coniugi Gemayel ebbero quattro figlie e due figli, Amine e Béchir. Madre devota, preparò le figlie a diventare mogli esemplari e colte, capaci di gestire la casa e di educare i figli. Prestava particolare attenzione all’istruzione dei ragazzi, ma Béchir, troppo malizioso e indisciplinato, fu sempre un allievo mediocre.
Pierre esercitava la sua autorità paterna, i pasti in famiglia erano consumati in assoluto silenzio e la Domenica dopo la Messa era dedicata a lunghe passeggiate. Al suo fianco, Béchir imparò il senso del servizio, la rettitudine e l’amore per il Libano. Per tutta la vita continuerà a rivolgersi al padre in piedi, in segno di rispetto.



Béchir Gemayel col padre


La giovinezza di un capo

La giovinezza di Béchir fu turbolenta: non sopportava la costrizione quando la trovava ingiusta. Suo padre dovette correggere i suoi capricci e la sua testardaggine in modo severo. Le punizioni e i richiami erano così frequenti che all’età di 12 anni fu espulso dalla scuola dei Gesuiti di Jamhour. Dopo una carriera scolastica caotica, ottenne finalmente la maturità letteraria all’età di 20 anni. Finita la scuola, Béchir si dedicò all’attivismo politico con il Kataëb (Falange libanese), che l’appassionava di più.
Con la stoffa del capo, raccolse intorno a sé un gruppo di amici e prestò loro dei libri ben documentati.
Le sezioni studentesche del Kataëb partecipano a corsi di addestramento paramilitare in montagna, aiutano i più svantaggiati, partecipano a grandi eventi locali, danno una mano e lottano nelle strade contro le attività antipatriottiche della sinistra filo-palestinese e dei musulmani panarabi. Questi ragazzi hanno forgiato amicizie e lealtà che dureranno tutta la vita e che in seguito saranno al fianco del Consiglio militare delle Forze libanesi.




Béchir Gemayel, giovane avvocato


Nel 1966 conobbe una bella ragazza di 16 anni, Solange, che studiava segretariato presso le suore francescane. Si frequentarono onestamente per undici anni prima di essere pronti a sposarsi e a mettere su famiglia nel marzo del 1977.
Studente mediocre e indisciplinato fino a quel momento, Béchir iniziò a lavorare assiduamente e nel 1971 ottenne le lauree in diritto francese e libanese all’Università Saint-Joseph, con lode. Allo stesso tempo, insegnava educazione civica in uno dei suoi ex collegi, l’Institut moderne du Liban.
Ai suoi alunni insegnava il senso di responsabilità e questi rimanevano colpiti dalla sua calma, dalla sua franchezza e dalla sua capacità di ascolto.
Al termine degli studi, Béchir scelse di diventare avvocato e fece dei tirocini negli Stati Uniti prima di aprire un proprio studio legale ad Achrafieh nel 1974.

 Ma gli eventi precipitarono...


La guerra inevitabile

La guerra del Libano fu più che una guerra civile, fu una guerra di liberazione, perché una buona parte della popolazione si schierò con lo straniero in nome dell’Islam.
A partire dal 1948, la società libanese accolse molto largamente i Palestinesi cacciati dalle loro case dagli Ebrei sionisti in seguito alla creazione dello Stato di Israele.
Con generosità, i maroniti accolsero volentieri i rifugiati, che presto si sentirono come a casa loro.
A partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, essi furono massicciamente armati dall’Unione Sovietica e dai Paesi arabi. Lo Stato libanese, troppo debole, era ormai ampiamente fuori dai giochi e non aveva più alcun controllo su nulla; concedeva zone extraterritoriali sul proprio territorio dove l’esercito non poteva più entrare.

Béchir aveva 22 anni quando, nel 1969, i cristiani libanesi furono costretti ad ammettere di essere invasi dai rifugiati. Nel 1975 erano più di 600.000 su una popolazione di due milioni di abitanti! Insieme ai musulmani libanesi, i Palestinesi crearono uno Stato nello Stato, controllando, rapendo, torturando e tenendo in ostaggio i cristiani e molestando e violentando le donne cristiane nei loro campi.
Nel 1970, Béchir Gemayel sentì il disagio nella sua carne, quando fu detenuto per ventiquattro ore. Il suo orgoglio esplose e decise di unirsi alla resistenza per liberare il suo Paese dall’immigrazione occupante, con la quale i socialisti, i comunisti, i sunniti e i drusi libanesi avevano stretto un patto.
Gli islamici si unirono ai Palestinesi per cacciare i cristiani e sottometterli, come íncita il Corano.
Dobbiamo reagire, “aspettare sarà troppo tardi”, diceva Béchir.
Nel 1973, si costituirono le prime forze armate kataëb, 80 combattenti.
Due anni dopo c’erano 3.000 giovani cristiani, discretamente addestrati nelle montagne vicino a Jounieh. Gli assalti alle postazioni dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), molto più armate, furono il loro battesimo del fuoco.

«Il 13 aprile 1975 è stato un complotto il cui primo scopo era di acquisire il ruolo politico e culturale che era dei cristiani, e trasformare il Libano in uno stato islamico. La resistenza […] del popolo cristiano frantumò questo progetto […] Noi non abbiamo alcuna intenzione di vivere nella dhimmitudine». Furono queste le parole di Béchir per spiegare quello che accadeva ad Aïn el-Remmaneh (quartiere a Sud di Beirut) dove le milizie palestinesi aprirono il fuoco contro i cristiani presenti sul sagrato della chiesa del Buon Soccorso, il giorno dell’inaugurazione.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso, scoppiò la guerra.
Gli uomini presero le armi e non lasciarono in vita nessuno dei 25 provocatori fedayn. Un’ora dopo, il capo druso Kamal Joumblatt invitò i musulmani a mobilitarsi contro i cristiani e i incominciarono a cadere i proiettili sulla chiesa di Buon Soccorso e sull’intero quartiere.
I bombardamenti provocarono immediatamente una mobilitazione dei cristiani, le cui risorse militari erano irrisorie. I combattenti lottarono furiosamente per la loro sopravvivenza: gli scontri di strada provocarono 120 morti in quattro giorni. Tutti si rivolsero a Dio e alla Beata Vergine, consapevoli di dover affrontare un esito fatale contro un nemico che raramente faceva prigionieri.




Béchir Gemayel, combattente cristiano



Operazione sopravvivenza


Vennero formati dei commando cristiani d’élite, i temibili Béjin, addestrati da militari libanesi e da un ex ufficiale francese della II Repubblica, François Borella.
Data l’urgenza della situazione, erano necessarie tutte forze disponibili, così fu formato un battaglione femminile da Jocelyne Khoueiry.
Béchir si fece apprezzare nelle battaglie urbane e il suo autocontrollo, il suo innato genio per la guerra e la sua umiltà gli valsero l’affetto dei combattenti e della popolazione. Di conseguenza, ottenne gradualmente posizioni sempre più importanti, tra cui il comando supremo del Kataëb (60% della milizia cristiana).
Doveva proteggere i quartieri cristiani di Beirut, assediati e bombardati, fornire assistenza e parlare alle famiglie che soffrivano. I combattenti falangisti lottarono così ferocemente per la loro sopravvivenza che spesso l’ardore del nemico si raffreddava.
Con pochi uomini, riuscirono a resistere per mesi contro un nemico più numeroso e maggiormente armato. Alcuni studenti francesi si unirono a loro.
A volte alcuni settori cedettero, come il 16 gennaio 1976 a Damour, dove gli aggressori saccheggiarono, violentarono e uccisero gli abitanti: la Croce Rossa contò 580 cristiani morti, tra cui decine di corpi smembrati.
Seguirono numerose battaglie (nel quartiere degli alberghi, Quarantena, Dbayeh, Tall ell-Zaatar, ecc.), che si conclusero con impressionanti successi difensivi.




Béchir Gemayel, ufficiale di guerra


Dopo la diserzione in massa dei soldati musulmani (il 60% degli effettivi), l’esercito nazionale libanese era ormai un cadavere, non più in grado di unirsi alla coalizione islamica, la Ummah.
Béchir si rese conto che, con solo i kalashnikov e gli RPG e un uomo contro trenta, la sua lotta non poteva durare e, poiché nessun Paese occidentale voleva sostenerlo, strinse ragionevoli legami con Israele per ottenere rifornimenti di armi pesanti. Israele aveva tutto l’interesse a farlo.
Furiosi, i musulmani intensificarono gli attacchi terroristici nel 1977 e la Siria invase gran parte del Paese sotto la copertura di una forza fantoccio di dissuasione araba (ADF). Arafat aveva detto dei cristiani libanesi: “Ne elimineremo un terzo, un altro terzo fuggirà e un terzo si sottometterà”. Ma era troppo tardi, la guerra permise di raccogliere intorno a Béchir una squadra di qualità eccezionale. Nel 1978, il Kataëb arrivò persino a salvare una caserma dell’esercito libanese assediata dai siriani!
Il Presidente del Libano, Elias Sarkis, capì che il futuro del Paese era ormai nelle mani del giovane capo cristiano. Per cento giorni, Béchir e i suoi miliziani furono circondati dall’esercito professionale siriano ad Achrafieh, un inferno di fuoco (2.000 proiettili al giorno) piovve sulla popolazione civile, intere famiglie morirono e gli ospedali operarono senza luce. Ma, con grande stupore della stampa mondiale, i cristiani resistettero: i siriani furono sconfitti e si ritirarono con pesanti perdite.
Béchir, esausto, esulta. L’ONU chiese il cessate il fuoco e la vittoria politica internazionale fu notevole.

Unificare le forze cristiane

Nel 1979, i cristiani continuarono a essere bombardati per “punizione” e diversi dei loro capi furono assassinati con autobombe. Maya, la figlia di 20 mesi di Béchir, morì tragicamente, insieme a sette guardie del corpo.



Maya, figlia di Béchir Gemayel


Con la moglie Solange, Béchir pianse sulla piccola bara bianca: “La mia piccola Maya è una dei nostri martiri, e non sarà caduta invano. Dobbiamo continuare!”.
Un altro dolore di Béchir, quell’anno, fu quello di dover mettere al passo militarmente altre milizie cristiane non Kataëb, attraverso azioni di commando. Alcuni di questi combattenti cedettero alla tentazione di comportarsi come delinquenti in una guerra civile. Di fronte a questo grave problema di coscienza, Béchir dovette lanciare un assalto contro di loro il 7 luglio e, in segno di buona volontà, integrò senza distinzioni i membri sani di tutte le milizie esistenti sotto un unico comando pluralista, le Forze libanesi: la milizia cristiana era ora unificata, con 20.000 uomini mobilitabili in permanenza, i suoi squadroni di veicoli blindati, i suoi cannoni da 155 mm, i suoi porti privati e la sua pista d’atterraggio. Ordine, disciplina, onestà ed esemplarità erano le parole d’ordine di Béchir e vennero applicate alla lettera. I musulmani potevano tranquillizzarsi: con questo atto di forza, Béchir chiede integrità ai suoi amici cristiani!




Soldati cristiani in preghiera


Divenuto l’indiscusso rappresentante numero uno in campo cristiano, Béchir dovette preparare con cura i suoi discorsi, semplici e diretti, perché era il mondo intero ad ascoltarlo. Si circondò di uomini esperti ed eruditi per essere consigliato: Sélim Jahel, Charles Malek e padre Sélim Abou. Senza concessioni, egli diceva con garbo e fermezza la verità ai diplomatici e ai politici, arrivando a rimproverare il Vaticano di sostenere i palestinesi a scapito dei cristiani d’Oriente.
L’inviato di Béchir a Roma  si sentì rispondere dal rappresentante della Santa Sede: “Andate a vedere i Russi”, anche se Mosca aveva condannato a morte il capo cristiano. All’ambasciatore americano disse che i piani degli Stati Uniti per i libanesi, fatti senza di loro, non avrebbero funzionato perché “i Libanesi possono decidere da soli”.
Non aveva senso pianificare il disarmo: “Sappiamo quando abbiamo bisogno dell’esercito e quando no”.
Sicuro della sua forza militare, Béchir si fece beffe delle utopie americane sul suo Paese: “Non abbiamo bisogno dei soldati americani per difenderci: sta a noi morire per il nostro Paese, come hanno già fatto 4.000 martiri”. Incoraggiò i suoi uomini, dichiarandosi orgoglioso di essere tra loro, ammirando il loro spirito di sacrificio e la lezione che stavano dando al mondo.
Il 22 ottobre 1980, in occasione della Giornata dell’Indipendenza, parlò a 40.000 persone riunite nello stadio di Jounieh: “Siamo i santi di questo Oriente e i suoi demoni, la sua croce e la sua punta di lancia, la sua luce e il suo fuoco. Siamo capaci di bruciarlo se le nostre dita sono bruciate, di illuminarlo se le nostre libertà sono rispettate”.




Béchir Gemayel con i genitori e la moglie





Béchir Gemayel con i figli




La svolta di Zahlé

Nel dicembre 1980, le truppe siriane decisero di impadronirsi di una città cristiana della pianura della Bekaa, Zahlé, con una popolazione di 200.000 abitanti. Le milizie delle Forze libanesi (LF) impedirono loro l’accesso e sulle case piovvero violenti bombardamenti di artiglieria. Cominciò l’assedio della città, con la neve che ostacolava qualsiasi manovra importante, e i commando cristiani Maghawir di Joe Eddé fecero miracoli conquistando una decina di postazioni nemiche. Umiliati da questa inaspettata resistenza, i siriani inviarono ingenti rinforzi, senza successo.
Nell’aprile 1981, l’opinione pubblica internazionale fu sconvolta da questa impresa e Béchir divenne molto popolare. Al microfono della RMC, disse: “Sulle montagne si sono verificati incredibili atti di eroismo. I nostri giovani sono stati costretti a camminare per 48 ore nella neve, portando sulle spalle le munizioni per i loro compagni di Zahlé. Alcuni combattenti sono morti assiderati durante il servizio di guardia sulle alture. La popolazione cristiana ha resistito per mesi in condizioni estreme, sotto la pioggia di granate”.

Gli Stati Uniti, dal 1 gennaio 1981 governati da Donald Reagan, cambiarono atteggiamento nei confronti dei cristiani del Libano, che avevano suscitato il loro rispetto: non si trattò più di sacrificarli all’Islam, ma di proteggerli.
In Francia, venne eletto François Mitterrand e – per quanto paradossale - la protezione dei cristiani del Libano era ai suoi occhi una tradizione millenaria da rispettare.
Venne aperta a Parigi una rappresentanza diplomatica del FL e Michel Rocard si recò in Libano per onorare Béchir.
Con tali sostegni, i Siriani si videro costretti a togliere l’assedio alla città.
Con grande sorpresa, quando il 30 aprile le truppe della FL, stremate da cinque mesi di combattimenti, uscirono vittoriose dai loro trinceramenti, rimavano solo 95 combattenti!
La battaglia di Zahlé, che ebbe una grande risonanza mediatica, fu un trionfo per Béchir, e la popolazione cristiana gli tributò una standing ovation. Divenne popolare anche tra i musulmani libanesi, ai quali tese la mano di riconciliazione. Béchir fu accolto negli Stati Uniti nell’agosto 1981 con la moglie Solange. I siriani, sostenuti dall’URSS, si infuriarono e il 4 settembre 1981 si vendicarono facendo assassinare l’ambasciatore francese a Beirut, Louis Delamare.


La «ridotta cristiana»

Un altro punto che colpì la stampa internazionale fu il pesante contrasto tra le zone amministrate dalle milizie cristiane e quelle in mano ai musulmani. Un giornale scrisse: «La zona cristiana è come la Costa Azzurra, con un incredibile boom immobiliare! In queste zone, fin dal 1976 le milizie hanno preso il posto dello Stato e sono più efficaci di esso. Sostenuti da comitati popolari, i Kataëb si occupano di tutto: trasporti pubblici, manutenzione delle condutture idriche, della rete elettrica e di un servizio postale veloce. Béchir partecipò a riunioni sul posto su un’ampia gamma di argomenti, 126 comitati si occuparono dell’istruzione e organizzarono un sostegno gratuito per gli alunni in difficoltà; gli ospedali vennero riforniti in modo impeccabile di medicinali e i rifugi furono allestiti e mantenuti.
Una Casa dei Combattenti si occupava dei mutilati e invalidi di guerra a spese della LF, che provvedeva alle necessità delle loro famiglie. I combattenti trascorrevano quattro giorni alla settimana al lavoro o all’università e tre giorni al fronte.
Nel 1981, la zona cristiana di Beirut Est, con una popolazione di un milione di abitanti e una superficie di 2.000 km quadrati, sembrava un piccolo paradiso libanese, ed era difficile immaginare che la guerra fosse ancora in corso ogni giorno a pochi passi da loro. La LF applicava tasse più basse rispetto allo Stato e nascevano continuamente nuove imprese, a volte su iniziativa di espatriati che ritornavano «da Béchir» per approfittare del successo.
Nacque un vero e proprio Stato, ma Béchir ribadiva che si trattava solo di uno Stato modello per il nuovo Libano che sarebbe stato costruito sul suo territorio di 10.452 km quadrati: «Non è possibile che ci accontentiamo di 50 km di costa e 20 km di montagne. Libereremo tutto, o tutto quello che abbiamo fatto sarà stato inutile».



Béchir Gemayel arringa le truppe



L’ultima ascensione

Il 6 giugno 1982, gli Israeliani invasero il Sud del Libano con l’operazione «Pace in Galilea», con l’obiettivo di cacciare i loro nemici dell’OLP (Palestinesi) dal Libano e di sradicare un focolaio di terrorismo ai confini dello Stato sionista.
Il 26 luglio, Béchir annunciò alla radio la sua candidatura ufficiale all’elezione presidenziale libanese. Per lui, tutti gli occupanti stranieri (Siriani, Palestinesi, Israeliani, ecc.) dovevano andarsene dal Libano, era tempo di riprendere il paese in mano. Egli fece del ritorno di tutti i cristiani nelle loro case un principio intangibile e si mostrò intransigente con le arroganti esigenze di Israele, nonostante fosse il suo principale fornitore di armi.
Il capo palestinese, Arafat, comprese che la massa musulmana libanese si allontanava da lui e si rivolgeva sempre di più a Béchir; sollecitò allora l’arrivo di una flotta internazionale (américano-anglo-italo-française) che arrivò il 18 agosto e, in due settimane imbarcò lui e 70 000 Palestinesi per altre destinazioni.
Il 23 agosto, si riunì la Camera libanese e su 63 deputati Béchir ottenne 59 voti, con quattro astensioni: anche i musulmani votarono per lui.
Fu un trionfo e l’impotente Presidente a cui Béchir doveva succedere, Elias Sarkis, pianse di gioia: “È il giorno più felice della mia vita, Béchir eletto! È la ricompensa per sei anni di sofferenza». Egli chiamò subito Béchir e gli chiese di chiudersi nel palazzo presidenziale, visto che era diventato l’obiettivo numero uno del terrorismo internazionale. Béchir non l’ascoltò, volle donarsi al suo popolo, alla folla immensa che urlava di gioia. Tutti erano convinti che la rinascita del Libano si sarebbe avverata, i dipendenti pubblici si impegnarono nel loro lavoro e la corruzione andò scomparendo su vasta scala.



Soldati cristiani


Per un’ultima volta prima di assumere la sua nuova funzione, Béchir volle riunire il suo gruppo delle prime ore. Il 14 settembre, egli partì da casa per passare una parte del giorno nel Convento della Croce, dove ritrovò la sorella Arzé, religiosa, e la sua sposa, Solange.
Verso le 16,00 era nell’ufficio del Kataëb ad Ashrafieh e aveva appena aperto la riunione, quando un’enorme esplosione fece saltare in aria l’edificio: Palestinesi e Siriani si erano vendicati.
Il corpo del capo cristiano fu ritrovato tra le macerie grazie alla fede nuziale che portava al dito. All’età di 34 anni, Béchir si era presentato a Dio come Presidente del Libano, lasciando una vedova di 32 anni e due figli, oltre a un popolo libanese inconsolabile: «Mai nella storia del Libano un uomo ha suscitato tante speranze e fatto versare tante lacrime», scrisse un giornalista.



Musulmani che sostengono Gemayel


Il monaco-soldato

E’ un caso se quest’uomo è morto il giorno della festa della Santa Croce (14 settembre)?
Noi pensiamo di no: alcune ore prima dell’attentato egli aveva detto in un discorso: «Quando si cerca di eliminarci [...] o di cancellarci dalla carta geografica, Cristo stesso ci chiede di morire testimoniando per Lui, ed è quello che sta accadendo in Libano. Spero che tutti all’estero lo capiscano. Oggi stiamo testimoniando per tutti i cristiani del mondo, proprio come i primi cristiani, al tempo di Roma, morti per testimoniare la fede e la religione cristiana».
Béchir riteneva che la menzogna e la codardia praticate per decenni fossero la vera causa della guerra civile: «Solo la verità ci permetterà di preservarci e di tenere la testa alta». La negazione della realtà, «ha provocato in Libano 100.000 morti». La lotta per la verità è quindi essenziale: «Non riusciremo mai a uscire da questa crisi se non avverrà una vera e propria rivoluzione interiore in ognuno di noi, come prerequisito per una riforma generale».




Béchir Gemayel, Presidente


Praticando il 4° Comandamento di Dio, Béchir ricordava ai suoi compatrioti il dovere di proteggere e di fare fruttificare il patrimonio ricevuto al fine di trasmetterlo ai loro discendenti. Per far questo occorreva riprendere il controllo del proprio paese e gli interessi del Libano dovevano avere la precedenza sull’immigrazione incontrollata e ostile.
Nel febbraio 1982, disse ai giovani del FL: «Dovete essere preparati fino all’estremo, in modo da essere soldati su cui possiamo contare. Sarete la forza che impedirà al deserto di inghiottirci».
Il giorno stesso della sua morte, difese l’onore della sua Patria contro gli arroganti globalisti occidentali, precursori dell’odierno wokismo: «Abbiamo 6.000 anni di storia di cui siamo fieri e sappiamo cosa dobbiamo fare per preservare questo patrimonio. [...] Non abbiamo bisogno di lezioni di civiltà o di cultura da parte di chiunque. Siamo fieri di ciò che abbiamo! Siamo fieri del nostro patrimonio!»
L’insegnamento scolastico deve essere «un’educazione che viene dalla nostra civiltà e dei programmi che riflettono il cuore della nostra vita. Vogliamo che i libri di storia insegnino la nostra visione della storia».
Egli sa che «ogni sradicamento crea un vuoto psicologico, un intenso smarrimento nel cittadino e allo stesso tempo apre una breccia abbastanza ampia da poter essere sfruttata dall’occupazione straniera».

Di fronte alla dhimmitudine che i musulmani tentano di imporre con la forza ai cristiani del Libano, Béchir è irremovibile: «Noi vogliamo vivere qui e conservare la testa alta! Noi vogliamo rimanere in questo Oriente, affinché le campane delle nostre chiese continuino a suonare quando lo vogliamo, nelle gioie e nei dolori! Noi vogliamo poter battezzare come lo vogliamo; vogliamo praticare come vogliamo le nostre tradizioni e i nostri riti, la nostra fede e le nostre convinzioni»
Di fronte ai sacrilegi dei maomettani, Béchir non ha esitazioni: «Ricostruiremo la chiesa di Damur, benché l’abbiano sporcata, profanata e saccheggiata!».
Egli non si fa illusioni sull’ecumenismo suicida praticato dal concilio Vaticano II: «Il mio problema non è vedere uno sceicco e un prete che si abbracciano, o una moschea e una chiesa che chiamano entrambe alla preghiera con un muezzin. Questi sono simboli esterni che non hanno alcuna importanza per me»; e avverte Papa Giovanni Paolo II che «I cristiani del Libano non sono materiale sperimentale per il dialogo musulmano-cristiano nel mondo».
Sa che le masse musulmane non smettono di desiderare la Ummah, la sottomissione della terra alla comunità islamica, ma, fatalisticamente, sono abituate a baciare la mano che non possono tagliare, quella del più forte. L’atteggiamento attendista dei musulmani non gli sfugge: «È impossibile sapere con certezza cosa pensano. Per di più, mi chiedo se lo sappiano anche da sé, essi sono in piena confusione ideologica».
Con la vittoria di Béchir nella guerra, i musulmani capirono che era meglio per loro scegliere l’interesse nazionale del paese, e così il deputato sciita Moshen Slim constatò che dalle elezioni «I musulmani del Libano sono a favore del nuovo regime  di Béchir Gemayel più dei cristiani, i fatti lo dimostrano».
Come un fratello, Béchir mise in guardia il nostro Occidente accasciato: «C’è una certa decadenza in Occidente, una nuova definizione delle cose [...] Forse un giorno l’Occidente sentirà il bisogno di tornare qui, alle fonti. L’Occidente deve rinnovarsi. C'è un declino dei grandi valori umani che hanno reso l’Occidente così influente. Questo declino della morale, dei valori e della moralità porta necessariamente a un declino politico, mentre dall’altra parte c'è un blocco monolitico, una società soggetta a un sistema totalitario».




L'attentato contro Béchir Gemayel


La moglie Solange ricorda: «Béchir non andava mai a dormire senza pregare, e senza pregare in ginocchio! Sapevo che pregava perché pregava in ginocchio. Poteva farlo discretamente a letto, non l’avrei saputo, ma questa era la sua fede». Gli piaceva andare all’Università dello Spirito Santo a Kaslik per orientare le sue scelte politiche e militari. Pregava, si confessava, partecipava alla Messa con i suoi uomini, si formava intellettualmente e riceveva consigli, in particolare da padre Boulos Naaman, Superiore generale dell’Ordine dei Monaci Maroniti.
Padre Mouannès afferma che per questo «La Resistenza aveva un fondamento culturale, teologico e spirituale, oltre che una purezza nell’azione politica», e testimonia: «Ognuno di noi deve portare la propria croce. Per Béchir c’è stata una chiamata alla croce per potersi identificare con il Signore. Quella chiamata si è conclusa in una marea di sangue ad Ashrafieh, in un nuovo battesimo che è stato un battesimo di sangue».




Ai funerali di Béchir Gemayel i Libanesi piangono sulla sua bara


Possa Dio darci ancora quarant’anni dopo uomini così!





 
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