L’UOMO è morto?

Il nichilismo pensa di averlo ucciso



di Don Curzio Nitoglia



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Introduzione 

Il “male” di cui soffre il mondo moderno è soprattutto “un male dell’intelligenza: l’agnosticismo” (S. Pio X, Pascendi, 1907), secondo il quale il trascendente può anche esistere, ma è assolutamente inconoscibile. 

Per l’idealismo, persino la realtà è inconoscibile. Dunque, se vogliamo guarire da tale male, che mette l’uomo in “pericolo di morte”, dobbiamo ritornare al realismo della conoscenza. 

Il mondo contemporaneo è stato costruito sulle sabbie mobili del soggettivismo filosofico (cartesiano) e teologico (modernista). Il mondo odierno non è più un mondo reale, ma è una costruzione mentale, alla quale ha fatto séguito la distruzione nichilistica post-moderna. 

L’uomo moderno è stato disabituato a pensare con il proprio cervello e a confrontare il suo pensiero con la realtà, ha preferito l’illusione o il sogno dubitativo cartesiano ed ha rinunciato alla capacità dell’intelligenza di penetrare la realtà dell’essere contingente per elevarsi poi all’Essere per essenza.

La conseguenza pratica è stata la perdita della vera libertà dell’uomo di fare il bene ed evitare il male poiché la volontà libera segue ed è illuminata dall’intelligenza retta: “Nihil volitum nisi praecognitum” (Aristotele).   


L’«irrealismo»: pericolo mortale dell’intelligenza umana

Per debellare il “male” di cui soffre il mondo moderno, occorre affrontare il problema del realismo della conoscenza alla luce della dottrina aristotelica: “Veritas est adaequatio rei et intellectus”.

L’intelletto umano è capace di conoscere la realtà; è un fatto evidente a tutti gli uomini forniti di retta ragione e onestà intellettuale e morale.

Spesso l’errore intellettuale ha un’origine pratica o morale, ossia si vuol sbagliare e non si vuole ammettere la realtà per non dover cambiar vita.  

Il pensiero moderno è impregnato di soggettivismo, relativismo, agnosticismo. In breve, è caratterizzato da una “contro-filosofia”, che nega o relativizza al massimo la possibilità della ragione umana di conoscere la realtà, giungere alla verità e vivere da vero uomo, ossia da “animale razionale” (Aristotele), il quale deve “fare il bene e fuggire il male: questo è tutto l’uomo” (Sal., XXXIV, 15).

Non si può dubitare di tutto. Infatti, nel momento in cui dico di dubitare, implicitamente affermo che son certo almeno di una cosa: della mia asserzione di dubitare di tutto.

La filosofia realista eleva il buon senso, comune a tutti gli uomini capaci d’intendere e volere, a scienza filosofica, la quale si basa sulla convinzione che esiste una realtà oggettiva indipendente dal pensiero dell’uomo, il quale ha un’intelligenza che non lo inganna, ma coglie il suo oggetto senza deformarlo, anche se non lo conosce totalmente e perfettamente.

Perciò la verità esiste e consiste nell’adeguamento dell’intelletto alla realtà. L’idealismo, la sofistica, l’agnosticismo, lo scetticismo (che negano la capacità umana di conoscere la realtà) si servono, pur sempre, della ragione per  criticare la ragione umana come se l’unica ragione ragionevole fosse la loro, ma così facendo pongono l’intelligenza umana in pericolo di morte ed abbassano l’essere umano al livello dell’animale. 

Come si vede, vi sono - sostanzialmente - due correnti filosofiche. La prima sostiene - secondo il buon senso e la retta ragione - che esiste una realtà oggettiva e che la si può conoscere in quanto esiste in sé ed è posta davanti al soggetto conoscente (il realismo e l’intelligenza in piena salute). 

La seconda è sostanzialmente una (l’irrealismo) e accidentalmente composita: o crede che sia il pensiero umano a porre in essere la realtà (l’idealismo) o che l’uomo non abbia la capacità di conoscere la realtà (l’agnosticismo) o che debba dubitare di tutto (lo scetticismo). L’esito finale di questo errore, in tutte le sue sfumature, è la morte dell’intelligenza, la quale invece per definizione legge dentro (intus legit) le apparenze fenomeniche e conosce con certezza la realtà. 

Tutta la vita normalmente vissuta di ogni uomo presuppone la concezione realistica della conoscenza. Infatti, ogni uomo dotato di sanità mentale ritiene che esistano più soggetti conoscenti e non uno solo (‘monismo’), più oggetti e non uno solo (‘panteismo’). Inoltre, l’uomo normale sa che le cose reali esistono fuori del suo pensiero e indipendentemente da esso e che le conosce come sono in se stesse e non come sembra a lui applicando loro una propria forma soggettiva (come vorrebbe Kant).

Ciò vale per gli stessi filosofi idealisti almeno nella vita pratica. Essi in teoria propugnano l’idealismo o il soggettivismo della conoscenza, ma in pratica agiscono, e quindi pensano, da realisti. 

Lo scettico Pirrone “per coerenza si sforzava di non badare ai precipizi, ma, assalito da un cane, s’impaurì, ben distinguendo un cane da un agnello” (Diogene Laerzio, Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, IX, 2). Onde “lo scettico coerente dovrebbe chiudersi nel mutismo assoluto, perché parlare vuol dire avere ed esprimere certezze. Quindi, Cratilo finì col tacere e muoveva solamente il dito” (Aristotele, Metafisica, IV, 5, 1010 a).

Aristotele scriveva: “Eraclito nega il principio di non-contraddizione. Allora, perché va a Megara e non se ne sta tranquillo a casa, pensando di camminare? E perché non si getta nel pozzo, ma si guarda bene dal farlo proprio come se pensasse che cadere non è lo stesso che non cadere?” (Metafisica, IV, 4, 1008 b).

Gli astronomi sono convinti di studiare delle realtà che son fuori di qualsiasi coscienza o soggetto pensante e così i fisici, i chimici, i geografi.

Tutti gli storici considerano Giulio Cesare e il pugnale di Bruto come realtà oggettive e non come prodotti del loro pensiero.

In breve ogni uomo, fuori della discussione filosofica, è immancabilmente realista e per l’idealista nell’atto di filosofare vale sempre ciò che scriveva Aristotele riguardo ai sofisti del suo tempo: “Non si crede a tutto ciò che si dice” (Metafisica, IV, 3, 1005 b).

Nel filosofo idealista o sofista si realizza immancabilmente una frattura tra la teoria e la pratica. Come uomo, nella vita comune e pratica, pensa e agisce da realista; mentre, come filosofo, quando sale in cattedra, pensa da idealista e nega la realtà oggettiva del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto. 

Ora, se per fare il filosofo bisogna cessare di esser uomo, è meglio smettere di fare il filosofo altrimenti si dà la morte all’intelligenza.

Per esempio, Kant filosofeggiando dice che l’uomo non conosce la cosa in sé, ma la conosce come gli appare avendo applicato a essa una sua categoria o forma soggettiva, ma così uccide l’intelletto e la conoscenza umana. Tuttavia, per arrivare a dire ciò, prima egli ha indagato su quella cosa in sé che è la conoscenza umana e che è il soggetto conoscente; ossia, Kant in quanto tale e come soggetto conoscente e non su Kant come ci appare. Se si negasse ciò, si arriverebbe a dire che ogni teoria filosofica non ha nessun valore (la morte della filosofia e dell’intelligenza), che è del tutto soggettiva e relativa. 

L’uomo comune o di buon senso e il filosofo realista sanno che esistono e che vi sono oggetti reali al di fuori di loro. Per esempio, mentre sto scrivendo, so perfettamente che le mie mani sono appoggiate alla tastiera del computer, i piedi sono appoggiati sul pavimento, i libri sono davanti a me. Quindi sono convinto pre-filosoficamente che esistono oggetti reali distinti da me, al di fuori del mio pensiero e distinti tra loro. 

S. Tommaso d’Aquino scrive che “sono stolti e insinceri i dubbi sui fatti della più ovvia esistenza” (Commento alla Metafisica di Aristotele, lezione XV, n. 709).

La scrivania resta ferma al suo posto, anche se io mi alzo ed esco; perciò io e il tavolo siamo due realtà oggettivamente e realmente distinte e il tavolo non dipende dal mio pensiero. 

È un fatto indubitato che esistono più realtà tra loro distinte. Quindi, il monismo, che identifica in un solo ente ogni cosa, è falso. Parimenti il mio io è distinto da tutta la realtà, che non dipende dal mio ‘ego’.

Gli oggetti reali e i soggetti conoscenti distinti da me non consistono nell’essere pensati da me (come vorrebbe l’idealismo). Le cose esistono indipendentemente dal mio pensiero, il mio pensiero non le pone in essere, ma le suppone e poi le conosce (cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IX, 9, 1170 a 30-35; L’Anima, III, 4, 429 b 7-9; Metafisica, XII, 9, 1074 b 34; S. TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, 10, 8, Commento su L’Anima di Aristotele, III, 4, lezione 9; S. Th., I-II, q. 94, a. 2).

Perciò, spiega Aristotele, conoscere significa apprendere una realtà posta davanti a me, che è indipendente dalla mia conoscenza.

Conoscere significa apprendere qualcosa come un oggetto, il quale sta davanti a me indipendentemente dal mio pensiero (ob-jacet). Non sono io che produco col mio pensiero quest’oggetto che giace (jacet) davanti (ob) a me. 

Dunque, conoscere significa apprendere una realtà posta davanti a me come soggetto conoscente, realtà che la mia conoscenza presuppone e non pone in essere, quindi realtà indipendente dalla conoscenza.

Conoscere presuppone un oggetto, un qualcosa di reale. Infatti, conoscere “nulla” significa non-conoscere. Quindi, c’è un oggetto reale che io come soggetto pensante posso conoscere. Lo si chiama oggetto (ob-jacere) poiché sta (jacet) davanti a me (ob). Quest’oggetto è una res, qualcosa. 

Ogni uomo normale, fornito di retta ragione e di senso comune, si rende conto che non è il suo pensiero che produce questa realtà, ma si tratta di una realtà, già costituita ontologicamente in se stessa prima ancora che io la conosca.

In breve, conosco l’essere perché esso esiste e non viceversa. Aristotele insegna: “Non perché io ti reputo bianco, tu sei bianco davvero, ma al contrario, siccome tu sei bianco, io penso il vero se ammetto che tu sei bianco” (Metafisica, IX, 10, 1051 b). 

Così i primi princìpi evidenti e per sé noti sono innanzi tutto leggi dell’essere e quindi leggi del pensare. Un ente non può nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto essere qualcosa (cerchio) e non esserlo (quadrato) perché io penso che sia così, ma è così in realtà e dunque devo adeguare il mio pensiero alla realtà (cfr. ARISTOTELE, Metafisica, IV, 4, 1006 a; IV, 6, 1011 a; XI, 6, 10063 b).

Nella conoscenza ogni tanto mi trovo davanti all’evidenza dei fatti (“il treno corre”, “il cielo è azzurro”) o dei princìpi (“il tutto è maggiore della parte”, “ogni effetto ha una causa”); ossia, ha qualcosa che s’impone irresistibilmente al mio pensiero e, per quanti sforzi io faccia, non posso sfuggire all’evidenza dei fatti e dei princìpi: per farlo dovrei negare l’evidenza e quindi contraddirmi. Per esempio, mentre scrivo, devo riconoscere inevitabilmente che sto scrivendo e non sto correndo, così devo ammettere che 2 + 2 fa 4, che il sì è sì, il no è no e il sì non è il no.

L’imposizione dell’evidenza viene dal difuori e non da me, è una realtà oggettiva che mi s’impone necessariamente dal difuori e che io, volente o nolente, devo accettare sotto pena di contraddizione o d’assurdità (per esempio, “il cerchio è quadrato”, “la parte è maggiore del tutto”, “il sì è il no” …).

Tutto ciò porta alla conclusione che l’essere precede il conoscere e che la conoscenza umana presuppone una realtà oggettiva e l’apprende. Inoltre, per il principio di non contraddizione “ciò che non è, non può conoscere (agere sequitur esse) né essere conosciuto (ex nihilo nihil fit)”. Dunque, non c’è l’essere perché c’è la conoscenza, ma - invece - si può conoscere perché c’è l’essere. Negare la priorità dell’essere sul conoscere, significa porre come punto di partenza il nulla: “Nulla è ancora e tuttavia lo si conosce e conoscendolo gli si dà l’essere”.

La filosofia moderna e il conseguente pericolo mortale per l’intelligenza, come esaltazione del Soggetto pensante e dell’Idea, inizia con Cartesio e termina con Hegel, che ha risolto il mondo nell’Io o Idea assoluta e ha unificato l’umano e il divino e viceversa. La modernità sfocia, quindi immancabilmente, in una sorta di monismo panteista. Non vi è nulla di reale al difuori del Pensiero e non esiste alcunché di trascendente, ma tutto è immanente al Pensiero assoluto, in cui si trova tutto il reale in divenire (Dio e il mondo). Gli individui sono unificati nel Pensiero assoluto. Il Pensiero crea se stesso, il finito è identificato con l’Infinito, che è il Pensiero assoluto. Non v’è distinzione di coscienze e libertà individuali, che sono racchiuse nel Pensiero assoluto. Quindi, non v’è distinzione tra errore e verità, tra bene e male, tra sì e no, poiché lo Spirito nell’atto di pensare è sempre verità, bontà e l’errore o il male sono il passato e il passaggio del Pensiero dalla tesi alla sintesi. Mentre Gesù ci ha insegnato: “Il vostro parlare sia ‘sì sì, no no’, quel che è di più viene dal Maligno”.

La modernità fa dipendere - come spiega padre Cornelio Fabro - la realtà dal pensiero (1). Infatti, l’Idealismo afferma che l’Idea costituisce la realtà dell’essere. L’essenza dell’Idealismo consiste nel concepire la realtà o la natura come una derivazione del Pensiero e dello Spirito o Idea (2). L’Idealismo assoluto di Hegel ha come risultato «l’immanenza totale dell’Infinito nel finito, di Dio nel mondo […] e la supremazia della ragione sulla Religione» (3). L’Idealismo assoluto nega tutta la realtà del finito, che viene elevato ad Assoluto, la libertà dei singoli, la Trascendenza di Dio, la gratuità della grazia santificante. L’Idealismo ha fatto svanire la Fede nello gnosticismo più estremo (4). 


Il nichilismo come termine dell’idealismo

Il fine cui giunge immancabilmente l’agnosticismo è il nichilismo o la filosofia post-moderna e contemporanea (Nietzsche/Freud/Scuola di Francoforte e Strutturalismo francese), la quale annichila o dà la morte all’idealismo stesso e all’intelletto (nichilismo logico), alla legge morale (nichilismo etico) e all’essere stesso (nichilismo metafisico).

La post-modernità o il nichilismo filosofico si sforza addirittura di distruggere ogni ente creato dal pensiero dell’idealista (5), dall’ente creato (“enti-cidio”) per giungere sino a quello Increato (“dei-cidio”). 

Da certi princìpi ne seguono immancabilmente determinate conclusioni. Per esempio, se l’uomo è assoluto, deve vivere per adorare se stesso (immanentismo); invece se l’uomo è contingente deve dipendere da un Essere necessario, che è Dio (trascendenza).  

Il soggettivismo distrugge ogni stabilità, ordine, tranquillità individuale e sociale. Nella prospettiva del modernismo dogmatico e sociale non vi è più verità permanente, la quale è “la conformità del pensiero alla realtà” (Aristotele). Ora, il modernismo, come il soggettivismo (cartesiano, kantiano e hegeliano), ha rotto con la realtà extramentale. Quindi, la verità reale e oggettiva non esiste più, ma coincide con la mia idea della realtà.  

Assistiamo oggi alla fine comatosa (o post-moderno/nichilistica) della modernità, che prima ha fatto di Dio un uomo e dell’Uomo un “dio”; poi ha “ucciso” Dio, per soppiantarlo col Superuomo o l’Umanità; infine, è scivolata nella debolezza nichilistica e autistica, auto-dissolutrice e gerontica. Tale è la parabola dal Cogito al Nihil (cogito ergo nihil sum; ossia, se il pensiero prende il posto dell’Essere nella scala dei valori, anche esso non è,  gli manca un fondamento, un substrato sul quale poggiare e quindi precipita nel nulla). Agere sequitur esse et non praecedit illud.


Le condizioni per la guarigione dell’intelligenza

Conditio sine qua non per ritrovare la retta strada, smarrita a partire dalla Modernità, è combattere contro gli errori della secolarizzazione immanentistica e riaffermare con forza i princìpi della filosofia perenne e della teologia scolastica. 

La prima condizione perché l’eclissi dei valori tradizionali e del valore conoscitivo dell’intelligenza abbiano termine è che l’intelligenza riprenda la sua funzione che non è di adeguarsi al mondo, ma di contestarlo (6).  

Ora, un male così estremo come il Nichilismo distruttore dell’essere (simile al cancro, che distrugge il corpo e la vita) deve essere affrontato energicamente: “A mali estremi, estremi rimedi”. Bisogna, quindi, sradicarlo tramite il recupero dei valori sommi dell’essere (metafisica), della ragione (logica) e della morale (etica).

Infatti, l’uomo è un “animale razionale” (fatto per conoscere il vero), e “libero” (fatto per amare il bene). Inoltre, è “socievole”, quindi deve vivere assieme ad altri e non isolato (Sartre: “L’altro è l’inferno”) come un “animale selvaggio” (Lévi-Strauss). Di fronte alla Sovversione filosofica razionalistica della Modernità e nichilistica della post-modernità occorre una Restaurazione filosofico/metafisica, che ci faccia tornare là dove affondano le nostre radici: la classicità greco/romana e la prima, seconda e terza scolastica.

Ma, occorre essere realisti. L’attuale stato di degrado dell’uomo, che è stato ucciso dal Nichilismo al posto di Dio, che il Superuomo avrebbe voluto rimpiazzare, non lo si può guarire con rimedi naturali, solo l’aiuto dell’Onnipotenza divina può rimediare a tanto sfacelo. 

Il Nichilismo vorrebbe, come i dannati dell’inferno, non esistere, auto-distruggersi, ma non può annichilare come non può creare; solo l’Onnipotenza divina può creare dal nulla e ridurre al nulla qualcosa. Quindi, il Nichilismo aggrava il problema posto e introdotto dalla Modernità. 

Perciò, ci si trova innanzi a un bivio: o “cercate il Regno dei Cieli e il resto vi sarà dato in sovrappiù” (Gesù), oppure “ti darò tutte queste cose, se cadendo a terra, mi adorerai” (satana).

Dunque, solo chi sa vivere e morire in accordo pratico col proprio pensiero ha trovato un inizio di felicità su questa terra. Questa è l’arte di pensare giusto e vivere bene.

Il vero trampolino di lancio è la buona volontà di finirla col Nichilismo e la Modernità per ricominciare a essere padroni di sé e servi di Dio. 

Come uscire da questo stato di cose? Ritornando 1°) alla realtà oggettiva, dalla quale la ragione umana ascende, con un sillogismo, sino all’esistenza di Dio; 2°) a una Società più umana, perché fondata sui princìpi della filosofia perenne o del buon senso, che α) ridà il primato alla scienza speculativa (conoscere per sapere) o metafisica; β) subordina a essa la filosofia pratica (conoscere per fare o per agire) e 3°) infine, rimette la tecnica (conoscenza sperimentale o empirica) al suo giusto posto, che è il più basso; mentre oggi occupa abusivamente quello più alto, rendendo l’uomo, una macchina di produzione, che corre affannato e disperato verso un termine che neanche lui sa bene quale sia, verso un arricchimento materiale sempre maggiore, che però lascia insoddisfatto il cuore umano, poiché è pur sempre un bene finito e creato (anzi “stampato” o “coniato”) mentre “il nostro animo è infelice sino a che non riposa nel Signore” (S. Agostino), che soltanto Lui, essendo il Summum Bonum, può lenire le ansie e i problemi dell’uomo, il quale è aperto all’infinito e non è limitato al problema economico, visto da “destra” (liberismo) o da “sinistra” (socialismo).

Seneca insegnava: “Senza la filosofia l’anima umana è ammalata. Se il corpo è forte, sarà come quello di un pazzo furioso. Quindi, se vuoi star bene, cura prima la tua anima e poi il tuo corpo” (De constantia sapientis).

Questo è lo scacco della Modernità (7) o “il suicidio della Rivoluzione”, che avrebbe dovuto produrre il “Paradiso in terra” ed invece ha portato una specie di “inferno” nel mondo intero.

Il Nichilismo, che è figlio della Modernità, le si è rivoltato contro e ha negato e distrutto le certezze assolute del Cogito cartesiano, del Bisogno o Sentimento kantiano della coscienza umana, dell’Io assoluto e dell’Idea onnipotente hegeliana. La post-modernità non significa la filosofia venuta dopo la Modernità, ma quella che l’ha negata, combattuta agendo contro di essa e annichilita.

Padre Mondin ha scritto: «Non più Dio, ma l’uomo è contemplato come creatore della realtà. Hegel è il punto culminante e insuperabile della cultura moderna che parte da Occam: epoca che si consuma nell’ateismo o nichilismo assoluto, come esito dell’antropocentrismo o umanesimo assoluto; o Dio s’identifica panteisticamente col mondo, oppure è negato [ateisticamente] o “ucciso” [nichilisticamente] come realtà oggettiva in sé e per sé esistente» (8). Giustamente si può dire che il Nichilismo rappresenta l’esito ultimo del panteismo e si può proporre la saggezza classica come terapia dei mali dell’uomo d’oggi.

Bisogna, dunque, passare coraggiosamente e praticamente al rimedio: la vittoria sul soggettivismo mediante il recupero d’ideali e di valori supremi. Ma, non è un’operazione facile, poiché implica una vera e propria rivoluzione spirituale: il ritorno alla metafisica classica perfezionata dalla scolastica tomistica e non si tratta di un ritorno acritico e unicamente cronologico a certe idee del passato, ma dell’assimilazione e della fruizione di alcuni messaggi della saggezza antica o perenne, validi ieri, oggi e domani.

La cultura contemporanea ha perduto il senso di quei grandi valori che, nell’età antica e medievale, costituivano i punti di riferimento essenziali, e in larga misura irrinunciabili, nel pensare e nel vivere.

Alla filosofia attuale o post-moderna manca la ragion d’essere, il fine e lo scopo di vivere, la risposta al “perché?”. Questo è il Nominalismo nichilistico filosofico, ove i valori supremi (essere, conoscere, morale) si s-valorizzano perché non restano più l’essere per partecipazione e per essenza, la realtà, la verità, il bene; resta solo l’individuo, i sensi e il “nulla”.

L’antropocentrismo individualistico del Nominalismo e della Modernità, dopo essersi auto-deificato in un delirio di onnipotenza, si è rivoltato contro se stesso in un impeto di follia auto-lesionista ed ha posto l’intelligenza, la morale e l’essere in pericolo di morte. Dopo aver negato la trascendenza, la vorrebbe uccidere assieme a Dio e a tutti i valori a Lui connessi.

Che la sana filosofia realista ci aiuti a recuperare il valore della nostra ragione, della libera volontà, della morale e dell’essere per partecipazione, per poter poi ascendere all’Essere stesso per essenza.



NOTE

1 - In breve l’idealista “è una mente distorta, che vede o vuol vedere costantemente le cose diverse da quel che sono” (M. DE CORTE, La grande eresia, Roma, Volpe, 1970, p. 124).
2 - C. FABRO, Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1951, vol. VI, col. 1562, voce “Idealismo”.
3 - Ibidem, col. 1566.
4 - Ibidem, col. 1567.
5 - Cfr. A. DEL NOCE, Il suicidio della Rivoluzione, Milano, Rusconi, 1978; ID., Il cattolico-comunista, Milano, Rusconi, 1981.
6 - Cfr. A. DEL NOCE, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Milano, Rusconi, 1971.
7 - Cfr. A. DEL NOCE, Il vicolo cieco della sinistra, Milano, Rusconi, 1971; ID., I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo, Milano, Rusconi, 1972; ID., Il suicidio della rivoluzione, Milano, Rusconi, 1978; ID., Il cattolico comunista, Milano, Rusconi, 1981.
8 - B. MONDIN, Storia della metafisica, Bologna, ESD, 1998, 3° vol., p. 373.








 
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