La libertà religiosa è cristiana o ragionevole?


Articolo di Don Nicolas Portail, FSSPX




Pubblicato sul sito francese della Fraternità San Pio X
 
La Porte Latine








Alla vigilia della sua chiusura, il 7 dicembre 1965, il Vaticano II riconosceva il diritto alla libertà religiosa con la Dichiarazione Dignitatis Humanae.
La discussione era stata difficile, poiché la libertà religiosa sfidava la concezione cattolica dei rapporti fra Chiesa e Stato, e quella della tolleranza degli errori religiosi.
Il dogma di Cristo Re, riaffermato nell’enciclica Quas Primas di Pio XI del 1925 e la condanna della libertà religiosa decretata da Pio IX nell’enciclica Quanta Cura del 1854, furono rivisti e corretti: ormai la Chiesa non richiedeva agli Stati cattolici né la protezione pubblica per sé, né l’interdizione degli altri culti.

Di conseguenza, dopo il Concilio, la Santa Sede fece modificare i concordati, come per esempio, nel 1967, quello che legava la Spagna di Franco alla Chiesa e che era stato adottato sotto Pio XII nel 1953.
La nuova dizione: «La professione e la pratica, sia pubblica sia privata, di ogni religione saranno garantiti dallo Stato» sostituì quella precedente: «Nessuno potrà essere molestato per le sue credenze religiose né per l’esercizio privato del suo culto. Non saranno autorizzate altre cerimonie né altre manifestazioni esteriori diverse da quelle della religione cattolica».

Si trattò di un progresso? Nient’affatto! Lungi dall’essere una conquista della civiltà cristiana, la libertà religiosa è un «delirio» (secondo l’espressione di Gregorio XVI che con l’enciclica Mirari vos del 16 agosto 1832 condannava l’affermazione: «Libera Chiesa in libero Stato» di Lamennais).
Papa Gregorio XVI scriveva: «questo “delirio” è inseparabile dal laicismo, che si fonda sul razionalismo: alla ragione umana sovrana nell’ordine del pensiero corrisponde una volontà umana nell’ordine dell’agire, il che conduce al rigetto di ogni autorità e di ogni morale. In definitiva si arriva all’anarchismo del “né Dio, né capo”».

Insieme alle altre libertà contemporanee: di coscienza, di stampa o di espressione, la libertà religiosa rende i popoli ingovernabili. Essa si impone come una delle più gravi «libertà di perdizione» denunciate da Leone XIII nell’enciclica Libertas praestantissimum (20 giugno 1888).

A ben guardare, dunque, la libertà religiosa si oppone, non solo al dogma cattolico, ma anche ai principii dell’ordine politico naturale. E’ per questo che in questo articolo esamineremo la questione in due maniere: prima sulla base della ragione naturale, poi alla luce della fede soprannaturale.


Un «delirio» agli occhi della ragione

Secondo la dottrina moderna, la libertà religiosa è una libertà soggettiva. Essa costituisce la prerogativa di ogni persona, che non può essere costretta in materia di credenza e di pratica religiosa. Questa libertà dev’essere riconosciuta nelle legislazioni dei paesi: gli Stati non hanno il diritto di reprimere l’esercizio dei culti, salvo che questo esercizio causi immoralità o disordine nel dominio pubblico. Questo diritto è naturale e dunque permanente, assoluto, universale (per ogni persona, in tutte le società e in tutte le epoche). In una parola è un diritto dell’uomo, che dev’essere garantito dallo Stato.

La conseguenza di questa dottrina è che la libertà religiosa della persona umana, in materia religiosa, non può sottostare a nulla: la persona conserva la sua totale indipendenza di scelta e di azione religiosa nella società.

Questa concezione della libertà dimentica che l’uomo-individuo (o singolare) è anche sociale – «animale politico», dice Aristotele – e naturalmente fa parte di un tutto, di una società.
Innanzitutto, l’uomo nasce in una famiglia, che è la società familiare. Poi, in ogni tappa della sua vita, l’uomo è naturalmente portato ad aggregarsi a più società, che lo legano agli altri. Vi è inizialmente la città o società politica diretta da uno Stato; poi c’è l’unità formata da tutti gli uomini della terra, la comunità universale che potremmo chiamare società divina naturale. Infine, se è cattolico, egli è un membro della Chiesa, che è anch’essa una società, questa volta soprannaturale.
Ampliando la sua visione, Julio Meinvielle scrive infine che «nella persona singola dobbiamo distinguere cinque aspetti, specificati da cinque beni diversi: l’aspetto propriamente singolare, quello familiare, quello politico, quello divino naturale e quello divino soprannaturale (Critica della concezione di Maritain sulla persona umana).

Che significa l’espressione «specificati da cinque beni»? Semplicemente che ogni società si distingue dalle altre per l’insieme dei benefici specifici che essa apporta a ciascuno dei suoi membri. Quando un uomo è aggregato all’una o all’altra di queste società, egli accede a questo insieme, che si chiama anche «bene comune». Per esempio, il bene comune procurato dalla famiglia ad ogni singola persona non è lo stesso di quello procurato dalla Chiesa.






Ora, questi beni sono ottenuti tramite un’azione comune che obbliga a seguire la volontà della società: lo esige l’unità di azione tra i diversi membri. Dalla vita in società nascono le leggi che vincolano l’indipendenza degli uomini: una benedetta costrizione per il maggior bene di tutti! Ora, «ciascuno di questi aspetti o di questi beni è subordinato a quello che gli è immediatamente superiore; così, il bene singolare propriamente detto è subordinato al bene della persona singola in quanto membro della famiglia; l’uno e l’altro al bene della persona singola in quanto membro della società politica, (…) della comunità universale, (…) della comunità soprannaturale che è la Chiesa».
Più i beni sono superiori, più sono opera di una società perfetta e richiedono di piegare la propria libertà alle necessità del bene comune. Se talvolta lo Stato chiede il sacrificio della vita, Cristo lo esige in qualche modo continuamente, amando Dio al di sopra di tutto, anche di sé stessi. L’uomo in società sacrifica la sua libertà personale per aderire all’ordine sociale (ordine nei due sensi del termine: comando e orientamento verso il bene da ottenere). Dopo la monizione, la volontà individuale che rifiutasse di occupare il suo posto all’interno del tutto sarebbe allontanata dalla società: i disertori vengono fucilati.

Così si vede che, lungi dal non poter essere sottomessa, la libertà personale deve piegarsi per permettere agli esseri inferiori di ottenere i beni superiori che li trascendono (San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I, q. 65, a. 2).
La vittoria di Verdun non è stata ottenuta da una sola persona, ma da tutti, ciascuno a suo modo.


Religione a parte?

Tuttavia, sorge spontanea una obiezione: se la necessità di obbedienza della libertà personale vale nella famiglia o nella società, vale anche nella religione?
In effetti, l’uomo ha un destino che trascende la famiglia e la società: membro dell’universo (comunità universale), egli riceve dei beni divini naturali dal cielo e dalla terra; inoltre, l’ordine soprannaturale gli permette di godere di Dio faccia a faccia.
Questi beni gli sono propri e trascendono la società politica: quindi, come potrebbe questa costringerlo? Tanto più che la religione è di competenza della Chiesa e non dello Stato e questo per evitare la confusione dei poteri. Sembrerebbe dunque che lo Stato non possa discernere tra vera e falsa religione, e che non avrebbe il diritto di favorire l’una e costringere le altre.
Incompetente in materia spirituale, non dovrebbe lo Stato lasciare liberi gli uomini di scegliere e praticare il loro culto?






Rispondiamo a questa obiezione dicendo: è vero che il beneficio ultimo della religione è rendere felice lo spirito umano, ma questo può essere ottenuto solo nella vita eterna; qui in terra la religione riguarda l’uomo sia che lo si consideri nell’ordine privato (singolare o familiare) sia che lo si consideri nell’ordine pubblico (la società). Ora, se gli atti del cittadino riguardano il dominio pubblico, l’autorità politica può giudicarli, correggerli e dirigerli in funzione del bene comune.
Così, la religione ha un duplice scopo:

- Essa onora Dio come Capo e Provvidenza di tutte le cose – causa prima e ordinatore universale direbbe Aristotele. L’autorità divina, quindi, si estende sugli uomini e sulle società, vertici delle opere umane: Dio si interessa agli uomini viventi in gruppo, in cambio questi Gli manifestano sottomissione e gratitudine.

- La religione è anche un’opera di giustizia per ogni essere umano che rende culto a Dio con la lode e tutti i suoi atti. La morale fa parte della religione – le sanzioni e le ricompense eterne che essa promette interessano molto il rispetto delle leggi e dei buoni costumi. Questo autorizza lo Stato a legiferare perché il cittadino sia un buon fedele di Dio.

In poche parole, la religione è una parte del bene comune della società.

Così, la libertà religiosa è causa di ingiustizia nel dominio politico, perché sottrae allo Stato un legittimo dominio di azione, e danneggia gravemente il bene comune (1).



 



Una empietà agli occhi della fede

Dopo aver confutato la libertà religiosa in base alla semplice ragione naturale, vediamo adesso ciò che dice la fede cattolica e quindi la Chiesa.

La libertà religiosa è talvolta presentata come una invenzione cristiana: i Padri della Chiesa l’avrebbero chiesta fin dall’inizio agli Imperatori persecutori dei primi secoli della nostra era, poi agli Imperatori cristiani successivi. Gli stessi Padri avrebbero disapprovato l’interdizione dei culti pagani, eretici e giudaici, decisa dalle autorità civili.
L’unione fra Chiesa e Stati, soprattutto all’epoca medievale, come nell’Impero di Carlo Magno, sarebbe stata abusiva, deviando dal Vangelo e dalla Tradizione cristiana originaria
Che pensare di questa teoria?

In conformità con le profezie - «sul trono di Davide» (Is. 9, 6-7), «regnerà da vero Re» (Ger. 23, 5) – Gesù Cristo ha affermato il suo potere regale sulla società: «Io sono Re» (Gv. 18, 37), «mi è stato dato ogni potere in Cielo e in terra» (Mt. 28, 18). E gli Apostoli confermano: «Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi» (1 Cor. 15, 25), «Il Signore dei signori e il Re dei re» (Ap 17, 14).

Cosa hanno tratto i Padri della Chiesa da queste affermazioni?

Quelli dei primi secoli hanno certo insistito sulla libertà dell’atto di fede «spontaneo e che viene dal più profondo del cuore» (Origene, Contro Celso, V, 20, 7), ma hanno riconosciuto allo Stato il diritto di obbligare esteriormente la professione di una data credenza o di impedire un dato culto: lo Stato poteva orientare la scelta religiosa delle anime.





Prima della pace della Chiesa (313), i Padri hanno sostenuto la coazione in materia religiosa: San Cipriano e Origene cacciarono i dissidenti dalla «casa di Dio [che] è una», perché la salvezza non può essere per nessuno salvo che nella Chiesa» (Epistola, IV, 4, 2-3); Contro Celso, VII, 22). Per il loro culto, gli apologisti del secondo secolo chiedevano il riconoscimento ufficiale dello Stato (Tertulliano, Apologetica, XLIX, 3; Arnobio di Sicca, Advenus nationes, I, 65…), al pari dei culti pagani. 

In effetti, a quel tempo non esisteva la libertà religiosa: bisognava onorare gli dei della propria città (dii proprie) e gli dei comuni (dii communes) dell’Impero (Giove, Giunone, Minerva). Sebbene vi fossero molti dei, non tutti erano «liberamente accessibili», poiché lo Stato decideva della liceità dei culti pubblici e «privati» (Cicerone, De Legibus, II, 8, 19-22). Questa autorità dello Stato sui culti garantiva che le religioni assicurassero la pax deorum, la pace degli dei. Così, le leggi civili reprimevano l’empio ateismo e proibivano i santuari «selvaggi», cioè quelli eretti senza permesso (Platone, Leggi, X, 908-910). «Nessuno poteva avere i suoi propri dei o degli dei stranieri senza il riconoscimento dello Stato», spiega Cicerone (De legibus, II, 8, 19).

Gli apologeti cattolici hanno anche spiegato i legami fra la Chiesa e l’Impero, che è un ministro di Dio perché fondato da Lui. Ne conseguiva che i cristiani onoravano l’Imperatore (Clemente di Roma, Ai Corinti, LX-LXII; Origene, Sui Romani, IX, 23-26 e Contro Celso, VIII, 68) e collaboravano con lui in nome del «Date a Cesare, date a Dio» (Mt. 22, 21). Questa collaborazione facilitava l’evangelizzazione del mondo (Origene, Contro Celso, III, 29 e VIII, 68), anche Roma avrebbe sempre sostenuto la Chiesa (Tertulliano, Ad scapulam, II).

Dunque, i cristiani ignoravano la libertà di coscienza religiosa, al pari di tutta l’Antichità.

Alla fine delle persecuzioni, i rapporti fra la Chiesa e lo Stato furono chiariti: due dei più prestigiosi dottori della Chiesa rifiutarono qualsiasi libertà religiosa.


Sant’Ambrogio e Sant’Agostino

Dopo il 313, gli Imperatori Costantino e Licinio avviarono una politica così favorevole al cristianesimo che l’apparato legislativo che ne seguì è unico nella storia delle relazioni fra la Chiesa e gli Stati.
Certo, la teologia politica di Costantino – Pontifex maximus – Pontefice Massimo di tutti culti – rassomigliava alla teocrazia dell’Antico Testamento e si basava sul diritto romano: «Il potere pubblico si esercita sulle cose sacre, sui sacerdoti, sui magistrati» (Ulpiano, Institutiones, I, 1, § 2). Egli intervenne nel momento sbagliato sull’Arianesimo. Tuttavia l’Imperatore supplì felicemente alle strutture ecclesiastiche insufficienti di fronte ai pericoli eretici e pagani.

La trasformazione in Impero Cristiano fu fatta da Graziano (il paganesimo di Stato fu soppresso nel 383) «baluardo della fede cattolica che è viva in voi» (Ambrogio, De Fide ad Gratianum, XVI, 139). Teodosio riconobbe la fede di Papa Damaso (Editto di Tessalonica del 380, Concilio di Costantinopoli del maggio 381), le riunioni eretiche furono vietate (editti del 382 e del 384), il paganesimo fu bandito (editto di Milano del 24 febbraio 391), al pari dei culti privati degli dei-lari, l’8 novembre 392 (Codice di Teodosio, XVI, 10, 1012).

Sant’Ambrogio pose allora le due condizioni per una Chiesa di Stato: la verità religiosa è il principio supremo della società; l’indipendenza del clero ne è la garanzia indispensabile.

Di conseguenza, la legge della Chiesa è integrata nella legislazione civile (Canoni dei Concilii di Nicea, Rimini, Costantinopoli, Efeso, condanna di Eutiche sotto Marciano) e l’Imperatore è sottomesso alla Chiesa (Imperator intra Ecclesiam, non supra Ecclesiam – L’imperatore è nella Chiesa, non al di sopra della Chiesa), come il potere temporale è sottomesso al potere spirituale ratione peccati (in ragione del peccato originale).
Si trattò di una rivoluzione giuridica. Ambrogio arrivò ad imporre una penitenza a Teodosio per le gravi colpe pubbliche dell’«Imperatore cristianissimo» (Epistolae, I, 1).

Al tempo stesso si praticò la tolleranza permettendo ai Goti di essere omeisti (una sorta di arianesimo attenuato), accettando le chiese ariane fuori dalle mura delle città.
Ambrogio chiese la grazia per l’eretico Priscilliano… e tuttavia non si trattava di libertà religiosa, perché il principio del pagano Gaudenzio (gli uomini non devono essere condotti alla verità loro malgrado» (Agostino, Contra Gaudentium, I, 25) fu condannato da Ambrogio: egli capì che la perennità della civiltà romana sarebbe dipesa dall’esclusivismo concesso dallo Stato imperiale alla religione cattolica.

Dopo Ambrogio, Agostino testimoniò l’uso della forza per risolvere lo scisma donatista in Africa. Alla fine del III secolo i donatisi avevano lasciato la Chiesa in nome della purezza della fede. Verso il 400 in Africa c’erano trecento vescovi. Malgrado ciò, per timore di creare dei «cattolici falsi e simulati», Sant’Agostino condannò la coazione, salvo nei casi di disordine pubblico (Epistola 185, al conte Bonifacio, vu, 25). La sua posizione era molto vicina a quella del Vaticano II; tuttavia, al Concilio di Cartagine del giugno 407, egli volle la polizia contro di essi. Perché?

Per un verso, perché la rivelazione divina permise ai Re Ezechia e Joash di distruggere dei santuari idolatri, a Dario di abbandonare ai leoni i nemici di Daniele, a Nabucodonosor di legiferare contro i bestemmiatori (ibidem, V, 19), al Re di Ninive di far fare penitenza a tutti. Gesù obbligò ad entrare nel banchetto nuziale: «Quando vi sembra che gli uomini non debbano essere costretti a ricevere la verità loro malgrado, siete in errore e non conoscete le Scritture, né la virtù di Dio che li fa volere dopo averli costretti» (Contra Gaudentium, I, 25, n° 28).

Per altro verso, Agostino notava «tutto ciò che un saggio rigore poteva fare per la loro conversione» (Retractationes II, 5). Coloro che erano impediti ad aderire alla Chiesa per paura delle violenze o dei loro parenti «passarono immediatamente alla Chiesa di Gesù Cristo». Quelli che erano rimasti nello scisma per tradizione familiare poterono studiare il donatismo e non trovandovi nulla che «potesse compensare i danni e le pene a cui erano esposti rimanendovi: divennero cattolici.
Questi esempi ne attrassero molti che, incapaci di giudicare da soli, li imitarono. Una quarta categoria, gli eretici incalliti, fingevano la conversione e poi, adeguandosi a poco a poco alle nostre pratiche salutari e a forza di sentire predicare la parola di verità, si convertivano sinceramente.
La coercizione favoriva i cattolici, perché «la fede era solidamente stabilita quando le leggi degli Imperatori costrinsero tutti gli uomini a seguire la religione cattolica»: essi rendevano grazie per le conversioni avvenute. Quanto agli irriducibili, molto più violenti, il fervore dei cattolici era così intenso da conquistarli (Epistola 185, VI, 25 e 31).

Per Agostino, l’argomento fondamentale era la salvezza dell’eretico (Contra litteræ Petiliani, II, 43). A fronte di una punizione eterna, le pene temporali sono infime e la coercizione è relativizzata. I vantaggi sono molteplici: «Il timore delle pene [temporali]… quantomeno mantiene i cattivi desideri entro i limiti del pensiero» (ibidem, 83, n° 184); «la costrizione esteriore farà nascere la volontà interiore» (sermon exil, 7, n° 8), «si comincia con il timore e si progredisce fino all’amore, e il Signore concede la pace» (Contra Gaudentium, I, 12, n° 13).

Agostino era dunque costretto a riconoscere «la misericordia di Dio che sa che il terrore delle leggi e alcune punizioni sono un rimedio necessario per guarire la perversità o la tiepidezza di molti, e che la durezza del cuore che resiste alle esortazioni cede di fronte ad una giusta e severa disciplina» (Epistola 185, VI, 26).





Egli conclude quindi così: «Perché dunque, come gli ottimi costumi sono scelti dalla libera volontà, i costumi malvagi non dovrebbero essere puniti dall’integrità della legge? … Se quindi delle leggi fatte contro di voi non vi costringessero a fare il bene, vi impedirebbero di fare il male; perché si può fare il bene solo per scelta, solo per amore…» (Contra litterae Petiliani, Il, 83, n° 184).
Sant’Agostino ha posto le fondamenta della Città di Dio, di cui la coercizione religiosa era un veicolo essenziale.

Così, per concludere, fin dalla prima Antichità cristiana Cristo ha potuto regnare sulle società politiche, come disse Teodosio II al Concilio di Efeso nel 431: «La Chiesa e lo Stato formano un solo tutt’uno e per nostro comando e con l’aiuto di Nostro Signore e Salvatore saranno sempre più uniti».


NOTA

1 – Si insiste talvolta nel proporre una nuova formula alla stessa obiezione: la gerarchia dei beni subordina la politica alla teodicea, perché il monastico (la vita dell’uomo come individuo), il domestico e il politico – tutti e tre dominii dello Stato – dipendono dall’etica, mentre la dimensione religiosa è di competenza della teologia naturale (una parte della metafisica) e soprannaturale. Lo Stato qui non ha alcuna competenza. Ma San Tommaso sottolinea che solo i saggi, già perfetti in questa vita grazie alla contemplazione di Dio, sono al di sopra della politica: essi sono molto rari, vivono una vita solitaria quasi divina, poiché votarsi totalmente alle cose di Dio «è al di sopra dell’uomo» (Somma teologica II-II, q. 188, a. 8). Anche San Bruno, fondatore dei Certosini, non trovò nulla di meglio per salvaguardare la loro vita eremitica di una regola religiosa di vita comune… così l’uomo nella sua dimensione religiosa non può sottrarsi alla società politica, di cui è sempre membro per necessità umilmente umana.
La dottrina della libertà religiosa ha una folle pretesa: far credere che ogni uomo è per natura in uno stato di perfezione religiosa… prima ancora di avere scelto il minimo esercizio spirituale. Alla fine, essa amplifica il peccato originale e porterà allo stesso risultato le società che la sostengono.










 
giugno 2024
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