LA RESISTENZA ALLE LEGGI INGIUSTE
 
SECONDO LA DOTTRINA CATTOLICA

Parte seconda



Articolo di Padre Andrea Oddone, S.J.


Parte prima
Parte seconda


Pubblicato su La Civiltà Cattolica,
Vol. III, quaderno 2258, Roma, 1944

Ripreso sul quindicinale Sì Sì No No - Anno L, n° 9, 15 maggio 2024

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Questo duplice atteggiamento di resistenza passiva e di resistenza attiva legale è conforme esso pure ai princìpi della dottrina cattolica.
La dottrina cattolica comanda di ubbidire alle leggi giuste dell’autorità civile, non tanto per timore della pena quanto per debito di coscienza. Se le leggi sono ingiuste i cittadini invece possono e in alcuni casi devono ricusare di ubbidire e adoperarsi con mezzi legali per ottenere l’abrogazione o la modificazione di tali leggi (1).
In ambedue i casi i cittadini si valgono di un loro diritto e operano lecitamente.

Ma possiamo affermare la stessa cosa, quando si tratta di resistenza attiva con l’uso della forza a mano armata? In altre parole, quando la legge ingiusta cerca imporsi con la violenza e con la forza, è lecito ai cittadini organizzarsi e armarsi, opporre la forza alla forza, per ostacolare l’applicazione della legge ingiusta, e anche per abbattere con le armi un potere persecutore, di cui la legge ingiusta è l’odiosa espressione ?
La resistenza attiva spinta sino a quest’ultimo grado, portata sino a queste estreme risoluzioni costituisce certamente un’operazione assai complessa, che da una parte tende a risultati di profonda ripercussione sociale, ma d’altra parte implica rischi gravi e certi.
Si è quindi di fronte ad un problema d’estrema delicatezza, la cui soluzione pratica è molto spinosa.
«Ma, osserva giustamente il Meyer, l’essere la questione praticamente spinosa non è una ragione per ignorarla speculativamente e passarla sotto silenzio. Poiché qualche volta le circostanze ne rendono imperiosamente necessaria una qualsiasi soluzione pratica, senza lasciare la possibilità né di evitarla né di rimandarla, vale meglio averla in antecedenza teoricamente risolta in conformità con i princìpi della sana ragione» (2).

Nel presente articolo vogliamo appunto esaminare se in qualche caso straordinario ed estremo, quando ogni resistenza legale passiva e attiva è divenuta, in forza delle circostanze, praticamente inefficace e impossibile, sia lecito, se non dal lato della perfezione cristiana, almeno secondo la norma dello stretto diritto naturale, la resistenza attiva a mano armata.
Precisiamo ancora meglio i termini della questione per evitare i malintesi.

Parliamo di un caso «straordinario ed estremo» quando, falliti tutti i mezzi pacifici e legali, perdura un’oppressione veramente tirannica. Evidentemente solo i seguaci delle teorie del Rousseau potrebbero infatti affermare che l’insurrezione sia un rimedio ordinario contro la tirannide e che universalmente competa al popolo, per diritto di natura, il potere non solo di deporre i principi, ma anche di giudicarli e di punirli.

Osserviamo in secondo luogo che la carità cristiana, anche nei casi «straordinari» di tirannide, raccomanda ai popoli oppressi la mansuetudine, la pazienza e la carità, le quali virtù spesso per provvidenza speciale di Dio sono coronate di felice successo.
Ma la nostra questione tratta non di ciò che ai cuori generosi può suggerire o consigliare la perfezione cristiana, bensì di quello che rigorosamente comporta lo stretto diritto naturale.

Bisogna infine considerare che la questione quando viene agitata nel campo speculativo, non mira cioè a determinare ciò che si debba praticamente fare in un caso specifico straordinario, ma a stabilire in linea di principio, teoricamente, una norma obbiettiva di rettitudine.

Alla questione così delimitata e chiarita quale risposta danno i teologi e i filosofi cattolici?
Si manifestano tra loro due atteggiamenti contrari, che mette conto conoscere con tutta esattezza.

Alla questione proposta alcuni rispondono negativamente. I cittadini non hanno mai, in nessun caso, il diritto di opporre una resistenza attiva armata contro l’ingiustizia di chi li opprime e li calpesta.
Questo atteggiamento è comune presso gli scrittori aulici. Scrive testualmente il Bossuet: «I sudditi non possono opporre alla violenza dei princìpi che rimostranze rispettose, senza sommosse e senza mormorazioni: soltanto preghino per la loro conversione. Le critiche aspre e le mormorazioni sono un principio di sedizione, che non deve essere tollerato. Quando dico che le rimostranze devono essere rispettose, intendo che lo siano effettivamente e non soltanto in apparenza. Ecco una dottrina veramente santa, veramente degna di Gesù Cristo e dei suoi fedeli» (3).

Questa dottrina del grande oratore, nella quale par di sentire un po’ l’adulatore di Luigi XIV e l’interprete più rappresentativo dei teologi gallicani, si accosta a quella di Giacomo I d’Inghilterra, il quale, parlando di un sovrano tiranno, scrive: «La preghiera, la pazienza, l’emulazione della vita sono i soli mezzi concessi ai sudditi dal diritto divino per ottenere da Dio che si degni di liberare egli stesso il suo popolo da questo flagello di sovrano» (4).

Questa dottrina piacerà a Napoleone I.
In un corso di filosofia pubblicato per autorità del Card. Fesch nel 1810, con questa nota significativa: «Questa edizione è la sola in uso nelle principali diocesi di Francia», si leggono le seguenti parole: «Anche se il principe fosse un tiranno crudele, anche se fosse il nemico più feroce della vera religione, non si ha mai il diritto di abbandonare il suo partito... Offendere nelle parole o nelle opere l’augusta persona del sovrano sarebbe una specie di sacrilegio» (5) .

In appoggio di questa opinione si sogliono recare argomenti dedotti dallo spirito del Cristianesimo, che è spirito di tranquillità e di buon ordine e dalla condotta dei cattolici in faccia alle autorità terrene lottanti contro la Chiesa.
Il Freppel, che segue le tracce del Bossuet, dopo aver riferito le note parole di Tertulliano a questo riguardo, soggiunge: «Ecco i veri sentimenti che animavano la Chiesa primitiva. Nonostante l’oppressione iniqua, sotto la quale gemevano i suoi membri, essa faceva loro un dovere di perseverare nella loro fedeltà verso il principe. Essa li esortava bensì per mezzo di tutti i suoi organi a non cedere giammai sul terreno della coscienza... ma d’altra parte rigettava come un delitto il solo pensiero della rivolta contro il potere civile nelle cose dell’ordine temporale. Ed è per questo che gli Apologisti non cessavano di raccomandare la pietà, la fede, la religione verso la seconda maestà, verso l’Imperatore che Dio ha stabilito e che ne esercita il potere sulla terra» (Tertulliano, Apol. 22-26).
In una parola la Chiesa primitiva predicava la dottrina della resistenza passiva, la quale consiste nel rifiuto netto e perentorio di prestarsi ad atti che la coscienza riprova, ma essa vietava loro espressamente di rivoltarsi contro l’Autorità, sotto pretesto di vendicare la loro fede perseguitata, perché si ricordava delle parole di san Pietro che bisogna essere ubbidienti anche ai padroni cattivi (6).

Il Bonomelli fa sua questa osservazione e la conferma con l’Enciclica Diuturnum illud di Leone XIII, nella quale il Pontefice, ricordato l’esempio degli antichi cristiani, che «non macchinavano alcuna resistenza», vuole che dall’autorità e dal magistero dei Vescovi «i popoli siano spesso ammoniti a fuggire le sette proibite, a detestare le congiure e a schivare qualsiasi sedizione».
E il Bonomelli conchiude che la forza invincibile della Chiesta sta nell’opporre alla forza materiale la forza morale (7).

I princìpi della Rivoluzione francese dell’89, che, scalzando ogni autorità, cagionarono tante rovine sociali e politiche, e il timore di abusi da parte del popolo, furono pure un motivo non ultimo per negargli in qualsiasi caso il diritto alla resistenza attiva armata. L’ordine civile e sociale non si tutela con il proclamare i diritti del popolo già troppo predicati ed esagerati, ma inculcando, contro le tendenze rivoluzionarie, i doveri di fedeltà e di ubbidienza alla legittima autorità.

Ma queste ragioni, che abbiamo lealmente esposte, non possono far dimenticare le splendide testimonianze e gli argomenti di quei teologi a favore della tesi contraria, che afferma la liceità giuridica della resistenza attiva armata, quando si verificano le condizioni richieste.
Ascoltiamo dapprima il Principe della Scuola san Tommaso d’Aquino.

Egli esprime il suo pensiero in parecchi luoghi della Somma Teologica e nell’opera De Regimine principum. Il passo classico e più importante è il seguente: «Il governo tirannico non è giusto, perché non è ordinato al bene pubblico, ma al bene particolare di colui che governa, come lo dimostra Aristotele nel libro III della Politica cap. 5 e nel libro VIII dell’Etica cap. IX. Perciò il rovesciamento di tale governo non ha il carattere di una sedizione, se non nel caso in cui il rovesciamento di tale governo si facesse con tanto disordine da recare alla nazione maggiore danno che la stessa tirannide. Ma la sedizione è piuttosto da parte del tiranno, perché fomenta discordie e turbamenti nel popolo che gli è soggetto per poterlo dominare più sicuramente» (8).

La maggior parte dei Dottori scolastici del Medioevo convengono su questo punto con S. Tommaso. «Essi affermano quasi concordemente, dice il Cathrein, che al popolo, nella sua totalità e in via regolare, di fronte ad una oppressione esterna, insopportabile, è lecito dichiarare guerra al tiranno e in certe circostanze, detronizzarlo. Il monarca riceve difatti il potere dal popolo, ma a condizione che egli governi con giustizia e non tirannicamente. Qualora non si mostri fedele agli obblighi assunti, il popolo, come totalità, può di nuovo far proprio il potere supremo, dichiarare la guerra al monarca, cacciarlo o citarlo in giudizio» (9).

In favore di questa tesi l’Hergenroether raccoglie molti passi di scrittori cattolici nella sua opera La Chiesa cattolica e lo Stato Cristiano (10). Tra questi scrittori merita di essere ricordato in modo speciale il Suarez, che tratta ampiamente la questione in parecchi suoi scritti. Il suo pensiero si può riassumere nel seguente modo: «Se un sovrano trasforma il suo potere in tirannide, abusandone in rovina manifesta dello Stato, può essere detronizzato, non da un privato, ma dal popolo, auctoritate publica, in forza del diritto naturale che egli possiede di difendersi e al quale non ha mai rinunziato» (11).

Nel suo trattato Delle Censure (Dist. 15, rec. 6 prerog. 7) il Suarez aveva sostenuto il diritto del popolo ad abbattere per modo di legittima difesa un governo scismatico ed eretico, corruttore della nazione. Gli editori veneziani, durante un contrasto tra la Repubblica e la Corte Romana, ristamparono il trattato, sopprimendo però questo passo.
La Congregazione dell’Indice, spontaneamente, senza essere affatto sollecitata, interdisse l’edizione come falsa e in pregiudizio del Suarez. Egli scrisse allora, nel 1606, per richiesta di Paolo V, un trattato in tre libri per difendere l’immunità ecclesiastica. Nel terzo libro, che è consacrato interamente a giustificare l’atto della Congregazione dell’Indice, nuovamente espone e rinforza la sua dottrina della legittima difesa popolare, presentandola come intrinsecamente certa. L’opera intera fu inviata a Paolo V, che rispose con un breve molto laudativo (12).

A queste voci del passato fanno eco le testimonianze di non pochi e autorevoli filosofi e teologi moderni. Citiamone alcune.

Il Lehmkuhl scrive: «Altro è la ribellione, altro è la resistenza alle leggi ingiuste e alla loro esecuzione. Se si compie infatti con la legge una violenza evidentemente ingiusta, resistendo alla legge non si resiste già all’autorità, ma alla violenza ingiusta. Quando poi e in quale misura sia permesso di respingere con la forza una violenza evidentemente ingiusta esercitata in nome e con l’apparato dell’autorità pubblica, ciò dipenderà dall’esito che si può sperare e dai mali forse più grandi che la resistenza potrebbe attirare sulla nazione» (13).
Il Noldin si esprime in termini quasi identici (14).

Il Génicot riferisce le parole del Lehmkuhl e invoca l’autorità di san Tommaso: «Quando si compie apertamente un’ingiusta oppressione da coloro che tengono il legittimo potere, abbiamo un caso simile alla violenza dei ladroni, come dice l’Angelico (Sum Theo II - II q . 69 a. 4)... e perciò come è lecito resistere ai ladroni, così è lecito, in tale caso, resistere ai prìncipi malvagi, eccetto il caso di grave scandalo, potendosi temere da questa resistenza qualche grave disordine» (15) .

Il Cepeda afferma che questa dottrina è «la meglio fondata » e soggiunge: «In questo caso l’autorità civile, che ha per fine il bene comune, ma che è adoperata dal tiranno a detrimento della società, senza che ci sia speranza di emendamento, viene a trovarsi in collisione con il diritto che ha la società di attendere al suo fine. Ora in questa collisione il diritto di tutta la società deve prevalere» (16).

Con maggior chiarezza e precisione ragiona il Meyer, a sostegno della tesi, nel seguente modo: «Come ogni individuo ha un diritto innato di provvedere alla sua conservazione e per conseguenza di difendersi a mano armata contro la violenza di un’ingiusta aggressione, senza tuttavia eccedere la misura che viene legittimata dai bisogni della difesa, così un popolo, costituito in persona morale dalla sua unità sociale, deve necessariamente essere fornito dalla natura di un simile diritto essenziale. Il diritto naturale della difesa si estende infatti, senza eccezione ad ogni creatura ragionevole e per conseguenza a pari o a maggior ragione a una personalità umana collettiva. Perciò tutte le volte che un abuso tirannico del potere, non già transitorio, ma costante e sistematico, avrà ridotto il popolo a un estremo tale che, manifestamente, ne va ormai di mezzo la sua salvezza, per esempio se si tratta di scongiurare un pericolo imminente per lo Stato, o dei beni essenziali della nazione e in prima linea di salvare il tesoro della vera fede da una sicura rovina, allora, per diritto naturale, ad una simile aggressione, per quanto lo richiedono le cause e le circostanze, è lecito opporre una resistenza attiva. La Sacra Scrittura ci presenta un nobile esempio di questo modo di difesa nella storia dei Maccabei» (17).

Sullo stesso principio che vim vi repellere licet insiste il Cathrein: «Non riusciamo a capire, scrive egli, che cosa si possa ragionevolmente obbiettare contro questa opinione, supposto che si tratti di resistere ad attentati attuali violenti e possa farsi senza provocare mali maggiori per la collettività. Se ogni singolo individuo può difendere la propria vita contro un’aggressione manifestamente ingiusta del principe, perché ciò non dovrebbe essere lecito a tutti? Perché i cittadini non si dovrebbero unire fra loro per difendersi meglio e opporsi con la violenza all’ingiusta violenza del tiranno? Il diritto dell’ultimo suddito non è meno sacro del diritto del sovrano: questi è destinato alla difesa dei diritti dei sudditi. Né si dica che il popolo non ha un potere pubblico e che si arroga la sovranità non spettante a lui, perché per la legittima difesa contro un assalto attuale, ingiusto - e di questo appunto ed esclusivamente si tratta - non c’è bisogno di potere pubblico.
E tale dottrina non fa a cozzi con il Sillabo poiché questo condanna soltanto l’opinione che afferma essere lecito negare capricciosamente ubbidienza al principe legittimo e ribellarsi a lui. Non ha niente a che fare con questa opinione la dottrina del diritto di difesa e della semplice resistenza nel caso di necessità estrema» (18).

A questo proposito osserva giustamente il Card. Zigliara: «Si resiste non all’autorità, ma alla violenza; non al diritto, ma all’abuso del diritto; non al principe, ma all’ingiusto oppressore di un diritto proprio e nell’atto stesso dell’aggressione» (19).
Né vale opporre che i primi cristiani perseguitati dagli imperatori pagani si lasciarono martirizzare senza opporre alcuna resistenza. Operando in tal modo essi diedero certamente un esempio ammirevole di eroica virtù. Ma avevano incontestabilmente anche il diritto di agire altrimenti e di respingere la violenza con la forza. «Noi facciamo questione di diritto, osserva il Card. Zigliara, e ci si parla di pazienza. Siamo d’accordo che si debbano sopportare con pazienza le offese degli uomini; ma la pazienza non sopprime nel paziente la facoltà di rivendicare il proprio diritto e se questo vale per i cittadini individualmente considerati, sarà per lo meno ugualmente vero per riguardo alla collettività» (20).

In base alle autorevoli testimonianze riferite e ad altre, che per brevità omettiamo (21), ci pare che il diritto della legittima difesa anche con la forza da parte di un popolo oppresso, in qualche caso estremo, poggi sopra solidissimo fondamento.

Ma risolta la questione in astratto, che cosa dobbiamo dire quando si tratta della sua applicazione pratica? I fautori del diritto della resistenza attiva armata sono concordi nell’ammettere che l’uso del diritto è di un’estrema delicatezza per i gravi turbamenti sociali dai quali è sempre accompagnato. Perciò nel caso particolare l’uso del diritto deve essere determinato e regolato secondo le norme della prudenza cristiana e della carità bene ordinata, affinché si mantenga nei limiti della liceità, cioè della ragione e della giustizia, e non degeneri in ribellione. Questa delimitazione precauzionale dell’uso del diritto della resistenza attiva armata è tanto più necessaria perché gli uomini sono disposti a credersi intollerabilmente oppressi, ad esagerare gli abusi di chi li governa e a trascendere facilmente alla violenza (22) .

Dai migliori filosofi, giuristi e teologi cattolici, furono quindi stabilite alcune condizioni, alle quali è necessario che sia sottoposta la difesa popolare per essere legittima nel suo esercizio. Si possono ridurre a quattro.
Le indichiamo brevemente.

1) La tirannia del potere deve essere costante e abituale e deve avere un carattere di tale gravità da mettere in pericolo di rovina i beni essenziali di un popolo e di una nazione, tra i quali tiene il primo posto la Religione.
Un rimedio violento e anormale, qual è quello della resistenza attiva armata, non potrebbe essere legittimato se non da un dovere di carattere estremo, che si verifica appunto in una tirannia veramente eccessiva, quando i più sacrosanti diritti dei sudditi vengono lesi per abitudine da un principe che si prende giuoco della loro vita, della loro coscienza e dei loro beni (23).
«Se la tirannide, dice san Tommaso, non è eccessiva, ma leggera, è meglio sopportarla che non esporsi, abbattendo il tiranno, a pericoli molti e più gravi della stessa tirannide» (24).

2) La gravità della situazione sia manifesta e tale venga giudicata, non da persone private o da una parte qualunque del popolo, ma dalla sua parte maggiore e migliore per onestà e saggezza, in modo che possa dirsi che la resistenza attiva procede veramente dalla pubblica autorità e non da un’iniziativa privata.

3) Nel tentativo di abbattere un potere tirannico bisogna che vi siano, sempre, a giudizio di persone competenti, molte probabilità di felice successo. Chi alla leggera si lanciasse in una simile avventura, commetterebbe evidentemente non solo una grave imprudenza, ma addirittura un crimine sociale. «Se infatti gli oppositori del tiranno soccombono, dice san Tommaso, il tiranno provocato infierirà più aspramente sul popolo» (25).

4) La caduta del governo tirannico non deve infine creare una situazione più tragica e più rovinosa di quella dalla quale si vuole uscire con il ricorso alla forza. «Anche nel caso, in cui può essere vinto il tiranno, continua san Tommaso, seguitano spesso gravissime dissensioni, perché o quando s’insorge contro il tiranno o dopo averlo rovesciato, venendosi poi all’ordinamento del governo, la moltitudine si divide facilmente in partiti. Talvolta accade che colui che è incaricato dalla moltitudine di cacciare il tiranno, abusando della data facoltà, fa se stesso tiranno, e per timore che gli sia fatto quello che egli ha fatto ad altri, opprime i sudditi con mano più crudele e li riduce ad una più dura servitù» (26).

Se queste condizioni rimangono nel campo delle semplici ipotesi e non è possibile trovare alcun rimedio contro un governo che opprime miseramente un popolo, allora bisogna, dice san Tommaso, «ricorrere a Dio che è il re universale e che viene in aiuto opportunamente agli uomini nelle tribolazioni. Egli ha il potere di rendere mansueto il cuore crudele del tiranno, secondo il detto di Salomone (Prov. 21, 1 ): Il cuore del re è nelle mani di Dio; egli lo piega in quella parte che gli piace... Dio può togliere di mezzo i tiranni e ridurli a infimo stato... Ma perché il popolo sia meritevole di avere da Dio questo bene, deve cessare dal peccato, perché in pena del peccato gli empi, permettendolo Dio, acquistano vigoria» (27).

E il caso estremo da noi supposto, nel quale abbiano luogo tutte le condizioni enumerate, sarà in pratica assai raro, specialmente nelle costituzioni moderne dove in generale è concessa al popolo una larga cooperazione al governo (28).
«Conseguentemente, osserva il Cathrein, la dottrina esposta non può essere denunziata come pericolosa, se non da un maligno o da chi non l’ha considerata in tutta la sua pienezza» (29).

Tale caso poi sarà del tutto impossibile in uno Stato ordinato e ben governato, nel quale l’autorità dei capi e l’ubbidienza dei sudditi siano concepite secondo i princìpi della morale cristiana.
A questo proposito ci sembrano opportune anche per i nostri giorni alcune osservazioni del Tongiorgi, e perciò le trascriviamo come conclusione di questo articolo.
«Per impedire, dice egli, la tirannide e per reprimerla la via migliore sarebbe questa che tutte le nazioni e i capi di esse si sottoponessero con patto volontario ad un supremo consesso di princìpi, affinché venissero da questo decise le controversie sorte tra il governo e il popolo; o sarebbe di gran lunga molto meglio che tali controversie fossero deferite al Maestro supremo e infallibile della verità e della giustizia, che la divina bontà ha collocato in mezzo alle genti cristiane, rimettendone la decisione al suo arbitrato pacifico e paterno. Del resto bisogna ricordare che la tirannide, che consiste nell’abuso del potere, trae sempre origine o almeno trova esca nella perversione morale della società. Se tutti i cittadini infatti fossero talmente retti da ricusare con intrepidezza di ubbidire alle leggi apertamente ingiuste, la tirannia non troverebbe alcun appoggio, e perciò o non vi sarebbe mai alcun tiranno o se qualcuno incominciasse a governare in modo tirannico, sarebbe ben presto costretto a desistere dal suo proposito. Dal che appare che ad impedire gli abusi della tirannia giova molto più l’onestà dei cittadini e la libera costanza dell’animo nel compiere il proprio dovere che non le difese e i sostegni artificiali delle costituzioni politiche» (30).



NOTE

1 - Cfr. Civ. Catt., 1944, III, 327-336.
2Institutiones iuris naturalis, Pars II, sect. III, lib. I, cap. I, n. 531. Friburgo, Herder, 1900. Cfr. BALMES, Il Protestantesimo comparato al Cattolicismo, Vol. III. .
3 - Politique tirée de l'Ecriture sainte, VI, art. 2 propos. 6.
4 - Jus liberae monarchiae, citato dal SORTAIS, Traité de Philosophie, Vol. II , p. 289, n. 106. Paris, Lethielleux, 1923.
5 - IMAURICE DE LA TAILLE, En face du pouvoir, «L'actitude des Catholiques en face de la violence légale», p. 156, Tours, Alfred Cattler, 1910.
6 - FREPPEL, Tertulliano, Vol. I, lezione 8*.
7 - Questioni religiose, morali e sociali, Vol. II, «L'ubbidienza dei cattolici alle potestà terrene», p. 252. Roma, Desclée, 1903. Raccomandazioni simili a quelle di Leone XIII erano già state fatte nell'Enciclica Mirari (15 ag. 1832) da Gregorio XVI. Cfr. MEYER, 1. c. , p. 529.
8 - Sum. Theol. II - II, q. 42, art. 2. Cfr. II - II, q. 69, art. 4, e I - II , q. 94, art. 4.
Si aggiunga quello che si dice nell'opuscolo De Regimine principum ( lib. I cap. 6). Le diverse testimonianze dell'Angelico si possono vedere raccolte dal BALMES nelle Note al cap. 51 dell'opera citata. 
9 - Filosofia Morale, Vol. II , 740. Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1920. «Pater familias, scrive il BELLARMINO, «Etiamsi pessimus sit, nunquam potest a familia iudicari et expelli, sicut potest rex, quando degenerat in tyrannum». (Controv. II, c. 16). Cfr. De Romano Pontefice, 1. 5, cap. 7. Lo stesso press'a poco dice il BANEZ ( De iustitia et iure, q. 61. a. 3 ) e il CAIETANUS ( in 2-2, 42, 2).
10 - Vol. 2, Dissertazione XIV, «L'origine del potere e il diritto di resistenza». Parma, Fiaccadori, 1878.
11 -  Disputatio XIII, De Bello, sect. 8, prop. 2. Cfr. Defensio fidei, 1. III, c. 3: lib. IV, cap. IV, parag. 5 e 6.
12 - DE SCORRAILLE, François Suarez, Vol. II, p. 120-126, Paris, Lethielleux, 1911. E' riportato per disteso il Breve di Paolo V. Cfr. MALON, Opuscula sex inedita Fr. Suarez, París, Demichelis, 1859. Nella prefazione l'A. accenna a questo episodio. 
13 - Theologia moralis, Vol. I, n. 953 p. 532. Volgarmente si dà spesso il nome di ribellione a qualunque resistenza anche difensiva contro la legittima potestà. Nel suo stretto significato invece la ribellione è il sovvertimento violento dell'ordine pubblico giuridicamente esistente (CATHREIN, Fil . Mor. II , p. 756); è la violenza usata dai sudditi contro il principe legittimo per deporlo o per indurlo a mutare la costituzione o a concedere pubblici favori (MEYER, 1. c, p. 509, n. 522). Ha quindi sempre ragione non di difesa, ma di offesa. Non deve quindi essere confusa con ogni resistenza attiva difensiva.
14 - De praeceptis, n. 310 dell'Edizione XXVI curata dallo SCHMITT S. I., 1939.
15 - Theologia Moralis, Vol. I, n. 357. Bruxelles, Dewit, Editio sexta, 1909.
16 - RODRIGUEZ De Cepeda, Eléments de droit naturel, pp. 539-540. Paris, Retaux Bray, Libraire Editeur, 1890.
17 - Institutiones iuris naturalis, 1. c., pp . 531-532.
18 - Filos. Mor. 1. c. Vol. II , p. 744. La stessa risposta viene data dagli autori ad altri documenti pontifici, dove si condanna soltanto la ribellione o viene raccomandata la rassegnazione per motivi di prudenza o per ragioni di particolari circostanze (Cfr. MEYER, 1. c. , n. 533: Notanda ad solvendas difficultates). 
19 - Summa Philosophica, Vol. III, 1. II, cap. III, art. 7, n. 55. Secondo lo Schiffini, in quest'affare il popolo procede non iure punitionis, ma iure defensionis. Nella resistenza attiva «non opus est iurisdictione nulla, sed sufficere videtur ius propriae conservationis, quod ut individuis, sic etiam societati competit quodque certe praevalet iuri existenti in talibus tyrannis ad possessionem auctoritatis» ( Fil. Mor. II, n. 474).
20 - Summa Phil. 1. c . p. 297. Una simile risposta dà pure l'Hergenröther : «Ma, dirà qualcuno, i sudditi cristiani non dovrebbero lasciarsi mettere a morte anziché fare resistenza, anche quando fossero assai forti per farla? Questo è un affare di perfezione cristiana, non un dovere d’incondizionata rinunzia a tale resistenza.... Vi sono due modi di difendere la religione: primo, al modo di Eleazaro con il martirio (II Mach. VI, 18-31 ): secondo, al modo di Matatia (I Mach. II, 1-11), il quale si levò con i suoi a lottare contro l'oppressione pagana. Ciò che fu lecito ai Maccabei nell'Antico Testamento secondo la legge naturale, deve essere lecito, in circostanze uguali, anche nel Nuovo Testamento» (La Chiesa Cattolica e lo Stato cristiano, Vol. III, 1. c., Dissertazione XIV, n. 12).
21 - Civ. Catt., Serie V, Vol. 8, pp. 28-29. Notevoli sono a questo riguardo le istruzioni impartite da Pio XI all'Episcopato Messicano durante la persecuzione del Governo contro la Chiesa. (Firmissimam constantiam, 28 marzo 1937).
22 - BALMES, 1. c. , cap. LVL.
23 - Questo vale anche nel caso in cui «il principe» sia il popolo stesso, sotto un regime democratico. La tirannia infatti esercitata dal popolo o a nome del popolo, è spesso più oppressiva e spaventosa di quella esercitata da un sovrano in regime monarchico.
24 - De Regim. Princ., 1. I, cap. 5.
25 - De Regim. Princ., 1. c.
26 - De Regim. Princ. 1. c.
27 - De Regim. Princ., 1. I, cap. 6 .
28 - Il caso non è tuttavia impossibile nemmeno ai nostri giorni. Lo suppone Pio XI nella Lettera Apostolica all'Episcopato Messicano, nella quale si tracciano le norme che debbono regolare l'azione collettiva dei cittadini contro la tirannia del loro governo. (Cfr. Civ. Catt., 1937. II, 314).
29 - Filosofia Morale, II, p. 744.
30 - SALVATORE TONGIORGI, Institutiones Philosophiae Moralis in compendium redactae, n. 471. Roma, Ex Typografia Romana, 1882.





 
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