Se questo è un papa!


di Giovanni Servodio

Il 7 luglio 2013, Eugenio Scalfari, più noto come “papa” laico, scrive un articolo sul quotidiano La Repubblica, con il quale si rivolge a Papa Bergoglio: Le risposte che i due papi non danno.
Il 7 agosto successivo, lo stesso scrive un altro articolo sullo stesso giornale: Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco.
Il 4 settembre scorso, Papa Bergoglio risponde pubblicamente al “papa” laico, con una lettera pubblicata su La Repubblica e su L'Osservatore Romano dell'11 settembre: Parliamo della fede. Lettera a chi non crede.

Questo incredibile epistolario merita di essere commentato, seppure brevemente, data la pochezza del tutto, da un lato, e la sconcertante opera di sovversione che rappresenta dall'altro.

Abbiamo già pubblicato un primo intervento dell'amico L. P., che avrà un seguito, pubblichiamo adesso un intervento dell'amico Giovanni Servodio.


Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato;

ma ora non hanno scusa per il loro peccato. …
Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto,
non avrebbero alcun peccato;
ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio.
(Gv. 15, 22 e 24)

Abbiamo voluto introdurre queste nostre brevi note con questo passo del Vangelo di San Giovanni, per significare l’angolo di visuale dal quale abbiamo guardato e guardiamo alla strombazzata corrispondenza tra il “papa” laico, noto come Eugenio Scalfari, e il Papa cattolico, noto come Jorge Bergoglio. Angolo di visuale che non è certo paragonabile a quelli altissimi da cui parlano, e scrivono, i due illustri dialoganti: il nostro è l’angolo di visuale del semplice fedele cattolico, educato e cresciuto a catechismo e sacramenti, con tutti i limiti della persona normale priva dell’illuminazione della ragione speculativa dell’uno e della luce della scienza e della sapienza dell’altro. È per questo che ci è sembrato opportuno ricordare innanzi tutto uno dei tanti passi della Sacra Scrittura in cui si delinea con chiarezza il senso del vero “dialogo”: Dio parla ed agisce e l’uomo ascolta e di conseguenza conforma la sua vita; il resto è retorica gratuita e fuorviante.

Il “dialogo”, infatti, è il primo argomento affrontato da Bergoglio nella sua risposta alle lettere di Scalfari.
“Dialogo” che Bergoglio definisce come «doveroso e prezioso… nel solco tracciato dal Concilio [Vaticano II]», perché – dice Bergoglio – «È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.»
“Dialogo” che dovrebbe superare l’«incomunicabilità» che «lungo i secoli della modernità» si è venuta a determinare «tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra».
“Dialogo”, dunque, che dovrebbe avere per oggetto «la realtà… della fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù».
“Dialogo” tra un non credente che non ha intenzione di cercare Dio, come afferma Scalfari, e un credente che dovrebbe avere come sua prima istanza la conversione dei non credenti, dei miscredenti e dei peccatori.
“Dialogo” che dovrebbe partire dalla constatazione del grave errore in cui vive per se stesso il non credente e dovrebbe condurlo alla verità e alla sottomissione a Dio.

Questo “dialogo”, precisa Bergoglio citando l’enciclica a quattro mani Lumen Fidei, (si veda la critica a questa enciclica redatta dal Prof. Enrico Maria Radaelli) si svolge su questa base: «risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (enciclica Lumen Fidei, n. 34).
Un “dialogo” così fatto – dice Bergoglio - «non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile.»
Così che risulta frantumato e stravolto il comando di Nostro Signore: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. (Mt. 28, 19-20)» «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. (Mc. 16, 16)»

Dove e in che modo, Bergoglio abbia appreso che il fedele di Cristo debba instaurare «un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro», è cosa davvero tanto misteriosa quanto scontata: misteriosa perché sembrerebbe che egli non abbia mai letto i Vangeli, scontata perché appare chiaro che egli attinge, non ai Vangeli trasmessici dagli Evangelisti, dagli Apostoli, dai Padri e dalla Tradizione della Chiesa, ma al nuovo insegnamento del Vaticano II che ha introdotto nella Chiesa la stagione dell’apprendimento dal mondo che rifiuta Dio.
Se questo è un papa!

In coerenza con questo nuovo modo di essere cristiani senza il vero Cristo, ecco che Bergoglio esprime un’altra moderna concezione della “religio”, secondo la quale la fede «nasce con l’incontro personale con Gesù.» Una concezione che stravolge l’antico insegnamento secondo il quale la fede sorge dall’ascolto di ciò che in essa è contenuto: fides ex auditu. E non potrebbe essere diversamente, poiché il compito del fedele di Cristo è di predicare e ammaestrare, non certo quello di incontrare, per di più dialogando.
Questa concezione dell’“incontro personale” trasforma la trasmissione dell’insegnamento e la fede in esso, che è da Dio, in un’assimilazione soggettiva di un accadimento. Trasforma il credere, e il credere in Dio, in un’esperienza personale e soggettiva, mutando il collegamento con Dio, la “religio”, in un rapporto con un altro, l’incontro; tale che la religione di Dio scompare per far posto all’esperienza religiosa dell’uomo.
E questo è tanto vero che Bergoglio, dopo aver confessato che è grazie alla Chiesa che ha potuto fare quell’“incontro”, assicura a Scalfari che «è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.»

Ora, le domande di Scalfari non erano del tenore: chi è Dio? … dov’è Dio? …, ma erano delle forzature basate su delle affermazioni definitive, per esempio:
«Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della mente degli uomini. … se una persona non ha fede né la cerca, …, sarà perdonato dal Dio cristiano?»
Bergoglio dice di trovarsi a suo agio con domande come questa e, tutto contento, si offre per cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Delle due l’una: o Bergoglio mente e con linguaggio biforcuto vuole attirare nella trappola Scalfari per convertirlo, ma avendo cura di non darglielo a vedere, come se Scalfari fosse l’ultimo degli sprovveduti, o Bergoglio è sincero e crede veramente di poter camminare insieme con Scalfari, apprendendo da lui tutto quello che riguarda l’ateismo, la miscredenza, la supponenza illuminista e il delirio d’onnipotenza dell’autosufficienza umana instillata dal Principe di questo mondo.
Fides ex auditu, non vale solo per l’insegnamento divino, ma anche per il suo rovescio, perché non è un modo di dire, ma un modo d’essere dell’uomo: l’uomo ascolta, fa suo e crede. Così Bergoglio, accompagnandosi con Scalfari, ascolterà, farà suo e crederà. E se lo stesso potrà dirsi per Scalfari, nella migliore delle ipotesi si avrà, da un lato un non credente che crederà un po’ di Cristo, a modo suo, e dall’altro un credente che crederà un po’ del contrario di Cristo, dell’Anticristo, anch’egli a modo suo. Tali che nessuno dei due sarà un vero discepolo della Verità ed entrambi si confermeranno cultori dell’errore e dell’inganno: rivelandosi entrambi dei perfetti illuministi difensori del libero pensiero. Scalfari arricchito da una spolverata di amore per l’uomo, Bergoglio convinto che essendosi fatto simile a Scalfari, con questo incontro lo abbia avvicinato alla fede, soprattutto a quella fede fluttuante e antropocentrica partorita della nefasta assisi del Vaticano II.
D’altronde, in questo camminare insieme lungo le nuove strade della ricerca, più che i dotti ragionamenti dei due dialoganti vale il saggio proverbio antico: chi pratica lo zoppo impara a zoppicare!
Altro che “andate a predicare e ad ammaestrare”!

Ma veniamo alle singole risposte date da Bergoglio a Scalfari, non in un salotto privato, ma pubblicamente, sui giornali, e ufficialmente, su L’Osservatore Romano.

Alle risposte, Bergoglio premette una considerazione, nella quale precisa che Gesù parlava e agiva sulla base della sua “straordinaria autorità”, di cui ricorda il termine greco exousìa, che rimanderebbe, dice Bergoglio, “a ciò che proviene dall’essere che si è”.
Non “a ciò che proviene dell’essere”, che ha un significato definito e oggettivo, ma “a ciò che proviene dall’essere che si è”, che acquista un significato indefinito e specifico, tramutando l’autoritas oggettiva di principio in una sorta di autoritas personale e soggettiva.
Introduzione, quindi, che introduce essenzialmente uno dei princípi base del moderno dialogo che Bergoglio intende instaurare: ognuno ha la “sua” autorità, che gli viene dall’essere “ciò che lui è”, una parafrasi della Dignitatis Humanae del Vaticano II, che sostiene che l’uomo è libero di credere ciò che vuole, in forza della “sua dignità umana”.
E Bergoglio fa l’esempio di Gesù, il quale, secondo lui, non aveva autorità di per sé, nonostante sia Dio, ma in forza del “suo rapporto con Dio”… “il quale gli consegna questa autorità perché la spenda a favore degli uomini”.
Sembra una distinzione da poco, ma è invece una distinzione profonda, poiché distingue l’indistinguibile e distingue precisamente tra Dio e Gesù, ponendo in essere la possibilità che Gesù non fosse “l’autorità”, ma, al pari di un qualsiasi uomo, fosse “uno che ha autorità”, quella datagli occasionalmente da Dio.
Una distinzione siffatta non è casuale, ma è voluta per sottolineare l’importanza di quell’autorità di cui dicevamo prima, che si fonda su “ciò che si è”, perché è Dio che ha voluto che quello fossimo.
Concetto sottolineato da quel segnalare, di Bergoglio, “che Gesù si mostra, paradossalmente (!!!), come il Figlio di Dio!

E in cosa consisterebbe l’originalità della fede cristiana?
Nel fatto – dice Bergoglio – che Gesù “è per la comunicazione, non per l’esclusione”, per la comunicazione dell’amore, rivolto a tutti gli altri uomini, anche i nemici.
Comunicazione da cui deriva «quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana.»

Questa articolata risposta di Bergoglio permette di individuare due elementi importanti del suo pensiero.
Innanzi tutto l’errato convincimento che il “dare a Dio quel … e a Cesare quel…” significhi distinguere la sfera religiosa dalla sfera politica, come se la politica, intesa correttamente come conduzione della società, potesse distinguersi dalla religione senza scadere inevitabilmente nell’antireligione, come è accaduto da alcuni secoli con l’Illuminismo e come è stato sancito da cinquant’anni col Vaticano II.
Secondo poi, l’errato convincimento che la Chiesa sarebbe «chiamata a seminare l’amore e la misericordia di Dio, con lo sguardo puntato alla meta ultraterrena, mentre la società civile e politica avrebbe il compito di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana.»
Concezione, questa, che stabilisce una separazione netta tra la missione della Chiesa, relegata nell’ambito della misericordia e mirante al solo destino ultraterreno, e il compito della società civile, a cui sarebbe demandata l’incarnazione di una vita sempre più umana, con l’amministrazione della giustizia e della pace. Da cui appare chiaro che la Chiesa dovrebbe occuparsi solo delle anime in funzione futura, mentre la società civile e la politica dovrebbero occuparsi solo degli uomini viventi su questa terra. Come se la cura delle anime non passasse innanzi tutto per la cura degli uomini e come se la società civile, per avere veramente cura degli uomini, non dovesse conformare se stessa e le sue leggi in vista del destino stesso delle anime di questi uomini. Come cioè se la Chiesa dovesse solo preoccuparsi della misericordia e la società civile dovesse sovrintendere al benessere materiale dell’uomo come elemento fine a se stesso.

Come era inevitabile che accadesse, dalla dicotomia tra religione e società scaturisce una pari dicotomia tra l’uomo e se stesso, tra la cura per la sua anima e la cura per la sua esistenza su questa terra: una sorta di uomo immaginario con due componenti distinte.
A ben vedere, è proprio quello che accade oggi, secondo una logica illuminista e liberale, gestita e diffusa e affermata da tutti quegli ambienti anticattolici che, a partire dal “secolo dei lumi”, dopo la lunga gestazione condotta con l’Umanesimo,  il Rinascimento e il Protestantesimo, hanno forgiato questo mondo moderno dissociato e dissociante, dove la Chiesa dovrebbe limitarsi della cura “privata” delle anime… che ci credono… e lasciare che il resto della società viva coltivando ogni voglia e ogni vizio in nome della libertà di coscienza che merita ogni rispetto perché fondata sulla “dignità umana”… esattamente come “insegna” la nuova Chiesa conciliare con la Dichiarazione Dignitatis Humanae del Vaticano II.

Ed è questa moderna società anticattolica che viene richiamata velatamente in questa risposta di Bergoglio, un richiamo che è anche una condivisione.
Se questo è un papa!

Alla domanda posta da Scalfari circa la promessa fatta da Dio agli Ebrei, Bergoglio risponde chiamando in causa San Paolo: «mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.»

Risposta che richiederebbe una lunga messa a punto, ma è meglio rileggere quanto scrive San Paolo:
«Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza. Rendo infatti loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza; poiché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede. (Rm. 10, 1-4)»; … «Dice infatti la Scrittura: “Chiunque crede in lui non sarà deluso”. Poiché non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l'invocano. Infatti: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? (Rm. 10, 11-14)»; … «Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! … Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. O non sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? “Signore, hanno ucciso i tuoi profeti,
hanno rovesciato i tuoi altari
e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita.” Cosa gli risponde però la voce divina? “Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal.” Così anche al presente c'è un resto, conforme a un'elezione per grazia. E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti; gli altri sono stati induriti, come sta scritto: “Dio ha dato loro uno spirito di torpore,
 occhi per non vedere e orecchi per non sentire,
fino al giorno d'oggi.” (Rm. 11, 1-8)»; … «Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! (Rm. 11, 11.12)»; …  «Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell'olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati perché vi fossi innestato io! Bene; essi però sono stati tagliati a causa dell'infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi! Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te! Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti; bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso. Quanto a loro, se non persevereranno nell'infedeltà, saranno anch'essi innestati; Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo! Se tu infatti sei stato reciso dall'oleastro che eri secondo la tua natura e contro natura sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo! Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: “Da Sion uscirà il liberatore, 
egli toglierà le empietà da Giacobbe.
 Sarà questa la mia alleanza con loro 
quando distruggerò i loro peccati.” Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disobbedienza, così anch'essi ora sono diventati disobbedienti in vista della misericordia usata verso di voi, perché anch'essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia! (Rm. 11. 16-32)».

Questa lunga citazione serve a mettere in risalto la leggerezza con cui Bergoglio afferma cose non vere.
Come San Paolo ci chiediamo: lo fa per il suo indurimento o per la sua ignoranza? Non lo sappiamo, solo Dio lo sa, ma è certo che se Dio non viene meno alle sue promesse, gli Ebrei sono venuti meno alla fedeltà a Dio, esattamente il contrario di quanto afferma Bergoglio, perché i rami sono stati tagliati non per la loro fedeltà, ma per la loro disobbedienza. Così che è del tutto infondata l’affermazione di Bergoglio secondo cui dovremmo noi essere grati agli Ebrei.
Come potremmo essere grati, se non per la loro infedeltà, come dice San Paolo? Ed è per la loro infedeltà che perfino l’umanità intera dovrebbe essere loro grata. Perché, come dice san Paolo, è per la loro disobbedienza che noi abbiamo ottenuto misericordia e la grazia di Dio si è riversata su di noi.
Per la loro disobbedienza, non per la loro perseveranza nella fede nel Dio dell’Alleanza, come dice Bergoglio, stravolgendo l’insegnamento di San Paolo.
E allora, non siamo noi che, dalla supposta perseveranza nella fede degli Ebrei, saremmo richiamati al ritorno del Signore, come afferma stoltamente Bergoglio, ma esattamente il contrario: saranno gli Ebrei che saranno reinnestati, per la nostra fedeltà, quando riconosceranno che Cristo è il Signore di tutti e invocheranno il suo nome.

Piuttosto, è proprio il caso di ricordare a Bergoglio e a tutti i nuovi preti della nuova Chiesa che, persistendo negli errori generati dal Vaticano II con documenti come Nostra Aetate, non solo correranno il rischio di essere tagliati come un tempo lo furono gli Ebrei infedeli, ma addirittura, per questa loro attuale infedeltà, finiranno con l’ostacolare la fine dell’indurimento degli Ebrei, contrastando ancora i piani della Divina Provvidenza, esattamente come contravvengono al comando di Cristo rifiutandosi di convertire gli Ebrei disobbedienti.

E Bergoglio passa da un’infedeltà all’altra, e alla domanda se Dio perdona chi non crede e non cerca la fede, risponde con un’assurdità che sembra buttata lì per demolire l’insegnamento della Chiesa e di Cristo: «la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla  propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza».

Quindi, secondo Bergoglio, il peccato non starebbe nella disobbedienza a Dio, ma nell’andare contro alla propria coscienza… perdonaci, o Signore, perché non contro di Te abbiamo peccato, ma contro la nostra coscienza … ecco il nuovo catechismo di Bergoglio, che si traduce nell’assunto modernista e vaticanosecondista che non è la fede che ci fa ottenere la misericordia di Dio e ci salva, ma è la nostra coscienza. Ecco una nuova rivelazione che rende vana l’Incarnazione, la Resurrezione e la Redenzione, che rende vana la Chiesa, che rende vano il Papa stesso.
Se questo è un papa!

Ma non è finita qui, poiché la perseveranza di Bergoglio nell’errore è davvero sorprendente, se non fosse che si tratta semplicemente della sua accettazione di un errore indotto dalla suggestione del demonio che continua ad essere uno dei pochi che fa bene il suo mestiere… di corruttore di anime.

Esiste la verità assoluta? Chiede Scalfari.
No, risponde Bergoglio, perché «io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!».

La chiave di questo ragionamento capzioso sta nell’inciso: “secondo la fede cistiana”, così che colui che dovrebbe essere il Vicario della Verità si rivela essere un sostenitore della relatività della verità, un sostenitore della relatività di Gesù, un sostenitore della relatività di Dio.
Senza contare l’illogicità intrinseca di queste supposte concezioni moderne sull’esistenza delle verità relative, poiché anche uno studente di liceo sa che negare l’esistenza della verità assoluta in nome dell’assoluta esistenza delle verità relative, significa semplicemente affermare che la verità assoluta esiste. Tutta la differenza sta nel fatto che la verità assoluta è l’immutabile Iddio, mentre l’assoluta esistenza delle verità relative è una mera presunzione della mutabilità dell’uomo.

Ma Bergoglio, dopo avere affermato che ciascuno di noi «la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc.», si affretta a precisare: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”?».
Difficilmente si potrebbe essere più contradditorii di così.

È Gesù che dice: “Io sono la verità”, ma per Bergoglio questo significherebbe che ognuno di noi coglierebbe Gesù, la Verità, non per ciò che essa è, ma per come è ognuno di noi, per come è la storia di ognuno di noi, per come è la cultura di ognuno di noi, per come è la situazione in cui vive ognuno di noi, ecc.
Tale che se “ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva”… significa invece che è variabile e soggettiva.
Con l’aggiunta della similitudine col cammino e con la vita, con due cose cioè che sono quanto di più variabile possa esistere.
Se questo è un papa!

E non è eccessiva questa esclamazione, perché quando Bergoglio conclude la sua lettera scrivendo: «Le accolga [queste mie riflessioni] come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme», esprime tutta la sua sudditanza alla mentalità “tentativa e provvisoria” che è tipica dei tempi moderni che rifiutano la verità; sudditanza che è l’unica che giustifica l’invito a “fare un tratto di strada insieme
Quale? … Come? … Perché?
Risposte che si ritrovano “indicate” nel lavoro svolto su questo steso sito dal valente e attento amico L. P.: Inchini reciproci tra Papa Bergoglio ed Eugenio Scalfari.

   




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