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LA FILOSOFIA POLITICA ARISTOTELICO/TOMISTICA di Don Curzio Nitoglia Introduzione
Oggi si tende a confondere “politica” (1) con “partitica” o “parlamentarismo”. Per confutare questo pre-giudizio esponiamo quanto la sana filosofia (ARISTOTELE (2) e S. TOMMASO D’AQUINO(3)) e il DIRITTO PUBBLICO ECCLESIASTICO (4) hanno insegnato sulla natura della “politica” (5). Per non avvelenarsi in un pantano putrefatto, occorre risalire alle fonti pure e zampillanti, che - in questo caso - sono la retta ragione illuminata dalla Rivelazione. La filosofia perenne (6) e la Parola di Dio sono sempre attuali, pur se antiche, ma non vecchie o sorpassate. La filosofia perenne è la fonte pura cui possiamo abbeverarci senza essere avvelenati dagli errori della modernità e post-modernità filosofiche, i quali hanno corrotto la filosofia morale politica (ossia, la virtù di prudenza applicata alla Società civile) in partitica o parlamentarismo, ossia il vizio della “clepto-crazia” degli “onorevoli” a detrimento del bene comune. Le nostre fonti o radici filosofico-politiche sono quelle dei Padri ecclesiastici (S. AGOSTINO, S. GREGORIO I, S. BERNARDO DI CHIARAVALLE), dei Canonisti (GREGORIO VII, INNOCENZO III, BONIFACIO VIII), dei Dottori scolastici (S. TOMMASO, S. BELLARMINO, SUAREZ, MARIANA) - tanto per citare i più rappresentativi - e del Magistero ecclesiastico (da S. GELASIO I a PIO XII). Purtroppo, le nostre vere fonti e radici non le conosciamo più, al massimo l’insegnamento “politicamente corretto” ci fa risalire alla Rivoluzione francese, a MACHIAVELLI, al Luteranesimo, al Rinascimento e all’Umanesimo. Ma, questi sono esattamente i rivoli inquinati che ci hanno avvelenato. Purtroppo, il catto-liberalismo moderno e il modernismo-democristiano odierno ci presentano un’immagine deformata della ‘Dottrina politica cattolico-romana’. In queste poche pagine cercheremo di darne una breve prospettiva. Non si può affrontare il futuro senza conoscere il proprio passato. “Diventa ciò che sei” è un assioma più attuale che mai. Dobbiamo tornare alla ‘fonte pura’, come “nani sulle spalle di giganti”. Altrimenti ci attende la catastrofe. L’oggi discende dallo ieri e il domani è il frutto del passato. L’avvenire deve poggiare sulle fondamenta presenti e anteriori e non può reggersi sul nulla. “La Civiltà cristiana è esistita; non occorre inventarla ma bisogna instaurarla e continuamente restaurarla contro gli assalti dell’utopia malsana” (S. PIO X, Notre charge apostolique, 25 agosto 1910). La lezione dataci dalla sana filosofia circa i rapporti tra potere temporale e spirituale può aprirci le porte di un futuro meno disumano (la perfezione totale non è di questo mondo) di quanto stiamo vivendo e subendo oggi. La via che dobbiamo prendere - tornando alle origini, guardando al futuro e vivendo nel momento presente - è ardua ma non impossibile, anzi è ancora attuale e possibile, proprio perché perenne. Bisogna prima conoscerla e poi metterla in pratica (“nihil volitum nisi praecognitum”) in se stessi, nella propria famiglia e nell’ambiente di lavoro che ci circonda. L’uomo deve vivere su tre dimensioni: con i piedi ‘per terra’, con la mente e il cuore ‘in Cielo’ e con l’azione ‘a fianco’ dei nostri simili. “La virtù di prudenza per rapporto
al bene comune si chiama politica” (7)
Per S. TOMMASO D’AQUINO la politica o ‘morale sociale’ è la scienza di ciò che l’uomo, come animale socievole (8), deve fare, orientandosi verso un determinato fine (9). Il soggetto della filosofia morale è l’operazione umana ordinata a un fine, vale a dire l’uomo in quanto agisce volontariamente per un fine e specificatamente al ‘fine prossimo temporale’ (benessere comune materiale) subordinato al ‘Fine ultimo spirituale’ (Dio). Secondo l’AQUINATE la politica è una parte della filosofia morale e precisamente la parte “sociale”. Oggetto della filosofia morale è l’attività dell’uomo, vivente in Società con altri uomini, ordinata a un fine, in un universo tutto finalizzato. La filosofia politica è una scienza pratica, che dà i princìpi (sapere/speculare) per agire, non al singolo individuo, come l’etica generale, ma al cittadino che vive in una Società e che deve operare da uomo sociale. In breve, essa è riflessione razionale, seguita da azione concreta, sulla e nella vita sociale. La morale sociale o politica (agire) si fonda sulla metafisica (essere), che ci fa conoscere: a) La vera natura dell’uomo, creatura
immortale, e quindi il Fine ultimo al quale è destinato, che
è Dio (10), per rapporto al quale gli
atti umani sono moralmente buoni o cattivi, secondo che vi conducano o
no;
b) L’esistenza di un Dio personale e trascendente il mondo; maestro, legislatore e giudice dell’umanità; autore della legge morale, naturale e rivelata, oggettiva e obbligatoria per tutti. Da ARISTOTELE (11) in poi si parla di politica come di una scienza architettonica, che regge, coordina e dirige tutte le altre scienze pratiche, quali il diritto, l’economia, la medicina, l’edilizia, ecc., che essa applica per regolamentare l’effettiva convivenza della comunità (12). La filosofia pratica aristotelica (13) riguarda la condotta dell’uomo e il fine che esso può raggiungere mediante la sua condotta, sia individualmente (etica o morale individuale (14)) sia socialmente (politica e economia) (15). La morale viene chiamata dallo Stagirita anche “filosofia delle cose o dell’agire dell’uomo” (16) e poi suddivide la morale in etica individuale (morale), politica (etica sociale) ed economia (etica familiare). Dunque secondo lo Stagirita “la felicità della Città dipende dalla virtù, ma la virtù vive in ciascun cittadino, e perciò la Città può diventare ed essere felice nella misura in cui diventi e sia virtuoso ciascun cittadino” (17). Aristotele s’avvicina, e di molto, alla concezione della regalità sociale di Dio e della sua Legge già in questo mondo, mediante la sana vita politica. La filosofia pratica aristotelica (18) riguarda la condotta dell’uomo e il fine che esso può raggiungere mediante la sua condotta, sia individualmente (etica o morale individuale (19)) sia socialmente (politica e economia (20)). La morale viene chiamata dallo Stagirita anche “filosofia delle cose o dell’agire dell’uomo” (21), che poi suddivide la morale in etica individuale (morale), politica (etica sociale) ed economia (etica familiare). Dunque, secondo lo Stagirita “la felicità della Città dipende dalla virtù, ma la virtù vive in ciascun cittadino, e perciò la Città può diventare ed essere felice nella misura in cui diventi e sia virtuoso ciascun cittadino” (22). Aristotele s’avvicina, e di molto, alla concezione della regalità sociale di Dio e della sua Legge già in questo mondo e mediante la sana vita politica. Nell’Etica a Nicomaco (23) Aristotele affronta il problema del fine dell’uomo e risponde che è la felicità. Ma, in cosa consiste la vera felicità? Essa non consiste nei piaceri dei sensi, che rendono l’uomo simile alle bestie (24). Non consiste neppure nell’onore poiché “esso è qualcosa d’esterno e non intrinseco all’uomo, mentre il bene o la felicità è qualcosa d’intimamente proprio e inalienabile” (25). Inoltre, l’onore consiste nel riconoscimento pubblico della bontà interna d’una persona. Quindi, l’onestà dell’uomo è più nobile dell’onore. Infine, non consiste soprattutto nell’ammassare ricchezze. Infatti, l’avarizia o crematistica/finanziaria (arte di arricchirsi sempre di più come fine della vita umana) non ha neppure le apparenze di bene o di felicità che possono sembrar avere la ricerca dei piaceri e degli onori. Aristotele scrive: “Piaceri e onori son ricercati in se stessi, invece le ricchezze no. Quindi, la vita spesa ad ammassare ricchezze è contro-natura; è la più assurda, la più inautentica, perché consumata a ricercare cose che valgono come mezzi utili in funzione di uno scopo e non come fini”. Aristotele divide i beni in cui consiste la felicità in 1°) esterni, che non possono far conseguire la beatitudine intrinseca all’uomo e tra questi pone le ricchezze; in 2°) interni del corpo, che essendo la parte meno nobile dell’essere umano non può essere quella che gli fa ottenere il fine ultimo o la felicità e tra questi pone i piaceri, che sono meno contro-natura delle ricchezze; in 3°) interni spirituali, che sono “beni nel senso più proprio e nel grado più alto” (26). Il bene attuabile dall’uomo, senza l’ordine soprannaturale sconosciuto ad Aristotele, non può essere l’Idea del Bene trascendente, poiché trascende, per definizione, le capacità umane (27). Quindi, l’uomo deve tendere a possedere un bene proporzionato alle sue capacità. Ora, come l’occhio è finalizzato alla vista, l’orecchio all’udito, così l’uomo che è un animale razionale è finalizzato alla conoscenza del vero (28). Né si dimentichi che per Socrate, Platone e Aristotele la vera e suprema conoscenza è la contemplazione, che porta non solo alla pura conoscenza ma alla vita virtuosa. Politìa e Democrazia o Demagogia
Secondo lo Stagirita, siccome, in psicologia metafisica (29) l’anima e la ragione comandano sul corpo e sui sensi, così in politica devono governare gli uomini in cui predominano l’anima e l’intelletto, mentre quelli che vivono soprattutto secondo il corpo e i sensi o le passioni debbono essere governati (30). Per essere cittadino in una polis non basta abitare in un villaggio, ma occorre partecipare al suo governo mediante il diritto e le leggi (31), è per questo che la democrazia (32) o governo di tutti gli uomini in vista del benessere temporale della massa è una degenerazione della politìa, che è il governo d’una moltitudine capace di poter servire lo Stato nell’esercito e nella magistratura; ossia, la maggior parte di coloro che partecipano alla vita pubblica mediante le leggi e il diritto (magistrati e guerrieri) per il bene comune della Società e non di una sola classe (massa/popolo). Perciò, la politìa per Aristotele non è il governo di tutti o della massa informe, ma del popolo inteso come la maggior parte dei cittadini (“i più/la moltitudine”), ossia la sanior pars civitatis. La democrazia è per Aristotele, di per se stessa, una degenerazione della politìa (33), poiché non mira all’interesse comune, ma della massa e, quindi, è vera e propria tirannide della massa o demagogia (dal greco demagogòs capo-popolo, agogòs-dèmos, che si accattiva il favore della massa con promesse di beni difficilmente realizzabili), che rende ingovernabile la polis (34). “L’errore in cui cade la democrazia è quello, di ritenere che, poiché tutti sono uguali nella libertà, tutti possano e debbano essere uguali anche in tutto il resto” (35). Quanto alle classi che compongono la polis Aristotele le divide così: 1°) i coltivatori della terra e gli allevatori del bestiame, che forniscono il cibo alla città; 2°) gli artigiani, che forniscono strumenti e manufatti ai cittadini; 3°) i commercianti, che producono ricchezza importando ciò che manca alla città; 4°) la polizia che difende l’ordine interno alla città dai delinquenti e i guerrieri, che difendono la città dai nemici esterni; 5°) i giuristi, che stabiliscono per legge ciò che è giusto e ciò che è ingiusto per i cittadini, ossia i diritti e i doveri; 6°a) i filosofi che contemplano la verità e 6°b) i sacerdoti, che rendono il culto alla Divinità (36). Pur non avendo la concezione di un ordine soprannaturale e d’una Chiesa divinamente fondata, Aristotele concepisce il benessere comune temporale dello Stato, subordinatamente a quello spirituale o intellettualmente e praticamente virtuoso. Infatti, nell’Etica a Nicomaco e a Eudemo aveva insegnato che i beni sono di due tipi: esterni o materiali (del corpo) e interni o razionali (dell’anima). I primi, sono semplici mezzi, ordinati ai secondi come al loro fine e “ciò vale, sia per l’individuo, sia per lo Stato. Quindi, anche lo Stato deve ricercare il bene comune temporale in maniera limitata o ordinata, cioè in funzione dei beni spirituali, nei quali soltanto consiste la felicità individuale e sociale. Di modo che la polis virtuosa è felice e fiorente. Non può essere felice chi non vive virtuosamente e secondo ragione, sia individuo sia Stato. Quindi come il senno e la virtù rendono giusto, saggio e assennato il privato cittadino, così è per la città” (37). Così possiamo concludere che la filosofia politica consiste nel proporre una scienza della vita morale sociale, vale a dire: indicare quali sono i princìpi speculativi, che guidano la vita morale umana e sociale. L’etica è normativa, ossia dà delle regole che fanno vivere virtuosamente il cittadino in quanto tale, e tali norme vanno dedotte dalla metafisica (“agere sequitur esse”). La buona e vera politica (arte di viver bene - materialmente e virtuosamente - in Società, di modo da cogliere il fine di essa: il benessere comune temporale subordinatamente a quello spirituale) è giustificabile metafisicamente, come l’azione deriva dall’essere e il modo di agire da quello di essere (“modus agendi sequitur modum essendi”). Quali sono i fondamenti metafisici dell’etica? Ossia su quale tipo di metafisica occorre fondare l’etica individuale e sociale? La risposta è: la filosofia aristotelico/tomistica dell’essere, la quale ci insegna che “omne agens agit propter finem” (c’è un fine o una ragione per cui ogni ente agisce). E che ogni ente deve attuare, con la sua azione, l’idea che Dio s’è fatto di lui creandolo, vale a dire deve corrispondere al piano divino, sotto pena di mancare il suo fine: “Diventa ciò che sei”. Ma, qual è il fine della natura umana? Cosa dev’essere l’uomo? Ebbene, il fine verso il quale tutti tendono è la felicità, ciò vale anche per chi s’impicca. Tuttavia, ognuno la ripone in un oggetto diverso, chi nelle ricchezze, chi nei piaceri, chi nell’onore del mondo, chi in Dio. Allora, bisogna scorgere qual è il vero fine che solo può dare la piena felicità all’uomo, ossia il fine reale e non quello apparente. Esso è la qualità o il valore per cui la tal cosa, considerata nella sua natura, è oggettivamente buona e rende realmente felici. Per SAN TOMMASO D’AQUINO, che applica il principio di finalità alla natura umana, il fine ultimo dell’uomo è la conoscenza della Verità Somma e l’amore del Sommo Bene (Dio), che porta con sé la gioia o la felicità; perciò quando un uomo ha raggiunto il suo Fine ultimo, ha colto la massima felicità o la sua salvezza, che egli consegue allorché raggiunge il Fine che gli è stato assegnato da Dio, ossia l’idea o il piano stesso di Dio, che ha presieduto alla sua creazione. Il Fine ultimo di un ente è ciò cui tende, in ultimo luogo, la sua natura: è il termine ultimo del suo divenire. I beni creati di quaggiù: ricchezze, onori, scienza, non possono essere il Fine ultimo reale dell’uomo, poiché non possono fornirgli la felicità completa e piena; senza dubbio sono dei beni, ma spesso apparenti e non reali, sono dei beni limitati e passeggeri o mezzi, il cui possesso è sempre turbato dal timore di perderli e che spesso si escludono l’un l’altro. Dio è l’unico oggetto beatificante, il cui possesso ci rende veramente felici, poiché solo Lui realizza il Bene Sommo concepito dall’intelligenza e proposto da essa alla volontà. Perciò, il criterio della moralità degli atti umani, ossia se essi siano buoni o cattivi eticamente, è la loro conformità o difformità al Fine e alla Legge naturale, che è la via la quale ci porta al Fine. Esistendo un Fine dell’uomo in quanto tale (la conoscenza di Dio che dà la beatitudine), vige una regola oggettiva della moralità degli atti umani. Quindi, per giustificare razionalmente la moralità e per agire moralmente è necessario conoscere con certezza, con la ragione naturale, l’esistenza di Dio Fine ultimo, che è l’ultimo grado del cammino metafisico. Chi nega l’esistenza di Dio non è scusabile, poiché non vuole risalire dall’effetto alla causa, mediante un semplice ragionamento; ciò non significa che ogni azione dell’incredulo sia un peccato, vuol dire solo che chi si sforza di negare l’esistenza di Dio e vuol giustificare il dovere d’agire bene a prescindere da Dio, erra e la sua “morale” è a-morale (38). MACHIAVELLI, il padre della ‘politica moderna’, insegnava: “Il mio fine giustifica i mezzi”. Invece S. PAOLO rivela l’esatto contrario: “Non facciamo il male, per ottenere un bene”. La tendenza a separare l’etica dalla politica, si fonda sulla pretesa di fare della prima una scienza privata e della seconda una scienza pubblica. Invece, la filosofia perenne insegna a subordinare la politica all’etica, cioè il viver bene in comune (etica sociale) deve avere come princìpi quegli stessi che regolano il ben vivere del singolo (etica individuale), la Legge naturale o il Decalogo applicato alla Società civile. Credere in Dio, non offenderLo e onorarLo pubblicamente (i primi ‘Tre Comandamenti’); rispettare l’Autorità, non uccidere l’innocente, usare la potenza generativa secondo natura, non rubare, non nuocere con le parole al prossimo (gli ultimi ‘Sette Comandamenti’). Il Fine ultimo dell’uomo non è la polis, la civitas terrena ma Dio e la Città celeste (S. AGOSTINO, De civitate Dei). Con SAN TOMMASO D’AQUINO abbiamo una vera e propria filosofia politica allo stato perfetto, essa ha un valore subordinato e relativo al Bene assoluto che è Dio e il Regno dei Cieli. NOTE 1 - R. GATTI, Filosofia politica, Brescia, La Scuola, 2007; R. ESPOSITO – C. GALLI (diretta da), Enciclopedia del pensiero filosofico, Bari, Laterza, 2000; R. SPIAZZI, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, Bologna, ESD, 1992. 2 - Opere, Bari, Laterza, 1973-1984. 3 - Opera Omnia, Torino, Marietti, 1949-1953. 4 - G. BALLADORE PALMIERI - G. VISMARA, Acta Pontificia Juris Gentium usque ad annum MCCCIV, Milano, Vita e Pensiero, 1946; J. B. LO GRASSO, Ecclesia et Status. Fontes selecti. Historia Juris Publici Ecclesiastici, Roma, Gregoriana, 1952. 5 - J. MIENVIELLE, La concezione cattolica della politica, Vibo Valenza, Sette Colori, 2011. 6 - Per “filosofia perenne” s’intende la ‘metafisica classica greca’ (SOCRATE, PLATONE e ARISTOTELE), la ‘filosofia morale’ e il ‘diritto romano’ (CICERONE e SENECA), perfezionate dalla ‘patristica’ (da S. AGOSTINO a S. BERNARDO DI CHIARAVALLE), dalla ‘metafisica dell’essere’ scolastica e particolarmente tomistica (da S. TOMMASO D’AQUINO a CORNELIO FABRO) e dal ‘Diritto Pubblico Ecclesiastico’ (da papa GELASIO I a PIO XII). Onde le radici dell’Europa sono greco-romane e cristiane ossia cattolico-romane. 7- S. Th., II-II, q. 47, a. 10. 8 - De regimine principum, lib. I, cap. 1. 9 - S. TOMMASO, In Ethicorum, lib. I, lect. 1, n. 3. 10 - Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 25. 11 - Etica Nicomachea, I, 1106b 36; ivi, I, 1099a 6; ivi, II, 1107a 22-23; ivi, X, 1174a 2-8. 12 - S. TOMMASO, Commento alla Politica di Aristotele, Bologna, ESD, 1999, pp. 38-39. 13 - R. LAURENTI, Genesi e formazione della “Politica” di Aristotele, Padova, 1955; ID., Studi sull’«Economico» attribuito ad Aristotele, Milano, 1968. 14 - Etica Nicomachea, Etica Eudemia e Grande Etica, che è un riassunto delle prime due. 15 - Politica e Trattato di Economia. 16 - Etica Nicomachea, X, 10, 1181 b 15. 17 - G. REALE, Introduzione a Aristotele, cit., p. 129. 18 - R. LAURENTIN, Genesi e formazione della “Politica” di Aristotele, Padova, 1955; ID., Studi sull’«Economico» attribuito ad Aristotele, Milano, 1968. 19 - Etica Nicomachea, Etica Eudemia e Grande Etica, che è un riassunto delle prime due. 20 - Politica e Trattato di Economia. 21 - Etica Nicomachea, X, 10, 1181 b 15. 22 - G. REALE, Introduzione ad Aristotele, cit., p. 129. 23 - EN, I, 1, 1094 a 1-3. 24 - EN, I, 5, 1095 b 19 ss. 25 - EN, I, 5, 1095 b 24-26. 26 - EN, I, 8, 1098 b 12-15. 27 - EN, I, 6, 1096 b 32-35. 28 - EN, I, 7, 1097 b 22-1098 a 20. 29 - L’Anima, III, 4, 429 e 10-b 10. 30 - Politica, I, 5, 1254 b 16-26; III, 5, 1278 a 3. 31 - Politica, III, 1. 32 - Per Platone la democrazia è “il governo del disordine, della licenza e della lotta di classe” (Repubblica, VIII, 555 b-558 c). Quindi, “l’uomo democratico è l’uomo dell’inconseguenza e dell’immoralità” (ivi, 558 c-562 a), le vicende politiche attuali gli danno ampiamente ragione. Cfr. I. GOBRY, Vocabolario greco della filosofia, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 49. 33 - Politica, III, 6, 1278 b 8-10; III, 7, 1279 a 28-31. 34 - Politica, III, 11-13; IV, 11, 1295 b 25-38. 35 - G. REALE, Introduzione ad Aristotele, cit., p. 124. 36 - Politica, VIII, 5-6; VIII, 7, 1327 b 23-33; VIII, 8 ss.; VIII, 9, 1329 a 14-17. 37 - Politica, VIII, 1, 1323 b 73. 38 - S. Th., I-II, q. 85, a. 5; ivi, q. 64, a. 1; ivi, q. 2, a. 6; ivi, q. 19, a. 7; ivi, q. 107, a. 1; Summa contra Gentiles, lib. IV, cap. 19; ivi, cap. 95; In II Ethic., c. 6. |