POPOLO E MASSA



di Don Curzio Nitoglia

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Popolo massa



“È necessario precisare che, con il termine di comunità o di popolo, bisogna intendere qualcosa di affatto diverso dalla multitudo; ossia, la massa indifferenziata dei sudditi.
Per S. TOMMASO [...] il potere non risiede in questa massa ma, in quel tutto ordinato che è costituito dalla comunità: un tutto, le cui parti costitutive non hanno lo stesso peso. [...] Il popolo, in senso tomistico del termine, non esiste prima che il governo lo abbia unificato e gli abbia dato la forma o l’anima” (1).

Inoltre, l’autorità, la cui missione è la salus populi suprema lex, ha dei limiti. Il ruolo del potere e la sua ragion d’essere sono quella di spingere ognuno verso il bene comune. “Se l’autorità fallisce questa missione perde non soltanto il diritto di comandare, ma la ragion d’essere” (2).



Perdita della legittimità

La famiglia, per esempio, che è una Società imperfetta, suppone il corpo dell’uomo, orientato alla generazione, fine primario del matrimonio, ma essa deve essere seguita dall’educazione che sorpassa la vita animale e corporea in quanto riguarda quella razionale e spirituale. Lo stesso si può dire della Società civile o lo Stato.

SAN TOMMASO D’AQUINO spiega che “agli animali la natura ha dato i peli, i denti, le corna, la velocità per fuggire. L’uomo, invece, dalla natura non è stato formato con nessuno di questi mezzi già pronti; ma al posto di quelli gli è stata data la ragione, per mezzo della quale può procurarsi tutte queste difese. Ma, per far ciò non basta il lavoro di un solo uomo, perché il singolo non basta a sé per vivere. Perciò, è naturale all’uomo vivere in Società […] affinché uno aiuti l’altro, e diversi uomini siano occupati nella ricerca di cognizioni diverse”

La Società civile è l’unione morale e stabile di più famiglie e più villaggi, che tendono al benessere comune temporale subordinato a quello spirituale. Essa nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire il Fine prossimo e ultimo, che non potrebbe conseguire se vivesse isolato. Per cogliere il fine occorre una strada che conduca a esso: questa strada è il diritto naturale, che si può definire come il complesso di regole che si devono rispettare perché un uomo sia e resti autenticamente uomo, ossia “animale razionale” (ARISTOTELE) e non “bestia istintiva” (NIETZSCHE).

Dunque, un diritto naturalcome regola suprema delle leggi civili, significa il dovere di subordinare ogni attività umana alla finalità morale, ossia al Fine dell’uomo. Perciò, se una legge umana non contrasta con la legge morale o il diritto naturale, osservarla è doveroso moralmente. Mentre la legge, se è contraria al diritto naturale e, dunque, ingiusta, non ha forza di legge e non deve essere obbedita (per es. aborto, divorzio, eutanasia, bruciare l’incenso agli idoli); invece, se si esige dall’individuo un sacrificio non necessario al bene comune, come quando s’impongono ai sudditi, leggi o imposte troppo onerose e che non giovano al bene pubblico, esse non obbligano in coscienza, ma, per evitare uno scandalo o una sedizione, si possono ottemperare.


La scienza politica secondo la retta ragione

Nel Medioevo si riteneva che l’abuso di potere fosse il caso principale di realizzazione di una tirannia. “Gli scolastici, da S. TOMMASO a SUAREZ, non esitano a dire che la Nazione ha il diritto di destituire, di deporre, di cacciare il tiranno. Poiché ha perso il diritto di regnare ed è diventato illegittimo. Ma, bisogna che l’abuso sia grave, permanente e universale [...]. Secondo gli scolastici, il potere del Principe decaduto ritorna al popolo o alla Nazione che glielo aveva affidato” (3).


La resistenza al tiranno

Nell’XI sec., MANEGOLD DA LAUTENBACH (4), equiparava il principe-tiranno “a un guardiano di porci; se il pastore, invece di far pascere i porci, li ruba, li uccide o li smarrisce, è giusto rifiutargli di pagargli il salario e scacciarlo ignominiosamente” (5).

S. TOMMASO nel De regimine principum insegna che “se appartiene di diritto alla moltitudine di darsi un capo, essa può, senza ingiustizia condannare il Principe a disparire, o può mettere freno al suo potere se ne usa tirannicamente” (6) .
 
Tuttavia, per l’ANGELICO «anche se alcuni insegnano essere lecita l’uccisione del tiranno per mano di un qualsiasi privato [...] è pericolosissimo permettere l’uccisione privata del tiranno, perché i malvagi si riterrebbero autorizzati a uccidere i re non-tiranni, severi difensori della giustizia [...]; contro i tiranni eccessivi e insopportabili si può agire solo in virtù di una pubblica autorità» (7).

La stessa dottrina è insegnata da BAÑEZ (8), BILLUART (9), BELLARMINO (10), SUAREZ (11). La tradizione scolastica è quasi unanime nel riconoscere il diritto di resistenza, che - in casi estremi - può giungere alla rivolta armata.

Invece, JUAN DE MARIANA opina che il tirannicidio sia lecito anche privata auctoritate; infatti, non è da condannarsi colui, che eseguendo la comune volontà, procura di sopprimere il tiranno  (12).
Tuttavia, per il MARIANA, non significa che basti l’iniziativa semplicemente privata, occorre prima una condanna pubblica del tiranno e solo poi, come extrema ratio l’esecuzione può essere privata, quando non si possa raggiungere l’autorità superiore, ma fondandosi sulla condanna pubblica, senza un mandato esplicito del potere pubblico e solo con mandato interpretativo e presunto si esegue il tirannicidio (13).

Il problema del tirannicidio è stato trattato sino ai nostri giorni. Nel XIX sec. da Leone XIII, nel XX sec. da Pio XI e nel sec. XXI da vari teologi o storici qualificati.
LEONE XIII, nell’Enciclica Diuturnum illud del 1881, insegna che quando l’ordine del principe è contrario al diritto naturale e divino, “obbedire sarebbe criminale”.

PIO XI, nell’Enciclica Firmissimam constantiam del 1937, ricorda all’Episcopato messicano che se i poteri costituiti ″attaccano apertamente la giustizia […], non si vede nessuna ragione di rimproverare i cittadini, che si uniscono per la loro difesa e a salvaguardia della nazione”; ossia, è lecita una resistenza attiva che usi mezzi leciti, escluso il clero e le associazioni direttamente mandatarie del clero, quali l’Azione Cattolica.

Il padre gesuita ANDREA ODDONE ha scritto nel 1944-45 che la resistenza passiva è sempre lecita nei riguardi di una legge ingiusta. La resistenza attiva legale, in casi in cui la religione è messa in pericolo, è lecita, anzi, occorre “deplorare  - come insegna Leone XIII in Sapientiae christianae del 1890 - l’attitudine di coloro, che rifiutano di resistere per non irritare gli avversari”.

La resistenza attiva armata è legittima:
a)    Se, la tirannia è costante;
b)    Se, è manifesta oppure giudicata tale dalla “sanior pars”  della società;
c)    Se, le probabilità di successo sono numerose;
d)    Se, la situazione successiva non è peggiore dell’anteriore.
(Cfr. A. ODDONE, “La resistenza alle leggi ingiuste secondo la dottrina cattolica” in “La Civiltà Cattolica”, n° 95, 1944, pp. 329-336; Ibid., n° 96, 1945, pp. 81-89).


La resistenza passiva

Essa consiste nella non esecuzione della legge ingiusta, fino a che non vi si è costretti con la forza; ma nel caso in cui la legge ingiusta comandi qualcosa di peccaminoso, “un atto intrinsecamente cattivo in sé, la resistenza non solo è permessa, ma è sempre obbligatoria; non si possono eseguire ordini criminali” (14).


La resistenza attiva

si suddivide in :

a) Resistenza attiva non violenta

Essa consiste in un’opposizione positiva alla legge ingiusta, compiuta sul terreno delle leggi o con mezzi legali, per es. pubbliche riunioni, proteste, petizioni ricorso ai tribunali ecc... «occorre non rifugiarsi nell’indifferenza e nell’inerzia di coloro che non sanno o non vogliono organizzarsi e lottare per una causa nobile e giusta, per timore e viltà di affrontare i sacrifici e i maggiori doveri che questa lotta porta con sé. [...] “A chi cadrebbe in animo di tacciare i cristiani dei primi secoli di nemici dell’Impero Romano, solo perché non si curvavano dinanzi alle prescrizioni idolatriche, ma si sforzavano di ottenerne l’abolizione?”» (LEONE XIII, Lettera Notre Consolation ai cardinali francesi, 3 maggio 1892)” (15).


b) Resistenza attiva violenta o a mano armata

“Quando la legge ingiusta cerca d’imporsi con la violenza e con la forza, è lecito ai cittadini organizzarsi e armarsi, opporre la forza alla forza” (16).

Padre PIZZORNI continua: “Il diritto di resistenza è generalmente ammesso, e, da S. TOMMASO in poi, salvo rare eccezioni, è stato ammesso anche da tutti i teologi come ultima ratio, come ultimo ed estremo rimedio, quando tutti gli altri mezzi previsti non sono possibili o si sono dimostrati insufficienti” (17).

Tuttavia, occorre specificare che, secondo l’Angelico, le condizioni richieste per la liceità della resistenza attiva a mano armata, sono quattro:
1°) La tirannide deve essere costante e abituale, tale da rendersi intollerabile, e ciò vale sia per il tiranno di usurpazione che per quello di governo (De regimine principum I, 7).
2°) La gravità della situazione deve essere manifesta, non solo a una qualsiasi persona privata, ma alla sanior pars populi. Qualora non vi sia un superiore del re, come l’imperatore, o il Papa che deponeva i tiranni, secondo S. TOMMASO è la vox populi o la multitudo, ossia la comunità, che devono farsi sentire, guidati dal consiglio degli homines virtuosi. Così “quelle persone non agirebbero più come persone private, ma come persone autorizzate dal popolo, la qual cosa è richiesta perché il punire è un atto di giurisdizione che richiede un superiore” (18).
3°) Ci deve essere una fondata speranza di riuscita: altrimenti non vi sarebbe ragion sufficiente d’insorgere, per il pericolo d’inasprire la tirannide. La resistenza armata deve perciò essere ben organizzata, ben concordata e ben condotta.
4°) La caduta del tiranno non deve creare una situazione peggiore di quella in cui si stava prima; “Il cristiano non deve sempre tirarsi indietro, far la parte del moderato, del perennemente condannato alla perplessità, all’astensione e all’impotenza, lasciando così praticamente le fila del movimento della storia in mano a coloro che sono meno dotati di scrupoli; il cristiano, quindi, non deve rifiutare di usare la forza giusta, quando sia necessario in modo assoluto” (19).


Tolleranza non libertà

La tolleranza è fondata sul rispetto per il bene comune della Società. Ci si astiene dall’opposizione alla legge ingiusta, perché si prevede che. essa danneggerebbe più severamente il bene comune che non la tolleranza della legge ingiusta.
In breve, la si tollera, solo per non peggiorare la situazione; come quando si ha mal di denti, ma vi è un’infezione, si è costretti a tollerare il dente malato, sino a che l’infezione non sia stata debellata da antibiotici, e solo allora si potrà estrarre il dente cariato.




Popolo in processione





NOTE

1 - J. J. CHEVALIER, Storia del pensiero politico, vol. I, Antichità e Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1989, pag. 293, nota 10. lib. I, cap. 1.
2 - D. Th. C., vol. 29, col. 1952.
3 - D. Th. C., vol. 29. col. 1962.
4 - Cfr. O. CAPITANI, Papato e Impero nei secoli XI e XII, in «Storia delle idee politiche economico e sociali», diretto da L. FIRPO, vol. 2, tomo II, Il Medioevo, Utet, Torino, 1983, pagg. 141-165.
5 - Liber ad Gebehardum, cap. XXX.
6 - De regimine principum, Lib. I, cap. 6.
7- C. GIACON, La seconda scolastica. I grandi commentatori di S. Tommaso, Milano, Bocca, 1944, pag. 98.
8 - In IIam-IIae, q. 64, a. 3, concl. 1, Opera, Salamanca, 1584-1612.
9 - De jure et justitia, Liège, 1746-51, dissert. X, a.2, ad 3um.
10 - De concil. auctorit., Ingolstadt, 1586-1593, lib. II, cap. 19.
11 - Defensio fidei, lib. VI, cap IV, §15, Colonia, 1614.
12 - Cfr. De rege et de regis institutione, Toledo, 1599, lib. I, cap. VI, pag. 76.
13 - Cfr. C. GIACON, op. cit., pagg. 271-272.
14 - R. PIZZORNI, Diritto naturale e diritto positivo in S. Tommaso, cit., pag. 358.
15 - Ibidem, pag. 359.
16 - Ibidem, pag. 360.
17 - Ibidem, pag. 361.
18 - Ibidem, pag. 365.
19 - Ibidem, pag. 369.


















 
agosto 2024
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