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Eutanasia della libertà di Marcello Veneziani
Pedro Almodovar Viva
la muerte, gridavano in Spagna ai tempi della guerra civile. Viva la muerte è il
messaggio che manda lo spagnolo Pedro Almodovar dalla Mostra del Cinema
di Venezia per liberarci dal dolore di vivere, ma in un significato
assai diverso da quel grido. Dopo aver dichiarato morto Dio con le sue
religioni e preghiere, morta la natura col suo ordine e le sue leggi,
morta la famiglia con i suoi legami, morta la tradizione con la storia
e le comunità, il messaggio finale che resta è morire in
libertà, per autodecisione, anticipando Dio e la natura, il
destino e il decorso della vita.
Se non siamo autocreati, possiamo però esercitare la sovranità opposta, la decreazione, la libertà di eliminarci. Disponiamo solo del potere negativo sulla vita e lo esercitiamo fino alla morte. Da tempo i messaggi pubblici inviati dalle maggiori agenzie di riferimento della nostra epoca, tra i quali spiccano il cinema e la tv, ruotano intorno a quei temi e si raccolgono infine nell’elogio dell’eutanasia. Almodovar ha vinto il Leon d’Oro a Venezia col suo film dedicato all’eutanasia – ancora una volta, Morte a Venezia – ma non era un tema originale, è da alcuni anni un filone cospicuo nella narrativa cinematografica della nostra epoca, sempre con lo stesso esito. Non entro nel merito dell’eutanasia, capisco alcune sue ragioni, reputo ragionevole stabilire dei limiti all’accanimento terapeutico o al mantenimento in vita solo artificiale, di persone che non hanno più una vita cosciente e non hanno più possibilità di riprendersi. Capisco, condivido l’umana pietà di mettere fine alla sofferenza. No, non è di questo che voglio parlare. Ma del fatto che gli unici messaggi ideali e morali, civili e individuali che vengono diramati dalle messaggerie culturali dell’epoca nostra sono rivolti alla morte, al pensiero negativo, alla preferenza per il non essere rispetto all’essere. E l’unica sovranità riconosciuta è di tipo individuale e ancora negativo, come il potere di uscire dalla vita. Rovesciando il punto di osservazione, noto che l’eutanasia è l’unico messaggio dominante sul passaggio tra la vita e la morte. Non c’è più il mistero di Dio, la scommessa sulla fede, la contemplazione della morte, il destino dell’uomo, la sua memoria e le eredità che lascia a chi resta, ma solo la possibilità del singolo di tagliare il nodo gordiano, di recidere il cordone della vita, come si recidono i cordoni ombelicali per mettere la mondo i neonati. Questa recisione ha un significato inverso, come inverso è ormai il canone odierno. L’eutanasia è l’ultimo decisionismo dell’occidente-uccidente; una decisione-recisione volta solo a negare, a sottrarsi, in una via di fuga individuale. Autonomi nella dissoluzione, libertà come cupio dissolvi. Aleggia in questa ossessione dell’eutanasia il segno di una società stanca e sfiduciata, demotivata e ripiegata nella vita singola, isolata, popolata da vecchi, impauriti dall’incipiente soglia; che allestisce terapie, balsami e culture utili a giustificare il trapasso indolore e inodore, asettico, verso l’estinzione. Un nirvana per via sanitaria, un nichilismo clinico come sollievo dal dolore di esistere. Nei millenni passati furono attrezzati grandi cerimoniali per accompagnare la vita nel suo fatale distacco; riti, liturgie, pensieri, opere e missioni, lasciti, eredi e testamenti. Vedevo ieri sera splendidi tableau vivant a Castellabate nel corso del premio Pio Alferano, in cui venivano inscenate alcune grandi opere pittoriche a tema religioso, in prevalenza sulla morte di Gesù Cristo: colpiva vedere la morte come atto corale, corpi viventi intrecciati a corpi morenti, dolore consorte, compagnia dell’addio. La nostra è invece morte ospedaliera, in solitudine. Fino a pochi anni fa l’unica eutanasia riconosciuta era morire per un motivo che fosse più importante della nostra vita individuale: morire per testimoniare la fede, come facevano i martiri, morire per la Patria, come facevano gli eroi, morire per la Causa che trascende la vita dei singoli. Inconcepibile oggi; ma di queste scelte estreme vorrei sottolineare la convinzione che la morte individuale fosse meno importante rispetto a entità, principi, realtà comunitarie che sopravvivono al destino dei singoli. Offrivi la vita sapendo che la tua morte non coincideva col nulla, ma era la fine di una foglia, forse di un ramo, non dell’albero, con le sue radici e il suo tronco e le sue stagionali rinascite; la tua morte rientrava nel ciclo delle stagioni, in cui si rinnova la pianta. Nessun uomo di senno e di buon senso può rifugiarsi in quel paragone e limitarsi a rimpiangere quel mondo. Ma il fatto che oggi poniamo la questione solo a livello individuale e racchiudiamo la visione della morte solo nell’atto di andarcene, in libertà, quando lo vogliamo noi e non quando lo dice la sorte o la malattia, è il tema di cui dovremmo curarci, perché investe noi oggi, il nostro tempo, il nostro domani. Sconforta osservare che anche su questo tema non esiste alcuna divergenza di vedute nei racconti pubblici, non c’è un film o un’opera che dica una cosa diversa se non opposta a quella del mainstream mortifero. E stiamo parlando di una società che celebra la libertà sopra ogni cosa e ritiene anzi di essere superiore a tutte le epoche precedenti proprio per la sua raggiunta libertà. E invece non c’è possibilità di vedere e narrare diversamente le cose; non è possibile, esiste un muro invisibile, una cappa pervasiva che impedisce di articolare un pensiero differente e metterlo poi su strada. Se ci provi ti saltano a uno a uno gli addendi: non trovi chi si esponga a scrivere, a sceneggiare, a produrre l’opera, a realizzarla, a recitare, a distribuire, a comunicare, a riconoscere e premiare una cosa del genere. Strada facendo il progetto si azzoppa, nessuno vuol andare a sbattere contro il muro, andare allo sbaraglio. Eutanasia del dissenso. Noi occidentali viviamo in una società profondamente spaccata, con rari e confusi attraversamenti fra le due sponde; siamo divisi tra l’alto e il basso, tra oligarchie e popoli, tra comunitari e individualisti, fra tradizione e liberazione, e potrei a lungo continuare. Non immagino che si possa ritrovare l’unità, se non attraverso l’intolleranza, l’egemonia e la supremazia coatta di una parte sull’altra: vorrei invece che fosse possibile avere la possibilità di scegliere, che sia legittimo divergere e soprattutto che sia possibile esprimerlo pubblicamente. Ma se guardo la realtà, al momento, non vedo segnali e aperture. Chiedono la libertà dell’eutanasia ma io vedo l’eutanasia della libertà. |