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IL GIUDAISMO POSTCRISTIANO di
Don Curzio
Nitoglia
Introduzione
Giudaismo dell’Antico Testamento e Giudaismo postcristiano Eugenio Zolli (l’ex rabbino-capo di Roma convertitosi al cattolicesimo) scrive: “Il popolo ebraico, che era stato veicolo della Rivelazione, quando questa si presentò nella sua pienezza, con Cristo e gli Apostoli, la rigettò, almeno nel maggior numero dei suoi componenti, e si pose fuori della Chiesa […]. L’orientamento generale [del giudaismo, ndr], è divenuto anacronistico. Perché, mentre la Chiesa è tutta rivolta a Colui, che è già venuto a redimere e a salvare [Gesù Cristo, ndr]; l’ebraismo è proteso in un’attesa che non può essere che vana. L’ebraismo post-biblico […] si considera [ancora, ndr] popolo eletto e in rapporto d’alleanza con Dio” (1). Monsignor Francesco Spadafora spiega le cause del rigetto di Cristo e della Sua Chiesa, scrivendo che “dopo l’eroica insurrezione guidata dai Maccabei contro Antioco Epifane (175 a. C.), cominciarono le vicende abituali d’una dinastia, quella degli Asmonei, le cui beghe portarono […] all’intervento di Roma i Terra Santa (63 a. C.) e all’avvento sul trono di Giuda d’un feroce idumeo, Erode, sotto la tutela di Cesare. In questi due secoli (dal 175 a. C. alla venuta di Gesù) si formarono i raggruppamenti e le istituzioni, che troviamo al tempo di N. Signore: farisei, sadducei, esseni, sinedrio, sinagoghe ecc., e principalmente la concezione ristretta d’un messianismo nazionalistico, con l’esclusione dei gentili dalla salvezza […]. Il puritanesimo dei farisei, l’altèra e scettica intransigenza del sinedrio, s’ergeranno contro il divino Salvatore, gli Apostoli e la Chiesa nascente. La tragica deviazione del giudaismo avrà la sua fine e il suo castigo nella distruzione di Gerusalemme (70 d. C.)” (2). Un’eminente studiosa di giudaismo, ed ebrea convertita al cattolicesimo, Denise Judant, precisa: “Occorre distinguere il giudaismo dell’Antico Testamento dal giudaismo post-cristiano. Il primo è una preparazione del cristianesimo […], il secondo, invece, dopo aver rinnegato la messianicità e divinità di Gesù Cristo lo continua a rifiutare ancor oggi. In questo senso v’è un’opposizione radicale tra giudaismo odierno e cristianesimo […]. Grazie a Gesù, Maria, gli Apostoli e i Discepoli, un “piccolo resto” d’Israele ha corrisposto al disegno di Dio, aderendo al Vangelo del cristianesimo, mentre la grande maggioranza d’Israele, ha apostatato da Dio, rifiutandone il Verbo. […]. La rottura non esiste tra L’Antico Testamento e il cristianesimo, ma tra le due parti del popolo ebraico: coloro, che hanno rifiutato il Vangelo e coloro che l’hanno accolto. […]. Usciti dall’Alleanza con Dio, i giudei sono sempre chiamati a rientrarvi” (3). Antonio Rodrìguez Carmona, professore di Letteratura inter-testamentaria alla facoltà di Teologia dell’università di Granada, ha scritto un libro molto interessante, pubblicato in lingua spagnola nel 2001 (Madrid, BAC, Biblioteca de Autores Cristianos) e tradotto in italiano (La religione ebraica. Storia e teologia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005), in cui spiega in che cosa consistano l’ebraismo biblico e quello postbiblico. Il Carmona afferma che per quanto riguarda il giudaismo attuale o post-biblico è meglio parlare di “Prassi religiosa” più che di “Religione” (4), poiché gli ebrei stessi vogliono così differenziarsi dal Cristianesimo-religione, inteso come dogma, morale, autorità (5), mentre il giudaismo è piuttosto una “forma di vita” (6). Gli elementi che determinano la forma di vita ebraica o “l’essere ebreo” sono due: “Quello etnico e quello religioso”, che possono trovarsi uniti o separati. Il fattore etnico è basilare e consiste nell’appartenenza a un popolo che ha una storia singolare […]. Il fattore religioso consiste nell’accettazione di ciò che gli ambienti religiosi considerano come quintessenza di questa particolare storia religiosa” (7) . Dalla
religione mosaica al giudaismo talmudico
Quanto alla storia ebraica, il Carmona distingue tra religione mosaica o Antico Testamento e l’attuale giudaismo talmudico, che “ha le sue radici nella religione dell’antico Israele, ma che andò evolvendosi fino a giungere al giudaismo rabbinico” (8). Dopo aver descritto la religione ebraica (dai Patriarchi sino alla venuta di Gesù), il prof. Carmona inizia a parlare del giudaismo rabbinico inquadrandolo nella cornice storica della distruzione del Tempio di Gerusalemme per opera di Tito (70 d. C.): il sacrificio cessa e la classe sacerdotale dei sadducei perde la propria ragion d’essere; allora i farisei prendono il sopravvento e danno luogo al giudaismo rabbinico o farisaico-talmudico (9). Il rabbinismo o giudaismo farisaico-talmudico registra, dopo l’ulteriore distruzione di Gerusalemme nel 135 per opera di Adriano, “due fasi: quella positiva della riconciliazione con Roma sino agli inizi del IV secolo; un’altra negativa a partire da Costantino (anno 313). La situazione comincia a migliorare sùbito dopo la morte d’Adriano (anno 138) [...]. I rabbini […] riconoscono la necessità d’accettare il potere romano – e addirittura di trarne vantaggio – senza per questo rinunciare alla convinzione, in quanto popolo eletto di Dio, di possedere il primato su tutti i popoli; escludono però la guerra come mezzo per esercitarlo: tutto il loro interesse si rivolge alla Torah” (10). La fase negativa inizia con Costantino, che legalizza il cristianesimo come religio licita (anno 313), e con Teodosio I che lo dichiara religione dello Stato (anno 380). Poi, peggiora con Teodosio II (anno 438) e Giustiniano (anno 534), i quali “instaurano una situazione giuridica, che pregiudica definitivamente gli ebrei, discriminandoli dalla popolazione cristiana e riducendoli a cittadini di seconda classe […]. Tutta una serie di disposizioni, che ispireranno quelle che saranno stabilite dalle nazioni cristiane d’Occidente durante il medioevo” (11). La discriminazione teologica, civile e politica del giudaismo talmudico inizia con Giustiniano nel 534 e perdura sino all’Illuminismo (XVIII sec.) per oltre milleduecento anni. Tuttavia, il giudaismo rabbinico non si dà per vinto: rimpiazza Gerusalemme e il Tempio con Jaweh-Israele (popolo eletto da Dio) e la Torah e il sacerdozio col rabbinato, il cui compito sarà di conservare e tramandare fedelmente la Torah scritta e orale (trascrivendo quest’ultima, affinché non si smarrisca; cosa che avverrà con il Talmud) e spiegarne il significato, in attesa di tempi migliori, ai quali il farisaismo rabbinico non ha mai rinunciato. Il rabbinato
Nei primi secoli del post-esilio babilonese (586 a. C.), i custodi della Torah erano stati soprattutto i sacerdoti (per lo più sadducei), assieme ad alcuni scribi o dottori della legge (laici per lo più farisei). Tuttavia, col passar dei secoli, i laici o farisei cominciarono ad acquistare un’importanza sempre maggiore (175 a. C.). Perciò, dopo la catastrofe del 70 d. C., gli scribi, i dottori della legge e i farisei, chiamati “rabbini”, rimpiazzarono, senza troppe difficoltà, i sacerdoti sadducei, che erano stati massacrati (in gran parte) dai Romani nella distruzione del Tempio. La piena supremazia su tutti gli altri gruppi del giudaismo, il rabbinato la raggiunge solo nel VII secolo. I rabbini mutuano dai farisei l’idea d’Israele come popolo eletto di Dio e dagli scribi il concetto dello studio assiduo della Torah, che rimpiazza (“momentaneamente”) il Tempio e il sacerdozio, fino a tempi migliori, in cui Israele riavrà la sua terra, il Tempio e il sacrificio (12). Prima del 70, “rabbino” era solo un titolo onorifico, un “hobby” non retribuito e non ufficialmente riconosciuto, e perciò il rabbino doveva fare un altro mestiere per poter vivere; dopo il 70, diventa titolo accademico, retribuito e ufficiale, di modo che essere rabbino diventa una professione, la quale garantisce di poter vivere di essa. Il rabbinato si consegue solo dopo un “iter” formativo sotto un altro rabbino e tramite “ordinazione” o imposizione delle mani (simbolo del mandato di trasmettere la tradizione o Torah – scritta e orale – ricevuta da Mosè). L’imperatore Adriano (anno 135) proibì l’imposizione delle mani, che tuttavia continuò a essere praticata e venne sostituita con un certificato solo nel 425. Il patriarcato
Fu l’istituzione politica centrale e l’autorità religiosa suprema del giudaismo dal II al V secolo durante la formazione del rabbinato (che ha prevalso definitivamente su di esso, solo nel VII sec.). Esso colmò (assieme ai rabbini) il vuoto formatosi col venire meno del sacerdozio dei sadducei dopo il 70. Patriarca (in greco) traduce la parola ebraica “nasì” (principe). Roma (II sec.) riconosceva il patriarca come rappresentante della nazione ebraica, Il patriarca riscuoteva anche i tributi da lui imposti (col permesso di Roma) agli ebrei di Palestina e amministrava persino la giustizia in tribunale (“bet din”). Il patriarca prima di giungere a tale incarico doveva essere rabbino, esperto e osservante della legge del patriarcato. Si estinse nel 429. Il rabbinato cominciò a rivalizzare col patriarcato poiché quest’ultimo “era andato, via via, secolarizzandosi e non operava più secondo la mentalità rabbinica ma, piuttosto in funzione d’interessi prevalentemente mondani. Questo tipo di tensioni si risolverà nell’acquisizione di un maggior potere proprio da parte dei rabbini” (13). L’esilarcato
Esilarca in greco significa “capo dell’esilio”; traduce il vocabolo ebraico “resh galuta”, ossia “capo della diaspora”. L’esilarca aveva giurisdizione politica (riscossione delle tasse e nomina dei giudici nei tribunali) e religiosa (nomina dei rabbini) solo sugli ebrei di Babilonia. L’esilarcato babilonese e il patriarcato palestinese si riconoscevano e si stimavano reciprocamente, benché fossero due cariche ben distinte e indipendenti; mentre il rabbinato entrò più volte in collisione prima con il patriarcato e poi con l’esilarcato, sia perché non voleva essere sottomesso a tributo, sia perché contestava la visione secolarizzata dell’esilarcato su Israele, concepito non come popolo eletto e prediletto di Dio, ma come assimilato agli altri popoli. L’autorità dell’esilarcato poggiava su due pilastri: l’autorizzazione governativa dei Persiani o Parti a governare sugli ebrei residenti in Babilonia e la (presunta) discendenza davidica, che dopo la distruzione del Tempio con tutti i suoi elenchi delle famiglie e tribù non è più dimostrabile. Per divenire esilarca non era necessario essere rabbino. L’esilarcato durò anche con l’occupazione musulmana (anno 642) e si protrasse sino al 1048, anno in cui morì (14). La sinagoga
Termine greco usato per indicare il luogo in cui si riuniva la comunità ebraica, oppure la comunità stessa. L’origine della sinagoga è ricondotta all’istituzione delle assemblee durante l’esilio babilonese (586 a. C.). L’esistenza di sinagoghe in Palestina prima del 70 d. C. è certa e testimoniata anche archeologicamente. Vi era una relazione reciproca tra il culto del Tempio e liturgia sinagogale. Tuttavia, nella sinagoga, a differenza del Tempio, non si offriva il sacrificio, ma si leggevano la Torah e i Profeti e se ne dava una spiegazione; inoltre, si recitavano delle preghiere. Quindi, la sinagoga era ed è principalmente il luogo in cui la comunità ebraica si riunisce per pregare e per avere un insegnamento religioso; secondariamente, è anche il centro culturale e sociale della comunità (specialmente dopo il 70). I tribunali
Il sinedrio o “tribunale supremo” (esistevano “tribunali inferiori” nei villaggi e nelle città con oltre 120 abitanti) voleva essere la continuazione del gruppo di 70 anziani nominati da Mosè, perché l’aiutassero ad amministrare la giustizia. “Pur trattandosi d’un tribunale civile e religioso a un tempo, l’esercizio delle competenze civili e politiche – in linea di principio illimitate – era molto condizionato dai dominatori di turno; per esempio, la pena di morte richiedeva l’approvazione dell’autorità romana” (15) . Col venir meno del sinedrio (che, sorto a Gerusalemme, dopo il 70 era stato ricostituito a Jabne, Usha, Bet Shearim, Seforide e infine a Tiberiade) nel 425 (morte del “nasì” Gamaliele VI) l’esercizio della giustizia passò ai tribunali rabbinici. “Con l’Illuminismo e la conseguente emancipazione, gli ebrei si trovano sottoposti ai tribunali nazionali come tutti i cittadini; i tribunali rabbinici hanno visto le loro competenze ridotte ai temi di carattere religioso (16). Il professor Carmona, dopo aver illustrato l’epoca dell’assimilazione e dell’emancipazione ebraica durante l’Illuminismo, conclude il suo excursus storico scrivendo che “risultato di questo lungo tragitto storico è l’attuale religiosità ebraica, caratterizzata da un vasto pluralismo nel quale si possono individuare tre forme basilari, con molte sfumature intermedie: un ebraismo ortodosso, un ebraismo conservatore, e un ebraismo riformato o liberale” (17). Ciò non significa che non esista l’ebraismo, ma solo che esso è rappresentato da tre correnti principali, e da varie loro ramificazioni. Infatti, dopo aver descritto le caratteristiche di questi tre rami principali dell’attuale giudaismo, il Carmona aggiunge: “Va comunque registrato un processo d’avvicinamento tra i diversi settori, favorito […] non da ultimo [dopo la shoah, ndr] da un più vivo senso d’appartenenza a Israele, che si va diffondendo tra le nuove generazioni” (18). Il “credo” del giudaismo talmudico
Quanto alla “religione” ebraica, (anche se sarebbe più esatto parlare di “vita o forma religiosa” dell’ebraismo), Carmona spiega che nell’ebraismo postbiblico “la prassi occupa un posto centrale […]. Perciò, pratica la religione ebraica colui, che obbedisce [alla legge, ndr] e opera; non colui, che sa e accetta un credo […]. Tuttavia, l’accettazione e il compimento del volere di Dio [legge, ndr] riposano su una serie di convinzioni teologiche, che fungono da premesse oggettive e fondanti una prassi, e costituiscono la teologia ebraica” (19). Non si può parlare di dogma ebraico in senso stretto, poiché non vi è nel giudaismo talmudico un’autorità magisteriale unica e infallibile, ma si può parlare di “credo” in senso largo, come verità religiose rivelate, ma non definite e proposte a credere dal magistero. Quindi, prosegue il Carmona, “non è mai esistita una dottrina ufficialmente ortodossa, definita e imposta e neppure un’altra eterodossa, che escluderebbe dalla comunione ebraica. Nell’ebraismo c’è una maggioranza che crede in una serie di fatti e princìpi religiosi; parimenti esiste una minoranza che non crede e per questo non cessa di essere considerata ebrea” (20), l’essenziale è l’appartenenza al popolo ebraico: è ebreo chi nasce da madre ebrea, non chi crede e osserva la legge. Inoltre, il concetto di fede giudaica è non intellettuale ma, volontaristico; ossia, la fede non è un atto dell’intelletto che, spinto dalla volontà e mosso dalla grazia, aderisce a delle verità rivelate; ma è un affidarsi o aver fiducia [vedi “fede fiduciale” luterana, ndr] nell’aiuto di Dio verso Israele, suo popolo eletto, senza necessità d’aderire al dogma e d’osservare la legge divina (21) . Tre sono le verità fondamentali del giudaismo rabbinico: 1°) L’unità di Dio; 2°) la Torah come volontà divina data a Israele; 3°) Israele come popolo eletto da Dio e depositario della sua Legge. Queste tre verità basilari, però, vanno intese “a livello pratico, più che teologico-speculativo […]. Si tratta di proposizioni pastorali, per la vita spirituale del popolo” (22). Ossia, la pratica religiosa ebraica può sussistere senza la “fede” (anche in senso largo), la quale, se esiste, ha solo un valore pratico e non dogmatico (come vuole anche il modernismo) ed è relativa all’appartenenza al popolo d’Israele. Infatti, il giudaismo consiste essenzialmente nell’appartenenza al popolo d’Israele da cui può conseguire accidentalmente, una pratica di legge, che aiuta a mantenere l’identità di popolo eletto; infatti, si è ebrei, anche se non si pratica, purché si sia figli di madre ebrea (“mater semper certa, pater numquam”). Tale pratica, normalmente, ma non necessariamente (si può “praticare” senza credere, così come vogliono oggi in campo cattolico/giudaizzante i cosiddetti “atei devoti o teo/con”), è fondata su alcune verità religiose ma, queste verità hanno uno scopo più pastorale (o pratico), che dogmatico (o speculativo) perché servono a cementare il senso d’appartenenza al popolo eletto, separandolo dagli altri, specialmente dai cristiani. Infatti: 1°) l’unità di Dio serve a distinguere il giudaismo rabbinico, dal cristianesimo, che crede nell’Unità della Natura divina nella Trinità delle Persone. Onde, il giudaismo rabbinico è caratterizzato dal rifiuto della SS. Trinità e dell’Unione ipostatica (= Gesù vero Dio e vero uomo); 2°) La Torah è la legge (o volontà) divina consegnata da Dio a Israele. Essa serve a distinguere Israele da tutti gli altri popoli. Se la si pratica è specialmente in quest’ottica esclusivista e segregazionista. Il giudaismo rabbinico, con la letteratura talmudica, ha aggiunto alla legge mosaica altri 613 precetti (di cui 248 - come le parti del corpo umano - sono positivi e 365 - come i giorni dell’anno - negativi), per distinguere il talmudista dal cristiano, il quale guarda ai dieci Comandamenti rivelati da Dio a Mosè sul monte Sinai. Secondo il talmudismo, invece, sette precetti noachici furono consegnati da Dio a tutti gli altri uomini in Noè, come una sorta di legge naturale per i “gojim” (i non ebrei) corrispondente al Decalogo mosaico; 3°) Israele è il popolo santo e l’israelita appartiene a questo popolo prescelto da Dio: “L’elezione d’Israele è uno dei princìpi teologici fondamentali del giudaismo rabbinico” (23). Compito d’Israele è di salvare il mondo, essendo un “regno di sacerdoti, una nazione santa” e la “luce delle nazioni”. Israele “a motivo della sua elezione, fungerà da mediatore tra Dio e l’intera umanità […] che alla fine abbandonerà i falsi Dei e riconoscerà la sovranità di Jaweh [e d’Israele suo popolo, ndr]” (24). Carmona spiega che “la Torah è stata data in funzione dell’elezione, la quale però […] permane anche quando l’ebreo decidesse d’ignorare gli obblighi dell’alleanza o di rifiutarli. L’elezione è il dato primario; l’accoglienza della Torah è l’accadimento secondario” (25). “Eletto da Dio, Israele ha ricevuto una terra nella quale potersi realizzare come popolo: l’antico paese di Canaan […] da allora è terra d’Israele (Eretz Jisrael). Una terra considerata santa non per se stessa [...], ma per la sua relazione col popolo eletto cui Dio […] ha dato in dono la Torah: questa può realizzarsi totalmente soltanto nella terra d’Israele” (26). Rabbinismo e sionismo
Di qui l’importanza che il sionismo riveste per il giudaismo rabbinico. Senza la terra “d’Israele” (ossia la Palestina che dal 135 al 1948 è appartenuta ai Palestinesi), la Torah non può essere vissuta totalmente, ma solo imperfettamente. Perciò, il talmudismo è, radicalmente e virtualmente, sionista. Inoltre, si evince che tutta la fede e la legge rabbinica si riduce all’elezione d’Israele e al suo primato sugli altri popoli, onde la pratica e la teologia rabbinica sono ordinate all’appartenenza etnica al popolo santo. Essenzialmente, il giudaismo consiste nell’essere geneticamente ebrei e – secondariamente – nel praticare o avere la fede: si resta pur sempre israeliti, anche se non si crede e non si pratica; è questione di “sangue e suolo”, non di “fede e buone opere”. Infatti, l’amore verso il prossimo “è limitato ai compatrioti (i “prossimi”), e non riferito a tutte le possibili relazioni interpersonali” (27). Per quanto riguarda la mistica ebraica o cabala, Carmona spiega che è meglio parlare di misticismo, il quale (nella tradizione giudaica) va di pari passo con l’esoterismo (28). Il misticismo è una deviazione elitaria e occulta (ottenuta mediante tecniche umane segrete) della vera mistica, la quale invece consiste nell’unione con Dio, offerta apertamente o pubblicamente dalla grazia divina a tutti coloro che vogliono corrispondere al suo appello tramite una seria vita ascetica, che sarà poi seguita nella via mistica dal predominio dei sette Doni dello Spirito Santo come normale sviluppo della vita della grazia santificante, la quale culminerà in cielo nella Visione Beatifica grazie al Lumen gloriae. Il misticismo ebraico è detto: cabala o tradizione, perché è presentata dal giudaismo post-biblico come “una rivelazione primordiale concessa ad Adamo o alle generazioni umane” (29). Se al suo inizio la cabala fu un movimento riservato a pochi eletti, con l’Hassidismo (o Chassidismo) dei secoli XII-XIII (in Francia e in Germania), ma soprattutto nel XVIII secolo (in Polonia e Ucraina), divenne un movimento di massa, aperto all’uomo comune, mischiato a fenomeni di magia, amuletica ed erboristeria di bassa lega. Tuttavia, esso ha avuto anche dei rappresentanti assai colti, come Martin Bubèr († 1965) e W. Abraham J. Heschel († 1973), il cui pensiero ha esercitato un influsso enorme sul concilio Vaticano II e sulla formazione intellettuale di K. Wojtyla e di J. Ratzinger. Questa è – in breve – la storia e la teologia del giudaismo rabbinico-talmudico. NOTE 1 - E. ZOLLI, voce Ebraismo, in Dizionario di Teologia Morale, a cura di F. ROBERTI - P. PALAZZINI, 1° vol., pp. 569-570, Roma, Studium, 5a ed.,1968; E. ZOLLI, L’Ebraismo, Roma, Studium, 1953; ID., Guida all’Antico e Nuovo Testamento, Milano, Garzanti, 1956; ID., Antisemitismo, Roma, AVE, 1945, rist. Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2005; E. PETERSON, Il mistero degli ebrei e dei gentili nella Chiesa, Edizioni di Comunità, 1936; ID., Il monoteismo come problema politico, Brescia, Queriniana, 1983; D. LATTES, Apologia dell’ebraismo, Roma, Formaggini, 1923; rist. Genova, Il Basilisco, 1982; G. WIGODER (diretto da), Dictionnaire encyclopédique du Judaisme, Parigi, Cerf-Laffont, 1993; J. MAIER, Il giudaismo del secondo Tempio, Brescia, Paideia, 1991; G. FOHRER, Storia della religione israelitica, Brescia, Paideia, 1985; W. EICHRODT, Teologia dell’Antico Testamento, Brescia, Paideia, 1979; G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, Brescia, Paideia, 1972; H. CAZELLES, Il Messia nella Bibbia, Roma, Borla, 1981; J. NEUSNER, Il giudaismo nei primi secoli del cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 1989; H. CHARLESWORTH, Gesù nel giudaismo del suo tempo alla luce delle più recenti scoperte, Torino, Claudiana, 1994. 2 - F. SPADAFORA, Dizionario biblico, Roma, Studium, 3a ed., 1963, pp. 308-309. 3 - D. JUDANT, Jalons pour une théologie chrétienne d’Israel, Parigi, éd. du Cèdre, 1975, pp. 33-83, passim. 4 - Papa Francesco ha ripreso questa concezione giudaico/talmudica per la conduzione del suo Pontificato: non più teologia ma, primato della prassi. Il comunismo marxista/leninista idem. 5 - A. RODRIGUEZ CARMONA, La religione ebraica. Storia e teologia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, p. 7. 6 - N. DE LANGE, Judaism, Oxford, 1987, p. 3. Cfr. anche: M. NOTH, Storia d’Israele, Brescia, Paideia, 1971; A. CAGIATI, Che cosa sappiamo della religione ebraica? Torino, Marietti, 1982; J. MAIER, Storia del giudaismo nell’antichità, Brescia, Paideia, 1992; J. NEUSNER, Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, Casale Monferrato, Piemme, 1996; J. MAIER, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, Paideia, 1994; H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo, Torino, Claudiana, 1976; S. BEN CHORIM, Il giudaismo in preghiera, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1988; J. DANIELOU, La teologia del giudeo-cristianesimo, Bologna, Il Mulino, 1968; L. RANDELLINI, La Chiesa dei giudeo-cristiani, Brescia, Paideia, 1968; S. M. KATUNARICH, Breve storia dell’ebraismo e dei suoi rapporti con la cristianità, Casale Monferrato, Piemme, 1987; P. NAVE’ LEVINSON, Introduzione alla teologia ebraica, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996; P. STEFANI, Introduzione all’ebraismo, Brescia, Queriniana, 1995; ID., Gli ebrei, Bologna, Il Mulino, 1997; G. SCHOLEM, La cabala, Roma, Mediterranee, 1992; ID., Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, Einaudi, 1993; L. SESTRIERI, Gli ebrei nella storia di tre millenni, Roma, Carucci, 1980; J. NEUSNER, Il giudaismo nella testimonianza della Mishnah, Bologna, EDB, 1995; D. BANON, Il Midrash. Vie ebraiche alla lettura della Bibbia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001; D. LIFCSHITZ, I chassidim commentano la Scrittura, Roma, Dehoniane, 1995; G. BOCCACCINI, Il medio giudaismo, Genova, Marietti, 1993. 7 - A. R. CARMONA, Ibidem, p. 8, n. 2. 8 - Ibidem, p. 9. 9 - Ibidem, pp. 151-153. 10 - Ibidem, pp. 156-157. 11 - Ibidem, p. 159. 12 - Ibidem, pp. 397-398. 13 - Ibidem, p. 415. 14 - Ibidem, pp. 417-419. 15 - Ibidem, p. 428. 16 - Ibidem, p. 430. 17 - Ibidem, p. 240. 18 - Ibidem, p. 248. 19 - Ibidem, p. 259. 20 - Ibidem, p. 261. 21 - Ibidem, pp. 485-486. 22 - Ibidem, p. 276. 23 - Ibidem, p. 476. 24 - Ibidem, p. 477. 25 - Ibidem, p. 478. 26 - Ibidem, p. 481. 27 - Ibidem, p. 490. Cfr. anche: D. NOVAK, L’elezione di Israele. L’idea di popolo eletto, Brescia, Paideia, 2001; K.-J. KUSCHEL, La controversia su Abramo. Ciò che divide e unisce ebrei, cristiani e musulmani, Brescia, Queriniana, 1996; A. J. HESCHEL, L’uomo non è solo, Milano, Rusconi, 1987; D. STEMBERGER, La religione ebraica, Bologna, EDB, 1996; H. HENEMANN, La preghiera ebraica, Magnano, Qiqajon, 1992; R. FABRIS, La spiritualità del Nuovo Testamento, Roma, Borla, 1985; L. JACOBS, La preghiera chassidica, Milano, Gribaudi, 2001. 28 - Ibidem, p. 211. 29 - Ibidem, p. 220. |