Proibizione universale della maternità surrogata:

giusta, ma è possibile spingersi oltre?



di Fabio Fuiano


Pubblicato su Corrispondenza Romana








Lo scorso mercoledì 16 ottobre 2024, il Senato ha approvato definitivamente, con 84 voti favorevoli e 58 contrari, il DDL n. 824, a prima firma dell’on. Maria Carolina Varchi (FDI), recante modifica all’articolo 12 della legge 40/04, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano.
Dunque, il comma 6 dell’articolo 12 reciterà: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. Se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi all’estero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana» (tondo nostro).

Come prevedibile, le discussioni su questo provvedimento si sono moltiplicate. Ognuno sembra tirare fuori i propri assi dalla manica: da un lato i promotori della nuova legge che parlano di atto di giustizia nei confronti delle donne, finalmente affrancate da una pratica di mercificazione del loro corpo, e dei bambini, non più mero oggetto di compravendita.
Esemplificative di questa posizione sono le affermazioni della prima firmataria, l’on. Varchi, che sul proprio profilo Instagram ha pubblicato slogan del tipo «il corpo delle donne non sarà più noleggiato», oppure «mai più bimbi comprati con accordi commerciali».

D’altro canto, i fermi oppositori del nuovo DDL parlano di un “obbrobrio giuridico inapplicabile” e sono pronti a tutto pur di contrastare questa iniziativa del governo.
In testa, l’Associazione Luca Coscioni che continua a pubblicare testimonianze di persone che hanno ricorso a quella che loro preferiscono definire “gestazione per altri” o “gravidanza solidale”.

Nella giornata di sabato, Sky TG24 ha pubblicato la storia di Maria Sole Giardini, quarantunenne con la sindrome di Rokitansky, nata cioè senza utero. Questa donna è ricorsa alla maternità surrogata come «il solo modo per avere un figlio» dopo aver tentato le strade dell’adozione e del trapianto sperimentale di utero.
Nella sua testimonianza definisce menzognere le storie di bambini scelti da un catalogo e di donne sfruttate come gestanti, affermando d’essere rimasta in buoni rapporti con la madre surrogata della bambina, che le ha fatto persino da madrina di Battesimo.

La norma varata è, in sé stessa, giusta in quanto coerente con la retta ragione e con la legge morale naturale. Tuttavia, queste discussioni fanno emergere la fragilità degli argomenti usati per introdurla.

Se è pur vero che in molti casi c’è un vero e proprio contratto di compravendita è altrettanto vero che storie come quella riportata dall’Associazione Luca Coscioni, al di là dei contorni romanzati, spesso fittizi, volti sovente a sollecitare l’emotività più che la ragione, sono in linea di principio in grado di mettere in crisi le motivazioni alla base di un tale disegno di legge.

Questo avviene perché esse fanno riferimento al carattere accidentale e non sostanziale della maternità surrogata. Questa, infatti, può attuarsi a prescindere dalla compravendita e dallo sfruttamento del corpo femminile in quanto non sono caratteristiche necessarie (senza le quali cioè non si darebbe maternità surrogata). Addurle quindi come motivo basilare di una sua proibizione universale escluderebbe per ciò stesso dal divieto quelle maternità surrogate in cui non fossero presenti.

Secondariamente, gli argomenti riportati non colgono la reale genesi del processo che ha portato a concepire questa pratica come possibile – e poi legittimo e incoercibile – “diritto”. Tant’è che essi non mettono minimamente in discussione (a) il vero atto necessario alla maternità surrogata, ovvero la fecondazione artificiale (omologa o eterologa) e (b) l’errore su cui essa si fonda che giace dapprima nella separazione tra il fine procreativo e unitivo del legittimo matrimonio e, successivamente, nell’inversione stessa della gerarchia di questi fini, ponendo il secondo come preponderante rispetto al primo.
Se, infatti, il fine unitivo assume il valore preminente nella vita dei coniugi, da ciò deriva che la procreazione sia concepita come “accessorio” o da rigettare (es., tramite contraccezione e aborto) o da volere a tutti i costi (es., tramite fecondazione artificiale e utero in affitto) con tutte le gradazioni intermedie possibili. Ciò a seconda che, a giudizio soggettivo della coppia, la presenza di un figlio possa essere vista come un ostacolo o un mezzo per la propria felicità.

In un articolo sul divorzio si era rilevato, con le osservazioni del prof. Régis Jolivet (1891-1966), come alla base degli errori sulla famiglia vi sia il falso principio che il matrimonio servirebbe solo ad assicurare felicità e piacere agli sposi e risparmiare loro le pene. Ma in realtà, osservava il filosofo, «l’unione sessuale ha la sua prima ragion d’essere soltanto nei fini della specie. Allo stesso modo in cui il piacere di mangiare non può essere il fine per cui si mangia e allo stesso modo in cui si deve mangiare per vivere e non vivere per mangiare, così per il matrimonio il fine primario è il figlio e non il piacere» (Trattato di Filosofia vol. V. Morale (II), tr. it. Morcelliana, Brescia 1960, p. 204).

Ed è per questo motivo che, come opportunamente rilevato dal prof. Corrado Gnerre in un suo recente editoriale del Cammino dei Tre Sentieri, si approda ad una procreazione senza sessualità e a una sessualità senza procreazione.

Già in un precedente articolo sul tema della contraccezione, si erano ricordate le parole del Papa Pio XII sull’essenziale subordinazione del perfezionamento personale degli sposi alla procreazione ed educazione di una nuova vita.
D’altro canto, il medesimo Pontefice, in occasione del Congresso mondiale della Fertilità e della Sterilità del 1956, si era espresso con forti parole sul perché la fecondazione artificiale violi la legge naturale e sia contraria al diritto e alla morale: il contratto matrimoniale, spiegava, non conferisce ai coniugi «il diritto alla fecondazione artificiale, poiché un tale diritto non è in alcun modo espresso nel diritto all’atto coniugale naturale e non potrebbe esserne dedotto. Tanto meno lo si può far derivare dal diritto alla “prole”, “fine” primario del matrimonio. Il contratto matrimoniale non dà questo diritto, perché esso non ha per oggetto la “prole”, ma gli “atti naturali” capaci di generare una nuova vita, e a questo scopo ordinati».

Si potrebbe obiettare che, se la maternità surrogata è uno degli esiti di un processo che parte dagli errori sui fini del matrimonio, in Italia avremmo dovuto avere una legge che sancisse un diritto assoluto ad essa piuttosto che una sua proibizione universale. Ma se ciò non è avvenuto non è perché il suddetto processo non sussista, bensì perché gli è stata inflitta una battuta d’arresto. Ogni persona retta dovrebbe gioire per questo.

Ciononostante, bisogna avere anche il coraggio di uscire da logiche meramente strategiche e politiche ed indagare le intime radici di quanto si è contribuito a fermare.

E’ necessario riconoscere la terribile realtà del processo di sovvertimento dell’ordine morale e naturale voluto da Dio che ha portato a concepire il fatto dell’utero in affitto per poterlo realmente fermare. Di più: conoscerne le tappe, concretizzatesi in un circolo vizioso in cui costumi corrotti hanno generato leggi inique e viceversa, è fondamentale per instaurare un processo uguale e integralmente opposto!
Un processo in grado di rovesciare – gradualmente così come graduale è stato il sovvertimento della legge naturale – tutti i capisaldi del divorzio, dell’aborto, della fecondazione artificiale fino a giungere ad un ripristino dell’ordine morale nell’uomo e nella società.

Preghiamo con ardore che tale prospettiva non tardi a concretizzarsi.












 
ottobre 2024
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