Al capezzale dell’Occidente

Prima parte



di Roberto Pecchioli


Prima parte
Seconda parte


Pubblicato sul sito Ereticamente






Mesa Verde
[Il parco nazionale di Mesa Verde è un’area naturale protetta degli Stati Uniti e patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal 1978. E’ situato nello stato del Colorado, nella contea di Montezuma. Ha una superficie 211 km2 e comprende un’area in cui sono presenti i resti di numerosi insediamenti costruiti dagli antichi Popoli Ancestrali, una volta denominati Anasazi. Si tratta di villaggi costruiti all’interno di rientranze della roccia, denominati cliff-dwellings. Il più noto e il più grande di questi insediamenti è quello denominato Cliff palace].


Articolo

Il declino dell’angolo di mondo che siamo abituati a chiamare Occidente è sotto gli occhi di tutti. Sono lontani i tempi in cui lo storico britannico J.M. Roberts proclamava il trionfo dell’Occidente nel fortunatissimo omonimo pamphlet (1985).
E’ sfumata nel ridicolo l’idea della fine della storia per vittoria definitiva del modello liberaldemocratico dell’americano Francis Fukuyama. Si moltiplicano i testi la cui tesi è la fine o la sconfitta epocale dell’Occidente.
Pensiamo a L’autodistruzione dell’Occidente di Eugenio Capozzi, centrato sul declino etico della nostra civiltà, o Il capolinea dell’Occidente del giornalista americano Paul Craig Roberts, una raccolta tematica di articoli proposta dalla coraggiosa editrice “Passaggio al Bosco”, volta a dimostrare un declino irreversibile in termini valoriali, economici, politici.
Dovremmo aggiungere – era la fine del secolo XX – opere come La chiusura della mente americana di Allan Bloom sul degrado degli studi negli Stati Uniti, l’opera di Christopher Lasch (L’io minimo, La cultura del narcisismo, La ribellione delle élite) e il sulfureo La cultura del piagnisteo di Robert Hughes, primo atto d’accusa contro il politicamente corretto e il vittimismo, armamentari privilegiati della cultura della cancellazione e dell’ideologia woke.
Buona parte di questa letteratura non è di orientamento reazionario o conservatore, il che rende impossibile catalogarla come catastrofismo ideologico e nostalgia passatista.

Suicidio occidentale di Federico Rampini – di provata fede progressista, per decenni corrispondente dagli Usa di Repubblica – esprime lo stesso pessimismo da posizioni fortemente atlantiste. La sua è una volgarizzazione del giudizio espresso a suo tempo da Arnold Toynbee: le civiltà muoiono per suicidio, non per omicidio. La formula dello storico britannico è celeberrima, debitrice in parte della lezione di Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente. L’ingegnere tedesco prestato agli studi storici fu il primo a tematizzare le fasi di ascesa, sviluppo, declino e morte delle civiltà, esaminate come veri e propri organismi viventi.
Fu il francese Paul Valéry a scoprire che le civiltà sono mortali, come gli individui che vi appartengono. Spengler fu influenzato dalla distinzione tra cultura e civiltà (kultur/zivilisation) introdotta dalla sociologia tedesca del suo tempo, la prima legata alla fase ascendente, la seconda al tempo del declino.

Ultimamente Rampini ha pubblicato Grazie, Occidente! con tanto di punto esclamativo, un saggio che sembra un accorato epitaffio, l’elogio funebre pronunciato ai piedi di un cadavere. Sorprendono i titoli di due capitoli: “Perché possiamo dirci superiori” e “La fortuna di essere atlantisti”. Il primo viene perdonato al suo autore in nome della lunga milizia progressista, che lo metterebbe al riparo dal suprematismo di cui sono intrise le sue argomentazioni, tra le quali spicca “ la superiorità dell’Occidente è nei fatti. Gli altri ci hanno semplicemente copiato”. Sconcertante esercizio di volontà di potenza nell’epoca del suo contrario.
Quanto alla dubbia “fortuna” di essere atlantici – ovvero appendici degli Usa, la colonizzazione sino alla sussunzione del nostro continente nella categoria di Occidente è, al contrario, la causa efficiente del tracollo dell’Europa umanista e cristiana.

Che il declino sia frutto di un suicidio volontario, perpetrato sotto molteplici aspetti – la cultura della cancellazione è solo l’ultimo – è nei fatti.
Ne sono conferma le conclusioni dello storico francese René Grousset, contemporaneo di Toynbee. “Nessuna civiltà viene distrutta dall’esterno senza essersi innanzi tutto essa stessa deteriorata, nessun impero viene conquistato dall’esterno senza essersi precedentemente autodistrutto. E una società, una civiltà non si distruggono con le proprie mani che quando hanno cessato di capire la loro ragione d’essere, quando l’idea dominante intorno alla quale si erano dianzi organizzate diventa loro estranea”.
Una tesi ripresa dal recentissimo, fondamentale La sconfitta dell’Occidente di Emmanuel Todd, il cui nucleo teorico è centrato sulla decomposizione delle élite bianche protestanti di ascendenza anglosassone negli Stati Uniti (WASP), che ha trascinato in quello che l’antropologo e storico francese chiama stadio zero della civiltà le classi dirigenti europee, incapaci di esprimere una visione distinta da quella d’oltreoceano.

Manca, nel pur magistrale lavoro di Todd, l’analisi dell’odio di sé occidentale – l’oicofobia corrosiva, suicidaria denunciata da Roger Scruton e Alain Finkelkraut, che ribalta ogni giudizio, volge in negativo ogni idea, evento storico, principio civile della nostra gente. Todd sfiora, ma non analizza sino in fondo il ruolo dirompente dell’immigrazione extraeuropea nel nostro continente e della Babele etnica (e culturale) che ha cambiato il volto degli Usa nell’ultimo trentennio.
Tace sull’ideologia gender, prigioniero della neolingua quando parla con toni positivi di “matrimonio per tutti”, anziché di nozze omosessuali e bolla severamente l’“omofobia”, ma è acuto nell’individuare il punto di non ritorno dell’Occidente ultimo nell’ideologismo folle, menzognero della teoria transessuale, secondo la quale un uomo può diventare donna e viceversa.
Si tratta del distruttivo trionfo dell’idea sulla realtà, il rifiuto pervicace di ciò che è in nome del desiderio e della volontà prometeica, malata, di negare la natura.

Con un’autorevolezza infinitamente minore, la tesi di chi scrive, esposta ne Il principio verità, in uscita per Nexus Edizioni, è più radicale: la crisi di civiltà che ci sta portando al suicidio, all’estinzione e al nichilismo di massa è collegata al declino della verità, ossia la disconnessione tra la realtà fattuale e chi la osserva (adaequatio rei et intellectus).
Con la formula di G.B. Vico, criterio di verità e fondamento di vera conoscenza è la convergenza del vero con il fatto; il ribaltamento concettuale in atto nega l’esistenza della verità disconoscendo la realtà; porta alla crisi, a una cultura terminale stanca, estenuata, nemica dell’ordine naturale, giunta al punto di non ritorno.
Esempi raccapriccianti sono la banalizzazione della morte procurata, definita “buona” (questo significa eutanasia) le cui punte avanzate sono in Canada – dove si può essere soppressi per povertà – Belgio e Olanda, in cui anche i minori e i depressi possono chiedere e ottenere la gelida morte di Stato, nonché la recente legge tedesca che consente di scegliere il “genere” oltrepassando il sesso naturale con un semplice atto amministrativo modificabile ogni anno. Incredibile è la norma che permette a bimbi di cinque anni (!!!) di indicare il proprio sesso/genere.
In Germania vige una legge che permette di scegliere o rifiutare i parenti, senza riguardo ai legami di sangue. La realtà fatta a pezzi, la natura negata, l’infanzia piegata all’ideologia.

L’evidenza della crisi del modello occidentale è conclamata. L’anamnesi e la diagnosi conducono ad una prognosi infausta. Una delle aporie (problemi le cui possibilità di soluzione risultano annullate in partenza dalla contraddizione che contengono) è che le cause della malattia occidentale sono considerate dalla cultura dominante meriti, prove di civiltà, elementi positivi, punti di forza. Tutt’al più se ne deprecano blandamente alcune conseguenze, per ideologia, pigrizia concettuale, per non contraddire il mito fondante del progresso (il nuovo è sempre meglio dell’antico).
Nel secolo XIX Donoso Cortés coniò al riguardo l’espressione – divenuta proverbiale in area ispanofona – innalzare troni alle cause e forche alle conseguenze. Le masse adorano idee, progetti, comportamenti, principi di cui deprecano gli effetti.

Un esempio è la distruzione della famiglia naturale (chiamata spregiativamente tradizionale) in nome di autonomia e libertà: ci si impegna a disgregarne anche le vestigia nello stesso momento in cui si lamenta la perdita di valori, il vuoto di sentimenti, la solitudine, l’assenza di obiettivi elevati, la facilità con cui avanzano mode e dipendenze.
L’uomo contemporaneo è emotivo, eppure si meraviglia che le masse agiscano in maniera irrazionale: innalziamo la ragione che vince l’antiquata religiosità per consegnarci alle più varie superstizioni o credenze.
Ogni civiltà ha la tendenza a credersi eterna”, scrive il filosofo francese Roger Pol Droit. “Nessuna, tranne la nostra, prevede la sua fine”.
Noi la assaporiamo con voluttà, desideriamo la nostra dissoluzione. E’ la velenosa oicofobia, il rancore contro ciò che siamo stati e siamo, il desiderio di recidere le radici. Per consegnarci alla capitolazione.

Lo storico Michel De Jaeghere, ne Gli ultimi giorni dell’impero romano, considera la denatalità la causa primaria della fine di Roma.
Dopo la “peste antonina” del II secolo ci furono la crisi economica, l’insicurezza, la violenza diffusa a scoraggiare le nascite. Le famiglie erano fragili e poco feconde. Il concubinato divenne la norma, il divorzio frequente, la mortalità elevata. Le province di frontiera avevano una densità di popolazione bassissima; per questo esercitavano sui barbari un’attrazione irresistibile.
La perdita della religiosità si tradusse in spopolamento. Si arrivò a reclutare i barbari nell’esercito, a donare loro delle terre. Le tasse aumentavano costantemente perché i censimenti certificavano la diminuzione costante della popolazione.
Le analogie con il presente sono impressionanti.
L’impero non aveva più una popolazione sufficiente, quindi meno risorse per affrontare lo sforzo della difesa del territorio e delle frontiere.
Già durante il regno di Nerone il poeta Lucano descrisse la desolazione dell’Italia in cui “pochi abitanti vagano per le strade deserte di antiche città”.
L’istituzione familiare crollò e all’apogeo della potenza romana il divorzio era una pratica comune sotto l’influsso dei costumi ellenistici.
Si diffussero vari metodi contraccettivi; “Galla – scrisse Marziale – vuole essere soddisfatta ma non vuole figli”. Nel Satyricon di Petronio si dice : nessuno cresce bambini perché se si hanno degli eredi non si viene invitati ai banchetti, né agli spettacoli, si è esclusi da ogni piacere e si vive in tristezza tra la feccia.
“Nel II secolo l’aborto, che fino ad allora veniva praticato per far sparire bambini nati da amori clandestini, si estese nell’alta società. L’infanticidio di una creatura non riconosciuta dal padre non era punito dalla legge. L’omosessualità era diffusa”.
La storia si ripete.
La crisi familiare e demografica era “lo specchio di un disincanto, il frutto di un materialismo che portava a ritenere la famiglia una forma di schiavitù, il bene comune una chimera e la felicità di vivere senza obblighi come il fine supremo dell’esistenza”.
Si stima che il tasso di fecondità delle famiglie aristocratiche non fosse superiore a 1,8 figli per donna, di pochissimo superiore all’1,5 dell’Europa di oggi.

Eppure i sintomi che annunciavano la caduta dell’Impero si erano manifestati chiaramente ai contemporanei, che rifiutavano di crederci, continuando a praticare i (dis) valori che li stavano distruggendo. La conseguenza fu la fine per implosione.

Nella seconda parte tracceremo il quadro statistico delle criticità – economiche, educative, valoriali, geopolitiche e storiche – che definiscono la disfatta dell’Occidente, la terra del tramonto.






 
novembre 2024
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