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Una speranza intrisa di gioia che dà senso al tempo di Padre Serafino Lanzetta, FFII ![]() La ragione stessa per essere pieni di gioia divina è che il Signore è vicino, la sua venuta è alle porte. Questo sarà il leitmotiv che ci condurrà al periodo natalizio, quando il nostro grido supplichevole al cielo affinché le nubi facciano piovere il Giusto sarà finalmente ascoltato: la rugiada divina farà piovere il Salvatore. Questa è gioia per antonomasia. Questa gioia cristiana, fondata sulla certezza che il Signore verrà, è anche la ragione che alimenta la nostra speranza. La gioia è la speranza che il Regno di Dio è vicino. La speranza, al contrario, rende perfetta la nostra gioia, perché il Regno di Dio è in mezzo a noi: Cristo è con noi, è l’Emmanuele. C’è vera gioia se c’è speranza e c’è speranza che dura quando è piena di gioia. Eppure, la speranza, nella nostra società post-cristiana, può facilmente essere vista come una distrazione dalle cose veramente necessarie e indispensabili. Essa è semplicemente considerata un mezzo, o forse un inganno, che sposta l’attenzione dell’uomo verso l’incertezza. La domanda che ci si dovrebbe porre però è la seguente: la speranza è mera passività? Il futuro, in un presente molto fosco come il nostro, non potrebbe essere fondato sulla parola “speranza” perché tale parola sprigionerebbe l’ozio e darebbe ádito a una mera acquiescenza. Il Cristianesimo, secondo una critica atea molto influente nella nostra cultura italiana, avrebbe creato l’idea di una fiducia incondizionata nel futuro, vedendo il passato come male, il presente come redenzione e il futuro come salvezza. Il fatto che il futuro sarà sempre roseo causerebbe l’inerzia dell’uomo. Invece, senza un’azione concreta, un’impresa umana, il futuro non sarebbe mai migliore. Secondo questa teoria intramondana della non-speranza, la medesima tripartizione del tempo sembra caratterizzare anche la Rivoluzione marxista, oltre che a istigare l’utopia, e, non da ultimo, ad essere modello della Psicoterapia freudiana. Ciò si darebbe quando – una sorta di comune denominatore – il passato viene visto come oppressione o trauma; il presente come liberazione o terapia; il futuro come felicità o guarigione. La salvezza assicurata, il benessere comunitario o la sanità mentale, sarebbero tuttavia rimandati e comunque spinti inesorabilmente verso un futuro imprevedibile. E’ vero ciò? La speranza cristiana è una mera e felice congettura sulle cose che potrebbero accadere? Questa condanna della speranza dimentica un elemento centrale: Cristo non è solo colui che deve arrivare, ma colui che è già con noi. E’ il Verbo incarnato, il Logos della vita. Egli rimane mentre il mondo cambia. Stat Crux dum volvitur orbis, dice un antico motto certosino cioè la Croce rimane ferma, mentre il mondo cambia e gira. La speranza è presenza del mistero, qui e ora; non si tratta di rimandare le proprie aspettative, ma di vederle realizzate nell’hic et nunc della Provvidenza divina. Per giunta, la tripartizione di peccato, redenzione e salvezza non è un’equazione necessaria, matematicamente trasferibile ad altri modelli culturali. Essa dipende dal peccato dell’uomo da un lato, quindi dal suo libero arbitrio; dall’altro, dalla Provvidenza d’amore di Dio. Ciò che guida la storia non è il peccato ma l’amore di Dio. Che cos’è allora la speranza cristiana? Una delle definizioni più pregnanti si trova nella Lettera agli Ebrei (6, 19-20), da cui proviene l’antico simbolo dell’àncora-croce per identificare il cristianesimo. Ebrei ci dice che nella speranza «abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi, divenuto sommo sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchìsedek». La speranza àncora la nostra fede a Cristo, che è il precursore: Egli ci precede e quindi è la nostra Via. Offrendo il Sacrificio di salvezza con la Sua morte in croce, dopo essere risorto dai morti è entrato nel Santuario del Cielo con la sua ascensione. Questo è il vero Santo dei Santi, dove solo il Sommo Sacerdote poteva entrare una volta all’anno durante il giorno dell’espiazione. Cristo è la nostra espiazione. E’ entrato nella condizione celeste dietro la tenda del tempo. Lì è pronto a intercedere per noi e a essere con noi in ogni momento, fino alla fine dei tempi. La sua eternità è diventata la direzione stessa del tempo. Sicuramente il Cristianesimo ha superato la ciclicità fatidica dell’idea greca del tempo dandogli una direzione: Cristo, Colui che è. La speranza è ancorata a Lui, ovvero su un presente che in modo confidente va verso il futuro. Un grande modello nella scuola della speranza cristiana è San Giovanni Battista. Per alimentare la vera speranza dobbiamo imitare lui che è “voce” della Parola. Quando i farisei gli chiesero: «“Chi sei tu?”, affinché possiamo rispondere a coloro che ci hanno mandato. Che cosa hai da dire di te stesso?”, Giovanni Battista rispose dicendo: “Io sono la voce di uno che grida nel deserto: “Raddrizzate la via del Signore”, come disse il profeta Isaia» (Gv 1, 22-23). La speranza deve essere questa voce che fa risuonare la Parola. Il tempo ci è dato per “raddrizzare la via del Signore” e per adorarLo nella mangiatoia di Betlemme. Solo così saremo pronti ad accoglierLo alla fine dei tempi. Il tempo a noi tanto caro, la dimensione che più di ogni altra influenza la nostra condizione umana, non può quindi essere semplicemente una triplice distinzione di passato, presente e futuro, che sono piuttosto un’estensione dell’anima. Dovremmo invece definire il tempo come capacità di mettersi in movimento verso Cristo riconoscendo che Egli è il Logos eterno. Il tempo ci è dato per entrare nell’eternità di Dio. Per questo la speranza cristiana non può mai ingannare, né essere un gozzovigliare ozioso in attesa del futuro. Il nostro agire nel tempo è modellato su Cristo. La gioia restituisce il senso della speranza e la vera speranza ci dà una gioia senza fine. Poniamoci un’ultima domanda prima di concludere. Come possiamo diventare persone di speranza, irradiando la gioia cristiana in una società sempre più triste? La chiave è l’umiltà. Dobbiamo infatti scoprire che noi siamo solo “voce”, come Giovanni Battista; Cristo è il senso, la Verità, la Parola. Una voce, la nostra vita, è fatta per cercare il significato. Se diamo voce alla Parola iniziamo a vivere correttamente. Se adoriamo la Parola di Dio, il Figlio, in Lui troviamo il senso del tempo e di una speranza gioiosa. L’Avvento che conduce al Natale è il compimento della speranza nel dono di una gioia piena. Sant’Agostino ha descritto la missione del Battista, che in fondo dovrebbe essere anche la nostra, con una bellezza davvero unica. Ecco un passo dalla sua Omelia sulla Nascita di Giovanni Battista (293,3): «Giovanni è la voce, ma il Signore è il Verbo che era in principio. Giovanni è la voce che dura per un tempo; dal principio Cristo è la Parola che vive per sempre. Se si toglie la parola, il significato, che cos’è la voce? Dove non c’è comprensione, c’è solo un suono senza senso. La voce senza la parola colpisce l’orecchio ma non edifica il cuore… Egli vide dove stava la sua salvezza. Capì di essere una lampada, e la sua paura era che potesse essere spenta dal vento dell’orgoglio». Il timore del Battista è umiltà ancora più profonda nella Madonna, la Madre del nostro Salvatore. La Beata Vergine ha gioito all’ascolto della voce dell’Angelo all’Annunciazione e ha accolto il Verbo, prima nella sua intelligenza, poi attraverso il suo cuore nel suo grembo, diventando così la Madre del Verbo incarnato. Ella ci aiuti a gioire nell’ascolto della Parola di Dio e nel dare carne a questa Parola con le nostre buone opere. Questa gioia mariana è speranza in azione. Il nostro futuro non è un fato imprevedibile, ma è un presente pieno di speranza: è Cristo, che è e sarà. Maria ci indichi sempre Lui, il Figlio. |